domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera - Repubblica Rassegna Stampa
09.02.2009 Tregua Israele-Hamas ?
Tra le condizioni la liberazione di Gilad Shalit

Testata:Corriere della Sera - Repubblica
Autore: Francesco Battistini - Thomas Friedman - Alix Van Buren
Titolo: «Israele e Hamas - vicino l'accordo - La speranza di pace che arriva dall'America - L'opzione dei due stati ha ormai le ore contate il nuovo governo deicida»

Il tema della tregua Israele/Hamas affrontato sui quotidiani di oggi, 09/02/2009 : la cronaca di Francesco Battistini, l'opinione di Thomas Friedman e l'intervista di Alix Van Buren a Salaheddin al Bashir, ministro degli esteri giordano. Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Israele e Hamas - vicino l'accordo "

GERUSALEMME — Dilemma di Hamas: liberare Gilad Shalit prima del voto israeliano, cercando per la prima volta di non condizionarlo con una bomba, ma con uno scambio politico sul cessate il fuoco a Gaza, oppure aspettare le elezioni e vedere come va? Dilemma di Olmert: firmare la tregua prima che si aprano le urne, facendo un grande favore al Kadima di Tzipi Livni, o portare a casa l'accordo e magari Shalit a risultati certi, ma prima che sia un altro a farlo? La cosa di cui s'è meno parlato in questa campagna elettorale, è forse l'unica che al momento interessa davvero: la liberazione del caporale, la pace di Gaza. Una testa, migliaia di voti. Una firma, migliaia di dubbi. Di colpo, le voci tornano a impazzire — «l'accordo è imminente» — e tocca al premier Ehud Olmert definirle «esagerate e dannose », rimandando al viaggio per le capitali europee che sta facendo Hosni Mubarak, il presidente egiziano, il vero artefice della piccola pace. Qualcosa però accade se un ministro come Rafi Eitan, che si occupa di pensionati ma siede nella stanza dei bottoni, confida come ci siano «forti probabilità» che l'impasse con Hamas si sblocchi sotto il mandato di Olmert. Ovvero a giorni, se non a ore. Il dono di Olmert, lo chiamano. Quello con cui il premier dimissionario vorrebbe lasciare e farsi ricordare. Secondo Haaretz, il giornale, tutto è già nero su bianco. Un accordo di pace d'un anno e mezzo, rinnovabile, col permesso di far entrare 600 camion d'aiuti al giorno (tre volte quelli attuali); monitoraggio sui materiali che possano servire a fabbricare armi (acciaio, cemento, vetro); apertura del valico egiziano di Rafah (quello dei tunnel) con la supervisione d'osservatori internazionali e dell'Autorità palestinese di Abu Mazen. E soprattutto, scrive un altro giornale, l'arabo-londinese Al Hayat, lo scambio dei prigionieri: l'ostaggio Shalit, rapito due anni e mezzo fa, contro 350 detenuti di Fatah e Hamas. Con Israele che avrebbe detto no a 22 nomi, in particolare al rilascio di Ahmed Saadat, il leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina, ma avrebbe aggiunto un mezzo sì alla liberazione d'un carismatico capo: Marwan Barghuti, il segretario del Fatah, il capo delle milizie Tanzim, arrestato nel 2002 e condannato nel 2004 a cinque ergastoli per l'uccisione di cinque israeliani. Pochi giorni fa, Barghuti se n'era uscito con una dichiarazione conciliatoria, aveva parlato della necessità di ricucire i rapporti tra Fatah e Hamas.
Popolarissimo a Gaza, per molti potrebbe essere lui l'uomo- cerniera delle dirigenze palestinesi. L'unico capace di rimpiazzare lo screditato entourage di Abu Mazen. «Per la prima volta dal suo sequestro — scrive Ben Caspit, un osservatore politico di Ma'ariv — le circostanze per la liberazione di Shalit prendono veramente forma»: un governo di transizione e un premier uscente, senza l'ansia del risultato elettorale; un'organizzazione come Hamas, colpita e ferita, che ha urgente bisogno di recuperare consenso.
Nelle dichiarazioni, nessuno l'ammette: «La nostra agenda non funziona sulle elezioni israeliane », dice Mohammed Nazal. «Non siamo una repubblica delle banane, o di Obama», annotano i commentatori filogoverno. Ma qualcosa significa, il ministro Ehud Barak che parla di «sforzi supremi». O il reaparecido Muhammed al Zahar, il numero due di Hamas a Gaza, che dà un'intervista per correggere l'ala ribelle di Damasco e precisare: «Il programma della vecchia Olp, va cambiato. Ma l'Olp va mantenuta». Come dire: il dono di Olmert si può accettare, se questo dono si chiama cacciare Abu Mazen e riprendersi Barghuti.

