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Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
01.02.2009 Crepe in Hamas, Carter e Blair non le vedono, Benny Morris vede lontano
Gli articoli di Davide Frattini, Umberto De Giovannangeli, Benny Morris

Testata:Corriere della Sera - L'Unità
Autore: Davide Frattini - Umberto De Giovannangeli - Benny Morris
Titolo: «Crepe in Hamas - Intervista a Carter - Benny Morris su Gaza»

Oggi, 01/02/2009, quasi tutti i giornali riportano le dichiarazioni di Tony Blair, per il quale occorre coinvolgere Hamas per arrivare ad una soluzione del conflitto mediorientale. Poichè riteniamo che Hamas sia il problema e non la soluzione, non entriamo in merito alle sue dichiarazioni, ritenendolo tempo sprecato. Oltretutto, Tony Blair da quando non è più premier non ha avuto molto tempo da dedicare al problema mediorientale, come avrebbe dovuto fare, essendo molto impegnato a girare il mondo incassando proficue prebende per le sue conferenze. Avrà perso qualche puntata e qui forse sta la spiegazione di quanto ha affermato. Chi ha applaudito è invece Massimo D'Alema il quale, a quanto dicono, è stato sentito esclamare " L'avevo detto prima io, l'avevo detto prima io ! ".
Sull'argomento pubblichiamo dal CORRIERE della SERA l'articolo di Davide Frattini sulle divisioni interne di Hamas.
Dall'UNITA' l'intervista a Jimmy Carter di Umberto De Giovannangeli, e per concludere dal CORRIERE della SERA l'analisi del conflitto di Gaza di Benny Morris.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Moderati contro Meshaal , prime crepe "

GAZA — Sono le notti delle bombe. Davanti al computer, uno dei leader di Hamas nella Striscia sta chattando con Osama Hamdan, capo dell'organizzazione a Beirut. Se fossero al telefono, si sentirebbero le urla. La linea oltranzista di chi sta fuori si scontra con quella di chi è in prima linea e cerca una soluzione. Dai bunker di Gaza, i dirigenti fondamentalisti ripetono: «Ve l'avevamo detto».
Le pressioni a rompere la tregua di sei mesi con Israele sarebbero arrivate da Khaled Meshaal: dalla Siria ha imposto di forzare la provocazione. Perfino Ahmed Jaabari, di fatto il comandante in capo delle forze di Hamas, avrebbe avvertito «non siamo pronti a contrastare l'offensiva». Così racconta il giornale egiziano Al Ahram e così confermano fonti del movimento a Gaza. I ventidue giorni di conflitto sono finiti, la rabbia contro Meshaal resta anonima. Commenta uno dei leader: «I suoi discorsi durante la guerra mi hanno ricordato Benito Mussolini. Proclamava una vittoria che nessuno vedeva. Ho chiamato Meshaal alla fine degli scontri e gli ho detto: gli israeliani non hanno vinto e noi non siamo stati sconfitti, però non puoi parlare di trionfo».
La Casa della Saggezza sta in un palazzone sul lungomare di Gaza. Negli uffici all'ultimo piano, lavora Ahmed Yussef. E' chiamato l'«americano» per gli anni passati negli Stati Uniti e perché sarebbe stato incaricato di seguire i rapporti con l'amministrazione di Barack Obama. Nega le divisioni («perché fate tutti questa domanda, ve lo ha suggerito Israele?»), ammette solo «discussioni interne, che hanno prodotto una strategia comune». Eppure sarebbe stato lui a contestare in una riunione le decisioni di Meshaal, «uno che non vive in Palestina da quarant'anni ».
Hamas a Gaza pensa alla ricostruzione, sa che il primo mattone da sistemare è quello dell'unità nazionale. Un accordo con il Fatah del presidente Abu Mazen permetterebbe di aprire il canale degli aiuti verso la Striscia. Hamas all'estero minaccia di far saltare qualunque trattativa con il leader della Muqata, se dovesse riprendere i negoziati con Israele. «Dobbiamo dedicarci a una riflessione su quello che è accaduto », dice Ghazi Hamad.
Fino alla fine del 2007 portavoce di Ismail Haniyeh, il premier deposto da Abu Mazen, è stato allontanato per aver criticato il colpo militare che ha dato ad Hamas il controllo della Striscia. Sostiene il dialogo con gli avversari di Ramallah e si è dissociato dai proclami di Meshaal, quando ha sostenuto la necessità di «andare oltre l'Organizzazione per la liberazione della Palestina». «La gente non ne può più di queste divisioni. La ricostruzione è la nostra priorità, ma non possiamo dedicarci solo al cemento. E' quello che vogliono gli israeliani, tenerci impegnati. Il movimento deve pensare al futuro politico e preservare la tregua è importante. Vogliamo essere parte della comunità internazionale, non abbiamo interesse a moltiplicare le crisi o a sfidare il mondo».
La voce controllata di Hamad è in contrasto con le urla al megafono di Khalil Al-Hayeh. Davanti al parlamento palestinese distrutto, proclama vittoria: «Il nostro popolo dice sì al martirio e alla resistenza nel nome di Allah ».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Stato palestinese, solo così Israele eviterà la catastrofe ".

Jimmy Carter è l'esempio vivente di come uno possa vincere il premio Nobel per un merito che non ha mai avuto. Come scrive più avanti Udg, a Carter viene attribuito il merito della pace tra Egitto e Israele, mentre a meritare il premio dovevano essere esclusivamente Begin e Sadat. Sono stati loro ad aver fatto la pace, e oggi, con le cretinate che dice l'ex presidente americano, potremmo anche dire malgrado lui. Fu il padrone di casa che ospitò i due leader, ma niente di più. Basta leggere quello che dichiara a Udg, il quale esprime la sua posizione prima dell'intervista.

Il suo contributo risultò decisivo per giungere agli accordi di Camp David (1979) che sancirono la pace fra Israele e l’Egitto. Nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. È Jimmy Carter, 85 anni, trentanovesimo presidente degli Stati Uniti tra il 1977 e il 1981. Per le sue posizioni critiche rispetto all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, racchiuse nel suo libro sul conflitto israelo-palestinese, «Palestine, Peace, not Apartheid», (2006) è stato tacciato di «simpatie pro-Hamas». Nel libro, Carter sottolinea che la politica di Israele nei Territori è «un sistema di apartheid, con due popoli che occupano lo stesso Paese ma che sono completamente separati l’uno dall’altro, con gli israeliani che dominano, opprimono e privano i palestinesi dei loro diritti umani basilari». Critiche che si sono moltiplicate dopo le sue affermazioni sulla necessità di prendere atto che «Hamas ha vinto libere elezioni (gennaio 2006, ndr.) e che rappresenta almeno la metà del popolo palestinese». Per questo, l’ex presidente Usa, continua a ritenere «irrealistica» la politica di non parlare con Hamas. Nel recente passato, Carter Usa ha cercato di svolgere un ruolo di «pacificatore» nella martoriata Terrasanta. «Ho avuto modo di incontrare i dirigenti di Hamas nelle settimane precedenti la rottura della tregua. Era evidente che per consolidarla una delle questioni preminenti era la riapertura dei valichi di frontiera (tra Israele e Gaza, ndr.)». Per aver incontrato in Siria il leader di Hamas, Khaled Meshaal, Carter - che ha sempre ritenuto un «crimine» il lancio di razzi da parte delle milizie palestinesi - fu aspramente criticato da Israele e dalla passata amministrazione Bush. L’artefice della pace fra lo Stato ebraico e l’Egitto si disse «dispiaciuto» di quelle critiche. «Il problema - sottolinea Carter - non è che mi sono incontrato con Hamas in Siria. Il problema è il rifiuto di Israele e degli Stati Uniti di incontrarsi con qualcuno che deve essere coinvolto».
Le sue idee sulla pace possibile, Carter, 85 anni le ha ora raccolte in un libro uscito in questi giorni negli Stati Uniti: «We can have peace in the Holy Land». La tesi di fondo, afferma l’ex presidente Usa, «è che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese. La non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele». Perché non c’è alcuna Barriera di sicurezza o potenza militare che potrà difendere Israele dalla «bomba demografica». In passato, l’ex presidente Usa ha usato parole molto dure per stigmatizzare l’assedio israeliano imposto alla Striscia di Gaza: «Si tratta - denuncia Carter - di uno dei più grandi crimini contro i diritti dell’uomo». In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, l’ottuagenario Premio Nobel per la Pace ha risposto ad alcune domande dell’Unità. Sulla più stretta attualità, l’ottuagenario Premio Nobel, si dice convinto che «la devastante invasione di Gaza da parte israeliana poteva essere evitata. Ora si tratta di operare per una estensione del cessate il fuoco; si tratta di un passaggio cruciale che non deve però restare fine a se stesso. Perché l’obiettivo da perseguire è quello di una pace globale e permanente. Sono convinto che il presidente Obama intende muoversi in questa direzione».
Signor Presidente, in un suo recente intervento sul Washington Post, dal titolo "Una guerra non necessaria", Lei ha sostenuto che non sono state le milizie palestinesi a rompere la tregua a Gaza. Una tesi controcorrente.
«In quell’articolo ho provato a ricostruire i fatti. Dopo la firma della tregua di giugno il lancio dei razzi da parte di Hamas fu subito interrotto e ci fu un aumento nelle forniture di cibo, acqua, medicinali e combustibile (da parte di Israele, ndr). Tuttavia l’aumento fu in media del venti percento del livello normale. E questa fragile tregua fu parzialmente rotta il 4 novembre, quando Israele lanciò un attacco a Gaza per distruggere un tunnel difensivo che veniva scavato da Hamas all’interno del muro che rinchiude Gaza. Non vedo nessun preconcetto anti-israeliano in questa ricostruzione».
Il mondo ha assistito sgomento alla guerra di Gaza. La diplomazia e il dialogo sono impotenti nella martoriata Terrasanta?
«Guai se fosse così. Sarebbe una catastrofe per tutti. Non solo per i palestinesi, ma anche per Israele. Sono profondamente convinto, ed è ciò che ho cercato di argomentare nel mio libro, è che la vera catastrofe per Israele sarebbe la mancata nascita di uno Stato indipendente palestinese».
Su cosa fonda questa considerazione?
«Sulle tre opzioni alternative conseguenti alla soluzione di un solo Stato. Ognuna di queste opzioni avrebbe ricadute catastrofiche sul futuro di Israele e sulla stabilità dell’intero medio Oriente. La prima opzione sarebbe quella di espellere forzatamente centinaia di migliaia di palestinesi dalla Cisgiordania, il che significherebbe attuare una vera e propria pulizia etnica. La seconda opzione è quella di negare ai palestinesi la parità dei diritti di cittadinanza, a partire dal diritto di voto. Ciò significherebbe imporre un vero e proprio regime di apartheid. C’è poi la terza opzione: quella di riconoscere ai palestinesi parità di cittadinanza e dunque il diritto di voto».
Cosa c’è di catastrofico per Israele in questa opzione?
«La fine di Israele come Stato ebraico, ovvero l’autocancellazione di uno dei pilastri che sono a fondamento della nascita dello Stato d’Israele: il suo essere focolaio nazionale del popolo ebraico. La politica sarebbe con ogni probabilità orientata dai palestinesi, più compatti rispetto agli israeliani che appaiono al proprio interno maggiormente divisi, e grazie alla crescita demografica maggioritari sul piano numerico in un futuro non lontano. E contro la "bomba demografica" non c’è Barriera di sicurezza e potenza militare che tengano. Resta la politica. Questa è l’"arma" che Israele dovrebbe usare per evitare la catastrofe».
L’"arma" della politica. Lei sottolinea la necessità di giungere ad una pace globale e permanente. È un punto centrale del suo ultimo libro. Su quale base dovrebbe fondarsi l’auspicato accordo di pace?
«Resto convinto che l’opzione dei due Stati sia ancora la migliore, quella su cui concentrare tutti gli sforzi diplomatici. Ciò implica un "dare e avere" da parte di tutti. Di Israele, che dovrà riconoscere una Palestina indipendente su gran parte dei territori occupati nel 1967. Dei palestinesi, che dovranno accettare un ragionevole compromesso sul diritto al ritorno dei profughi del ’48. E da parte dei vicini arabi, che dovranno riconoscere il diritto di Israele a esistere in pace. Per nessuno dei soggetti in questione la pace può essere a costo zero».

CORRIERE della SERA - Benny Morris : " Dopo Gaza una pace più facile "

Dopo le analisi del " premio Nobel ", ben venga il piacere della lettura del pezzo di Benny Morris:

La rappresaglia israeliana contro Hamas a Gaza potrebbe essere preludio a un importante passo avanti per sbloccare il processo di pace arabo- israeliano, proprio come la Guerra di ottobre nel 1973 portò alla firma della pace tra Egitto e Israele e l'invasione del Libano nel 1982 produsse un'attenuazione delle posizioni intransigenti del Plo e l'inizio dei colloqui di Oslo tra israeliani e palestinesi.
Certo, con il suo ripudio dogmatico e teologico del Sionismo e di Israele e di qualsiasi forma di dialogo con l'infedele, Hamas opporrà un rifiuto incrollabile, malgrado il crescente ostracismo da parte della comunità internazionale. Ma è palese che agli oppositori del processo di pace è stato inflitto un durissimo colpo. Hamas, una delle filiali di Teheran, ha subito perdite cocenti. Allo stesso tempo, indubbiamente, gli Stati arabi — specie i «moderati», come Arabia Saudita ed Egitto — sono rimasti stupefatti dalla potenza e dall'accuratezza dell'aviazione militare israeliana e dalla risolutezza e dall'abilità dimostrata dalle forze di terra.
L'opzione bellica dei Paesi arabi, che dai tempi della sconfitta egiziana e siriana nel 1973 e nel 1982 è stata lungi dal sembrare convincente, oggi rischia ancor più di retrocedere nell'oblio. E questo promette di incoraggiare una maggior flessibilità tra i sostenitori arabi (sunniti) del piano di pace proposto dalla lega arabo- saudita nel 2002, specie tra coloro che vedono con preoccupazione il programma nucleare iraniano (sciita) e le ambizioni di Teheran nella regione.
Quel piano presentava tuttavia al governo israeliano un certo numero di problemi insormontabili, il più spinoso dei quali era l'insistenza per una soluzione al problema dei profughi palestinesi basata sulla risoluzione 194 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del dicembre 1948, che nell'interpretazione araba appoggia il «diritto al ritorno» e al ritiro completo da parte di Israele fino ai confini del 5 giugno 1967. Secondo tutti i sondaggi di opinione, oltre il 90% degli ebrei israeliani si oppone al rientro dei profughi, perché rischia di trasformare lo Stato ebraico in uno Stato a maggioranza araba. E la maggior parte degli ebrei israeliani, benché a favore di uno Stato palestinese, non è disposta a rinunciare ai nuovi confini che includono gli insediamenti della Cisgiordania, come il Blocco Etzion. Al contempo, la campagna militare contro Hamas, che per gli ebrei è stata portata a termine con successo, potrebbe convincere la leadership israeliana — nella sua nuova compagine scaturita dalle imminenti elezioni politiche — a far mostra di una maggior disponibilità nelle trattative con l'Autorità palestinese e forse anche con la Siria.
Gli eventi del 2006, malgrado l'attacco israeliano dell'anno seguente andato a segno contro il reattore nucleare siriano, avevano segnato un indebolimento del deterrente israeliano. La campagna di Gaza ha ristabilito quel deterrente e riacceso i timori arabi nei confronti di Israele.
È indubbio che l'attacco israeliano contro Hamas abbia lasciato l'amaro in bocca a molti arabi. Ma i governi degli Stati arabi «moderati», nel Golfo e altrove, quando le passioni popolari (e populiste) si saranno calmate, sapranno valutare realisticamente gli equilibri di forza nella regione. E la ritrovata statura di Israele nelle cancellerie occidentali non sarà passata inosservata nel mondo arabo. Pertanto, paradossalmente, la campagna di Gaza potrebbe condurre a un nuovo giro di negoziati arabo-israeliani — come è accaduto dopo i conflitti del 1973 e del 1982 — quando tutti gli interessati, tranne i fondamentalisti islamici, saranno più disposti al compromesso e alla conciliazione.

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