La REPUBBLICA - Thomas Friedman : " La speranza di pace che arriva dall'America "

JENIN (WEST BANK) - In Israele tutti mi bersagliano di domande sulle intenzioni di Barack Obama riguardo al processo di pace. Scommetto che le sue primissime tre priorità siano le banche, poi le banche e poi ancora le banche, e nessuna di queste è la West Bank. Ma quando Obama sarà in grado di ragionare con serenità sul Medio Oriente, capirà che Bush gli ha lasciato in eredità qualcosa di interessante: un generale dell´Esercito Usa impegnato nel nation-building , nell´edificare le strutture di uno Stato nella West Bank. Infatti non si arriverà alla soluzione pacifica dei due Stati contigui, Israele e la Palestina, senza che uno di questi - oggi l´Autorità palestinese nella West Bank � disponga di istituzioni nazionali, in particolare di una forza di polizia efficace. Perciò spero che Obama si concentri non solo sui piani di pace imposti dall´alto, ma anche sulla creazione dal basso delle istituzioni necessarie. Per isolare Hamas a Gaza non c´è via migliore che trasformare l´Autorità palestinese in un governo che si rispetti, e che controlli il proprio territorio.
Tutto ciò spetta al generale Keith Dayton, l´unico militare americano nella West Bank. L´ho seguito in visita a Jenin, mentre passava in rassegna il Secondo Battaglione speciale delle forze di sicurezza nazionali palestinesi (Nsf) al termine dell´addestramento compiuto dalla polizia giordana nell´ambito di un programma americano gestito dallo stesso Dayton. Il generale ha ricevuto questo incarico nel 2005 da Bush per riformare la sicurezza palestinese, ma ha ottenuto i fondi soltanto dopo che Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007. Da allora sono stati addestrati circa 1.600 Nsf palestinesi: l´unica forza professionista agli ordini del presidente Mahmoud Abbas.
L´esercito israeliano, prima scettico, ha dovuto ricredersi e ne ha consentito la presenza anche a Hebron. Decisivo è stato il fatto che durante la guerra di Gaza, la West Bank non sia esplosa, anche perché i soldati dell´Nsf hanno evitato che i dimostranti palestinesi si scontrassero con i soldati israeliani. Ora i finanziamenti per l´opera di Dayton sono agli sgoccioli. Se si esaurissero, sarebbe un vero peccato. Infatti la missione del generale è la premessa da cui partire per ricostruire. Gidi Grinstein, presidente del Reut Institute israeliano, dice che il nodo della questione "non è solo il territorio, ma come riempirlo". «Certo, Jenin è importante: si iniziano a costruire le istituzioni su cui poi si edificherà uno Stato e da lì si procederà all´indipendenza». Però la legittimità della polizia palestinese si fonda su un progresso nelle trattative di pace e sulla cessione del controllo di altri territori ai palestinesi da parte di Israele «altrimenti sarà considerata uno strumento per promuovere l´occupazione». In conclusione, la diplomazia di George Mitchell, l´inviato di Obama, è importante. Però se non aumenta l´impegno americano nel costruire una capacità di governo nella West Bank, nulla sarà possibile.

La REPUBBLICA - Alix Van Buren : " L'opzione dei due stati ha ormai le ore contate il nuovo governo deicida ".
Il ministro degli Esteri giordano attribuisce la colpa della situazione esplosiva in Medio Oriente a Israele e ai suoi governi.Presenta il piano di pace arabo  non come una base negoziale, ma come un diktat, che Israele dovrà "prendere o lasciare", dunque senza poter obiettare nemmeno all'idea del "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi, che, se applicato, condurebbe alla scomparsa dello Stato ebraico.  Desta poi sorpresa e amerezza constatare che il ministro degli Esteri di uno Stato arabo che ha firmato un trattato di pace con Israele, definisce "resistenza" il terrorismo di Hamas.

Ecco il testo:

«dimentichi per un attimo l´Iran, le divisioni fra gli arabi: quel che conta adesso è il conflitto israelo-palestinese, perché da lì discende il futuro della regione. Il governo israeliano che uscirà dalle urne dovrà fare una scelta strategica. La pace, per tutti, è appesa a un filo». Salaheddin al Bashir, ministro degli Esteri giordano è a Roma. Reca con sé il messaggio indirizzato all´Europa dalla Corte hashemita.
Signor ministro, re Abdallah II di Giordania è stato interpellato fra i primi dal presidente americano Obama. Cosa gli ha suggerito per disinnescare la crisi?
«L´avvio urgente di un negoziato concreto, con un calendario e obiettivi precisi in vista di uno Stato palestinese, archiviando un processo di pace che ha prodotto nulla, salvo una guerra dall´impatto incalcolabile».
Quale?
«Ha inasprito la frattura tra i palestinesi, tra Fatah e Hamas, col rischio che si creino due fonti distinte di legittimità. Soprattutto ha assestato una spallata formidabile alle speranze di pace: si alimenta la politica della disperazione, si radica la pericolosa convinzione che il negoziato serva a niente».
Il progetto di Annapolis è tutto da rifare?
«Le risponderò con delle cifre. Nel 2008 le colonie israeliane nei territori palestinesi sono aumentate del 60 per cento: un record storico. Questo vuol dire che la soluzione dei due Stati ha le ore contate, infatti non rimarranno terre per uno Stato palestinese. E c´è un altro calcolo da fare, ma quello spetta a Israele».
Vale a dire?
«Il governo israeliano dovrà valutare il piano di pace arabo, che giace inerte sul tavolo da 7 anni. Dovrà considerare che è stato sottoscritto da 22 Paesi arabi e dalla Conferenza islamica: stiamo parlando di ben 57 nazioni, un terzo degli Stati membri dell´Onu, disposte a normalizzare i rapporti con Israele, col sostegno dell´America e della Ue. Ebbene, arriverà entro breve il momento del prendere o lasciare. Israele dovrà fare una scelta strategica, dimostrare se è o no un partner sincero».
Dovrà anche emergere un unico interlocutore palestinese. La guerra ha indebolito Hamas?
«Schiacciare la resistenza in un territorio occupato è un futile esercizio: fomenta solo odio e rabbia. Il nostro impegno, con l´Egitto, è di riconciliare i partiti palestinesi, scongiurare la frattura fra la West Bank e Gaza».
La Giordania ha fatto dello Stato palestinese una questione di sicurezza nazionale. Perché?
«Noi confiniamo con quelle terre, qualsiasi cosa accada lì influisce sulla nostra stabilità. La soluzione è chiarissima: due Stati che vivano in pace e sicurezza. Chi parla di tre o persino di cinque Stati, vagheggiando di trasferire in Giordania la popolazione della West Bank, prospetta fantasie. L´alternativa non è "l´opzione giordana": è lo stato unico, binazionale, che noi non appoggiamo. Ecco perché Israele deve fare una scelta strategica rispetto al suo futuro».
Lei ha ricevuto il senatore Mitchell, inviato da Obama. Com´è andato l´incontro?
«L´impegno del presidente per la pace è serio. Le sue aperture al mondo musulmano, la velocità con cui ha spedito il suo inviato sono messaggio forte. L´elezione di Obama ha prodotto un´euforia, l´attesa di un cambiamento che il Medio Oriente aspetta da 60 anni».

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT