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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio - Il Messaggero - Il Riformista - Il Manifesto Rassegna Stampa
27.01.2009 Antisemitismo: chi deve ricordare nella Giornata della Memoria, e come
le opinioni di Arrigo Levi, Giorgio Israel, Mariarosa Mancuso, David Meghnagi, David Bidussa, Valentina Pisanty (tradita dal quotidiano comunista)

Testata:La Stampa - Il Foglio - Il Messaggero - Il Riformista - Il Manifesto
Autore: Arrigo Levi - Giorgio Israel - Mariarosa Mancuso - David Meghnagi - Luca Mastrantonio - Valentina Pisanty
Titolo: «Non ebrei tocca a voi ricordare - La Shoah, frattura nella memoria collettiva - La nottata della memoria - Cenere umana ovvero il revisionismo travestito da pietas - Sinistri antisemitismi e memoria in crisi dopo le Torri gemelle - In memoria della memor»
Dalla prima pagina e da pagina 37 della STAMPA del 27 gennaio 2009, l'editoriale di Arrigo Levi "Non ebrei tocca a voi ricordare":

E se gli italiani fossero più antisemiti oggi che al tempo del fascismo, delle leggi razziali, e della caccia agli ebrei per mandarli a morire nelle camere a gas? È il dubbio che mi pesa sull’anima, leggendo i risultati dell’inchiesta sull’antisemitismo in Italia pubblicata sul Corriere della Sera di ieri. Lo stesso Corriere è rimasto così sconcertato dai dati da minimizzarli nel titolo, che dice: «Sono antisemiti 12 italiani su 100».
Ma non è così. Gli antisemiti che si dicono tali oggi in Italia sono il 45 per cento, suddivisi in varie categorie di «pregiudizio»: chi (il 10 per cento) per antigiudaismo religioso-culturale; chi (l’11 per cento) perché ritiene gli ebrei troppo potenti e poco patrioti; chi (il 12 per cento) perché ce l’ha con Israele e con quella scocciatura che è la Shoah. Infine, c’è un 12 per cento di antisemiti per tutte queste ragioni insieme. Si aggiunga che soltanto il 12 per cento dice di non avere pregiudizi. Mentre il 43 per cento si dichiara soltanto «indifferente» al problema. Il titolo più giusto sarebbe stato: «Non sono antisemiti 12 italiani su 100».
Nel 1938, quando il fascismo approvò le leggi razziali, avevo 12 anni, vivevo a Modena, andavo a scuola e al circolo del tennis, ero anche, ahimè, un balilla. Ciò detto, fino ad allora noi non avevamo sofferto di pregiudizi antisemiti.
A proposito dell’affare Dreyfus in Francia, ci era stato detto che questo non sarebbe mai potuto accadere in Italia, dove gli ebrei eroi del Risorgimento erano innumerevoli, dove c’erano stati primi ministri e ministri della guerra ebrei, ebrei la prima e l’ultima medaglia d’oro della Grande Guerra, ebreo il generale Ottolenghi, già precettore del Re. Ci dicevano con convinzione che in Italia l’antisemitismo era scomparso. Noi giovani non ne avemmo alcun segno, fino al giorno fatale delle leggi razziali. Dopo la guerra, gli otto o novemila ebrei italiani assassinati nei lager tedeschi li attribuimmo ai nazisti e ai fascisti, che giudicammo cattivi italiani. Mentre i 25 mila circa che si salvarono lo dovevano all’aiuto di buoni italiani, di quasi sconosciuti «Giusti» cristiani.
Così ci riconciliammo presto con l’Italia repubblicana, e pensammo che dopo la Shoah l’era dell’antisemitismo fosse finita. Quando nacque lo Stato d’Israele, gli italiani ci parvero tutti o quasi tutti filo-israeliani. Rassegnarci, sessant’anni dopo, all’idea di un’Italia largamente antisemita, è così difficile da farci sembrare sbagliati quei dati. Ma sembra che siano veritieri. Neanche possiamo «consolarci» pensando che il nuovo antisemitismo si debba all’effetto, che speriamo momentaneo, della guerra di Gaza. L’effetto Shoah-Gaza riguarda solo il 12 per cento degli antisemiti italiani. Gli altri lo sono per motivi più radicati, non occasionali.
Rimugino fra me e me questi dati, con il turbamento che si può immaginare, cercando di consolarmi col pensiero che tanti antisemiti, attorno a me, non li vedo proprio. Ma forse sono un privilegiato. Cerco spiegazioni, e non le trovo. Trovo soltanto un pensiero, un monito: state attenti, amici non ebrei, che la Shoah non ricorda una tragedia ebraica, ma una tragedia europea. Non riguarda le vittime, ma i colpevoli. Il Giorno della Memoria non è fatto per ricordare gli ebrei morti, ma i non ebrei che li hanno ammazzati. È fatto per mettervi in guardia contro le idee ignobili dei carnefici, nella speranza che queste idee siano morte. Sembra che non lo siano.
Non è importante che al Giorno della Memoria partecipino gli ebrei. Noi non ne abbiamo bisogno, per ricordare. Sono i non ebrei che debbono parteciparvi, col pentimento nell’anima. Il Giorno della Memoria non è fatto per noi. È fatto per voi.

Dalla prima pagina dell'inserto del FOGLIO, l'articolo di Giorgio Israel "La nottata della memoria":

Nel 1988, nel cinquantenario delle Leggi razziali fasciste, la presidente della Camera Nilde Iotti promosse il primo convegno importante sul tema. Il panorama storiografico era povero, quasi asfittico con l’eccezione della “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” di Renzo De Felice, la cui tesi di fondo era che le leggi razziali erano state mera conseguenza del Patto d’acciaio stretto tra Mussolini e Hitler. Dieci anni dopo, nel 1998, il panorama era cambiato. La letteratura era moderatamente cresciuta, si era fatta strada la tesi che il razzismo fascista fosse stato qualcosa di più: un’elaborazione originale cui il mondo intellettuale e scientifico italiano aveva partecipato in modo attivo anche dividendosi in posizioni diverse. Oggi, a distanza di vent’anni, la letteratura sul tema è sterminata. E’ stato un progresso? Certamente sì: se non altro, abbiamo a disposizione una documentazione imponente. Nel frattempo, l’istituzione della Giornata della Memoria ha creato una tribuna in cui esibire questa letteratura, diventando al contempo uno stimolo ad una sua ulteriore crescita. Consultando i programmi della Giornata in questo 2009 si constata che il numero delle iniziative ha raggiunto livelli inimmaginabili: sono previsti incontri su incontri, nella stessa città, alla stessa ora e persino nello stesso edificio… Tutte le scuole sono mobilitate per offrire pubblico agli “eventi” e non c’è chi non venga reclutato per “testimoniare” nelle vesti più svariate.

E’ un’ipertrofia che ha raggiunto livelli patologici. Ed è spontaneo chiedersi che cosa stia trasmettendo questa miriade di iniziative. Torniamo alla storiografia. In vent’anni, siamo passati dalla tesi riduttiva di De Felice a tesi esorbitanti che ci parlano di un Mussolini non meno antisemita di Hitler, di leggi razziali italiane addirittura più dure di quelle tedesche, che presentano l’endocrinologo Nicola Pende come il nostro Alfred Rosenberg ovvero l’ideologo italiano della superiorità razziale. Se fino a una decina di anni fa occorreva faticare per trasmettere il messaggio che pure in Italia si era fatto del razzismo e dell’antisemitismo di stato e che le persecuzioni antiebraiche non erano state soltanto opera dei tedeschi, oggi siamo nella situazione opposta. Al punto che nasce spontaneo il desiderio di avvertire che il razzismo italiano non è stato il punto più basso dell’efferatezza nell’universo.

Poco tempo fa partecipai a un incontro nello stile delle manifestazioni della Giornata della Memoria. Il pubblico era prevalentemente studentesco. Intervenne prima di me una nota personalità, che non cito perché non miro a polemiche personali. Questi si scatenò nell’ordine di idee sopra descritto. In un crescendo apocalittico dipinse l’Italia degli anni Trenta come un paese di razzisti cinici e crudeli e concluse con veemenza: “Noi italiani siamo tutti colpevoli… siete tutti colpevoli… fino a che non capiremo il male che abbiamo fatto rischieremo che il passato si ripeta”. Osservavo i volti degli studenti, interdetti o increduli, chiedendomi quali effetti potesse produrre un messaggio simile, un uso della storia piegato a un’esagerata predica moralistica. Come può – mi chiedevo – un quindicenne, una persona tutta proiettata nel futuro, sentirsi scagliare addosso con tanta pesantezza il passato? Come può tornare a casa e chiedersi se suo padre non sia un criminale? E sentirsi obbligato a riconoscere la colpevolezza dell’intera comunità in cui vive per non dover pensare a se stesso come complice di un crimine collettivo? Che cosa diventerà per lui l’immagine dell’ebreo se non un minaccioso (e, in fin dei conti, insostenibile) incubo che gli sta davanti col dito puntato a ricordare che la Colpa Storica è una pietra che è costretto a portare appesa al collo per il resto dell’esistenza? Come ebreo mi dimetto da un simile ruolo. Come studioso rigetto questo pessimo uso della storia. Non si producono centinaia di pubblicazioni “scientifiche” al solo fine di bruciarle nel falò di un moralismo al servizio di finalità politiche. Di quali finalità politiche si tratta? Se l’interpretazione di De Felice appare oggi riduttiva, il suo libro ebbe il grande merito di rompere una cortina di silenzio sulle politiche fasciste della razza. In particolare, nella storiografia comunista la vicenda delle leggi razziali e, più in generale della Shoah, era un fatto accessorio, seguendo il punto di vista bene espresso da una frase del film “All’armi, siam fascisti” di Del Fra, Mangini e Micciché: “Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza”. Tutto doveva essere ricondotto alla lotta di classe. La Shoah era soltanto un evento nel panorama dei crimini nazisti e le leggi razziali italiane un sotto-evento.

Le cose cambiarono radicalmente alla fine degli anni Ottanta, con il crollo del comunismo. Paradossalmente un ruolo decisivo lo ebbe l’incapacità (o la mancanza di volontà) di gran parte della sinistra di tagliare i ponti col passato. Si tentò di costruire il futuro attraverso una transizione capace di recuperare e valorizzare parte della passata esperienza comunista. Solo che quel che prima era ovvio – la superiorità morale del comunismo sul nazifascismo – occorreva ora dimostrarlo. La storiografia “antifascista” fu chiamata a questo compito. Così, all’improvviso, fu rivalutata la centralità suprema della Shoah e il tema del razzismo divenne centrale. Per dimostrare che il nazifascismo era stato il pozzo dell’abiezione occorreva dimostrare che il suo delitto era incomparabilmente peggiore di qualsiasi altro, in particolare di quelli del comunismo. Lo si è detto in un recente convegno: in fin dei conti il Gulag era un progetto di lavoro a differenza del Lager che era un progetto di sterminio… E pochi giorni fa si è autorevolmente ribadito: il comunismo ha combattuto il fascismo e pertanto ha difeso gli ebrei.

Per compiere fino in fondo il salvataggio parziale del patrimonio storico della sinistra comunista occorreva precipitare anche il fascismo nel girone più basso dell’inferno. Di qui il proliferare di tesi estreme: Mussolini era antisemita fin dalla culla, il razzismo italiano era biologistico quanto e più di quello tedesco, le leggi razziali italiane erano le più crudeli di tutte, e via di questo passo fino alle requisitorie contro la colpa collettiva di un intero popolo che si sarebbe rivelato molto diverso dallo slogan “Italiani brava gente”. La tesi dell’“unicità” della Shoah (e delle politiche razziali del fascismo), per tanti anni ignorata e persino dileggiata, è divenuta un cavallo di battaglia in quanto argomento per dimostrare che il nazifascismo sta da solo nel girone più basso dell’inferno perché ha compiuto “il” crimine più grande di tutti.
Avevamo bisogno di visioni equilibrate e razionali da trasmettere ai giovani. Invece, dalla minimizzazione siamo finiti al delirio degli eventi metastorici. Negli anni Ottanta Alain Finkielkraut (“L’avenir d’une négation”) denunciò i rischi dell’idea dell’unicità della Shoah e dell’invenzione del concetto di “genocidio”. Egli ammoniva che, se il genocidio degli ebrei veniva presentato come un evento assoluto e unico, tutti avrebbero voluto impadronirsi di un simile privilegio: ogni infame – egli avvertiva – d’ora in poi sarà un fascista e ogni vittima un portatore di stella gialla. Prevedeva un codazzo di minoranze e “oppressi” alla ricerca del privilegio di una “loro” Shoah. Sembrava il pessimismo di una Cassandra. La realtà ha superato la fantasia. Per restare alla cronaca recente si pensi a quel corteo di insegnanti romani che hanno marciato con la stella gialla appuntata sul petto per protestare contro la “Shoah” messa in atto dal ministro Gelmini nei loro confronti. L’ex-ministro dell’università Mussi ha fatto eco proclamando che “è in atto un Olocausto di migliaia e migliaia di ricercatori”. Sono esempi al confine del tragicomico ma questa è la situazione: introdurre nella storia la metastoria produce risultati paradossali: l’assoluta unicità che genera il suo contrario…

Come stupirsi allora se la memoria della Shoah non porta mai (o quasi mai) a parlare delle forme presenti dell’intolleranza antisemita, e neppure di quelle terribili stragi che sole evocano la Shoah, come il genocidio del Rwanda o il dramma del Darfur, bensì soltanto della questione palestinese? Perché questa, guarda caso, è l’unica in cui si può tentare di individuare una responsabilità dei figli delle vittime della Shoah, e quindi scaricare la coscienza sporca europea. Ormai lo slogan è divenuto luogo comune: i perseguitati di un tempo sono diventati i persecutori di oggi. E’ divenuto talmente luogo comune che un governo europeo l’ha esplicitato senza pudore, sopprimendo la Giornata della Memoria a causa della guerra di Gaza e così stabilendo un rapporto “storiografico” diretto tra Shoah ed ebrei, da un lato, e palestinesi e israeliani, dall’altro. E’ un esito che ha avuto almeno il merito di alzare il velo sulla tragedia di un’Europa che declina verso l’Eurabia: anche Bat Ye’or sembrava una patetica Cassandra fino a pochi anni fa mentre ora le sue profezie sembrano quasi banali.

La scrittrice americana Cynthia Ozick ha stabilito un parallelismo tra la situazione attuale e quella degli anni Trenta: “… pensavo di essere ripiombata nel 1933. Mi sbagliavo è di nuovo il 1938”. Su questa premessa ha motivato il suo accordo – sia pure per ragioni diametralmente opposte – con la decisione spagnola di annullare la Giornata della Memoria. In senso stretto il paragone di Ozick non ha senso. Non vi sono stelle gialle imposte per decreto, non vi sono leggi razziali. Non vi è antisemitismo di stato in alcun paese europeo. Tuttavia, in storia i paragoni non si fanno alla maniera del confronto tra due reazioni chimiche. La storia è il dominio dell’irripetibile. Se si accostano eventi temporalmente lontani non è per dimostrare il loro impossibile replicarsi bensì per indagare il senso delle circostanze presenti e intuire i loro possibili sbocchi sulla base di esperienze passate che presentano analogie sul piano delle intenzionalità. Sotto questo profilo il richiamo di Cynthia Ozick è pertinente perché sottolinea la gravità di una situazione in cui “l’antisemitismo è riesploso nel mondo islamico e l’Europa vi si è aggregata come un’orda di lupi”. Certo, non è propriamente “l’Europa”, non è l’Europa istituzionale. Non è antisemitismo di stato, e non è neppure soltanto l’indifferenza morale di fronte a un uso della memoria che trasforma gli ebrei viventi in emblema della persecuzione. E’ molto di più. E’ una situazione descritta da scenari che traducono nei fatti la metafora di Ozick. Sono le manifestazioni in cui si bruciano bandiere di Israele, si identifica la stella di David con la svastica e si grida “ebrei assassini”. Sono manifestazioni ormai apertamente promosse e capeggiate da gruppi islamici cui si accodano estremismi autoctoni di varia estrazione che si piegano a questa egemonia. La accettano al punto di seguire la manifestazione fino a quando si conclude con la preghiera verso la Mecca, sul sagrato del Duomo di Milano o davanti al Colosseo. Chi avrebbe immaginato situazioni del genere una decina di anni fa? E, soprattutto, chi avrebbe immaginato che sarebbero state accolte da tanto silenzio?

Anni fa la Spagna fu colpita da un terribile attentato. Ne uscì piegando le ginocchia. Oggi il suo governo decide di sopprimere la Giornata della Memoria. Perché non è riuscito a tenere in piedi una giornata equivoca e ipocrita, in cui è facile usare la memoria della Shoah per dileggiare gli ebrei viventi o, nella migliore delle ipotesi, per parlare di tutto salvo che dell’antisemitismo di oggi che è, in primo luogo, antisionismo? Perché, con sciocca brutalità, non è riuscito a nascondere la realtà: ovvero che esiste in Europa un governo che non sopporta più neppure di sentir parlare degli ebrei.

Allora, a che giova far finta di niente? Dispiace dirlo in un paese che si distingue positivamente da tanti altri paesi europei, anche per le trasparenti dichiarazioni del presidente della Repubblica in tema di antisionismo. L’unico modo di mantenere in piedi sensatamente la Giornata della Memoria è di trasformarla in una giornata in difesa della democrazia, dei diritti della persona calpestati ieri dai totalitarismi europei del Novecento e oggi dal terrorismo islamista, di tutti coloro cui quei diritti vengono negati, contro l’antisemitismo di oggi, in difesa del diritto di Israele a esistere.

Nello scenario attuale della Giornata sembra che l’unico ruolo consentito a un ebreo europeo si riduca a quello di officiante del rito della memoria. Un ebraismo che non voglia decretare il proprio ineluttabile declino non può accettare una simile riduzione. E’ inutile nutrire illusioni circa lo stato dell’ebraismo europeo, una frangia minoritaria dell’ebraismo mondiale che si trova di fronte al drammatico compito di capire se possieda un futuro oltre a quello di officiante della memoria. Sarebbe chiudere gli occhi di fronte alla storia non vedere che fino al 1938 l’ebraismo era soprattutto europeo, ma dopo il 1945 non lo era quasi più. Alla vigilia del dramma le due principali componenti dell’ebraismo europeo erano quella laica e largamente assimilata alla cultura dell’illuminismo democratico e quella degli ebrei orientali, perseguitati e che difendevano la loro identità dietro la “siepe della Torah” (l’osservanza rigorosa dei precetti) e nella cultura dello Shtetl. La Shoah ha distrutto totalmente la seconda componente e ha dissolto la prima. Il futuro dell’ebraismo è diventato il sionismo, Israele e la grande e pluralista comunità ebraica statunitense.  Israele è un paese multiforme in cui convivono l’ortodossia e il laicismo più spinto. Altrettanto può dirsi dell’ebraismo statunitense. Per questo si tratta di comunità vive che costruiscono un futuro e mostrano con le attività pratiche, la cultura, la scienza, la letteratura, quale contributo può dare al mondo un ebraismo vivo.

Di certo, di fronte a un pregiudizio antisemita ancora così diffuso, la vitalità non basterà a salvare l’ebraismo. Ma non si può sopravvivere soltanto rivendicando il diritto a un’identità chiusa e separata, basata sulla conservazione del passato. Chi sogna un ritorno alla cultura dello Shtetl e dei tempi “felici” in cui si viveva dietro la “siepe della Torah” sta preparando una morte per necrosi dei tessuti vitali. L’ebraismo europeo ha il pieno diritto di vivere in questo continente, ma deve scegliere: ritrovare una vitalità proiettata nel futuro o far fronte alla progressiva estinzione. Deve trovare la forza per trasmettere energie, valori, cultura. Deve partecipare attivamente all’opera di difesa di un continente in disfacimento morale. Tale disfacimento è misurato dal riemergere dell’antisemitismo.

Vasilij Grossman nel suo “Vita e destino” ha descritto la molteplicità delle facce dell’antisemitismo per concludere che “l’antisemitismo è in stretta connessione con le grandi questioni della politica, dell’economia, dell’ideologia e della religione mondiali. E’ questo il suo tratto più nefasto. E la fiamma dei suoi roghi ha rischiarato le epoche più tremende della storia”. In quel libro che, come ha detto George Steiner, “eclissa quasi tutti i romanzi che oggi, in occidente, vengono presi sul serio”, Grossman ha saputo inserire il discorso dell’antisemitismo all’interno di una profonda riflessione sulle radici comuni dei totalitarismi e per questo esso è attuale. Per questo, invece di convocare migliaia di giovani ad assistere a “eventi” inquinati di veleni, sarebbe meglio – e assai meno dispendioso – far sì che ogni scuola acquisti copie del libro di Grossman, che in ogni classe se ne leggano dei brani e li si commenti, e stimolare tutti i ragazzi a leggerlo per intero.

Triste Giornata della Memoria questa del 2009, in cui miriadi di “eventi” si affollano sovrastati dalle nubi di un’insofferenza crescente a sentir parlare di un ebraismo che non sia morto. Triste Giornata in cui viene definita un “dono di pace” la riconciliazione con un vescovo che ha negato l’esistenza delle camere a gas ed ha aggiunto che “l’antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità, ma se c’è qualche cosa di vero non è cattivo”. Abbiamo molto bisogno di verità, ma non di questo genere di “verità”.

Sempre dalla prima pagina dell'inserto del FOGLIO, di Mariarosa Mancuso, la recensione di un libro dello scrittore Nicholson Baker, " "Cenere umana" ovvero il revisionismo travestito da pietas":

Non se ne trova traccia in copertina, non se ne trova traccia nel frontespizio, non se ne trova traccia nel copyright. Dall’edizione italiana di “Cenere d’uomo” di Nicholson Baker (Bompiani) è sparito il sottotitolo. Non era un sottotitolo da poco. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, rispettando la volontà dell’autore, il libro era intitolato “Human smoke” e subito sotto recava la scritta “The Beginnings of World War II, The End of Civilization”: gli inizi della Seconda guerra mondiale, la fine della civiltà. Finora noto come romanziere attento al punto di rottura di una stringa per scarpe, al sesso telefonico (il suo “Vox” fu tra i regali che Monica Lewinski fece al presidente Clinton), alla voglia matta di assassinare George W. Bush, Baker considera la guerra contro Hitler un criminale errore. Meglio sarebbe stato lasciare in pace il Terzo Reich: si sarebbero risparmiate parecchie vite umane, sacrificate dal guerrafondaio Churchill e da Roosevelt che le tentò tutte per provocare i giapponesi e ci riuscì. Non solo sparisce il sottotitolo, ma il risvolto di copertina confeziona il volume come un pacco regalo per la Giornata della Memoria. Una trentina di righe che partono con finta commozione sui fiocchi di cenere umana portati dal vento in una cella di Auschwitz, poi definiscono il libro un provocatorio documento che ripercorre “l’inesorabile marcia dell’Inghilterra, della Germania, dell’Europa tutta verso l’Olocausto”, mentre racconta “i segni inquietanti della follia che ha portato verso la soluzione finale’”. Viene ricordata “la domanda che agita ogni coscienza ‘come è mai potuto accadere tutto questo?’”, senza specificare che per “tutto questo” Baker non intende affatto lo sterminio degli ebrei, ma – come onestamente riconosce il risvolto dell’editore americano Simon & Schuster – la guerra globale che per cinque anni ha messo in stand by la civiltà come noi la conosciamo. Alla fine, il capoverso più ambiguo e velenoso: “lascia al lettore l’onere di giudicare non solo i colpevoli (inequivocabilmente colpevoli), ma anche quegli spettatori che per indifferenza, malizia, cinismo, non hanno voluto opporsi quando ancora sarebbe stato possibile farlo e si sono lasciati risucchiare dal vortice dell’orrore”. Basta leggere le 450 pagine del libro, più le 75 di note e bibliografia, e se non bastano consultare le interviste rilasciate da Nicholson Baker l’anno scorso, ai giornali americani e britannici, per capire che tra i colpevoli Churchill e Roosevelt stanno a pari demerito con Hitler, che “l’indifferenza, la malizia, il cinismo” sono imputabili agli alleati, che per “vortice dell’orrore” si intende la Seconda guerra mondiale. “Il Terzo Reich voleva sterminare gli ebrei”, concede sul risvolto dell’edizione Simon & Schuster uno dei sostenitori del libro. Epperò subito aggiunge che nel conto bisogna mettere “l’arroganza imperialista di Churchill, l’antisemitismo di Roosevelt, le macchinazioni dei mercanti d’armi”. “La più convincente argomentazione mai messa insieme a favore della pace”, ribadisce un altro estimatore. Nicholson Baker racconta di aver cominciato a fare ricerche per “Cenere d’uomo” quando capì che George Bush intendeva far guerra a Saddam Hussein. E il suo primo pensiero fu: “Errore fatale, come fu un fatale errore muover guerra a Hitler”. Bisognava trovare un accordo con la Germania e il Giappone, non mettersi a sganciare bombe come decise Churchill, che esce dal libro come un bugiardo matricolato, e per giunta mentalmente instabile. Bisognava ascoltare i pacifisti e lasciare tranquilli i dittatori. Solo davanti al giornalista che gli domanda “la penserebbe allo stesso modo se qualcuno attaccasse la sua famiglia?”, Baker ha un cedimento e risponde “forse no”. Poi si riprende, dice “comunque sono affari miei”, e ricomincia a demolire la guerra giusta, “una delle più grandi menzogne mai architettate”. Poiché appartiene all’eletta schiera degli scrittori postmoderni, Nicholson Baker raccoglie in “Cenere umana” una collezione di dispacci, articoli di giornale, brani di diario, dichiarazioni pubbliche, volantini, trasmissioni radio. Inizia nel 1892 con Alfred Nobel (“le mie fabbriche porranno fine alla guerra prima dei tuoi convegni”, disse a un’amica pacifista) e finisce nel 1941: “Quando la maggior parte delle persone che sarebbero morte durante la Seconda guerra mondiale erano ancora vive”. Il momento giusto per sventolare davanti a Hitler le bandiere (non ancora multicolori) della pace

Da pagina 24 de Il MESSAGGERO, l'articolo di David Meghnagi "La Shoah, frattura nella coscienza collettiva":

La ritualizzazione degli eventi più gioiosi e dolorosi è un’esigenza primaria di ogni tradizione. Il problema nasce quando la frattura tra il passato e il presente diventa radicale. Quando la tradizione codificata diventa muta, o rischia di essere tale. Nella storia ebraica questa frattura si è verificata molte volte, conducendo ad una rilettura profonda della tradizione religiosa e del ruolo di Dio nella storia. L’esperienza della Shoah ha portato al suo estremo limite questo paradosso. Dopo la Shoah nulla più poteva risultare uguale: l’arte e la poesia, la filosofia e la teologia. Non solo per l’entità della tragedia, ma per il modo in cui si è realizzato lo sterminio, il luogo in cui è avvenuto, nel cuore dell’Europa e dei suoi simboli costitutivi, l’ideologia che lo ha sostenuto. Il lutto ha investito i fondamenti della civiltà e dei suoi simboli religiosi. Si è trattato di una frattura nella coscienza collettiva, che la consapevolezza crescente ha contribuito a dilatare. Di un processo lento, per molti versi contraddittorio, ma ineluttabile nel tempo e nello spazio. Si pensi all’opera di Primo Levi. Quando lo scrittore torinese propose la pubblicazione di quello che sarebbe divenuto in seguito un classico sulla letteratura sui campi, non trovò un editore disposto a farlo proprio. Il libro fu pubblicato a proprie spese presso una piccola casa editrice. Dovettero passare altri dieci anni prima che l’Editore Einaudi riprendesse in considerazione il precedente rifiuto. Nella crisi che ha coinvolto le grandi narrazioni ideologiche del Novecento, la memoria della Shoah ha finito per riempire un vuoto identitario e di appartenenza. In nome di una riparazione impossibile agli ebrei si è affidato il ruolo di “officianti” di un rito che la società fatica a fare proprio. In quanto tali sono chiamati anche ad essere tutori di quel rito, i guardiani di una nuova ortodossia in base al quale stabilire che cosa debba rientrare nel rito. Si è venuta a creare una situazione nuova e complessa dalle molteplici sfaccettature, dove alla luce si mescola l’ombra. Una situazione carica di ambiguità irrisolte e di potenziali pericoli. Solo per citare un recente sondaggio dell’ISPO, il 36% dei cittadini europei (in Italia il 34%) sono dell’opinione che gli ebrei dovrebbero smettere di fare le vittime e di parlare della Shoah. Ma se gli ebrei non partecipano al rito o non lo officiano loro stessi, il rischio è che altri se ne approprino col rischio di trasformarlo in un’arma puntata contro di loro. Se invece assolvono al rito, in cambio dei “vantaggi” che ne derivano, il rito viene anno dopo anno svuotato e rischia di appartenere solo a loro. La società occidentale può liberarsi da un’immagine opprimente prendendone le distanze illudendosi di ritrovare così la pace perduta. Nel lungo periodo, la gestione del rito rischia di diventare un’arma rivolta contro gli ebrei accusati per una presunta rendita di posizione da cui altri popoli con le loro sofferenze sono esclusi. Quanto più il rito è affidato agli ebrei, tanto più la memoria della tragedia appartiene solo a loro. Se essi rinunciano al rito, il rito può essere assunto da altri e officiato anche contro di loro rovesciando, in nome della Shoah, l’accusa di perpetrare quelle stesse sofferenze che essi hanno un tempo ingiustamente subito su altri popoli. L’andamento della crisi mediorientale fissa i tempi, la virulenza e le forme di questa perversa logica. Se la crisi del conflitto arabo israeliano si acuisce, la domanda può assumere un carattere virulento, al punto che le istituzioni ebraiche che predispongono l’invio dei testimoni per lo svolgimento del rito, hanno preso la sana abitudine di affiancare il “testimone sacerdote” con un giovane preparato a rispondere su questi temi. Il testimone tornato dall’inferno può parlare solo ed esclusivamente dell’inferno. L’esperto di politica può invece rispondere sul resto, entrando con ciò nel merito delle storture prodotte da una cattiva informazione e dalla non conoscenza. Il rito è salvo ma non per sempre. Il pericolo è solo momentaneamente allontanato, con gli ebrei nella scomoda posizione di doversi confrontare con un duplice ricatto: l’obbligo di ricordare perché gli altri dimenticano, e l’accusa di fissare gli altri in una posizione di colpa perenne. Dopo Auschwitz l’antisemitismo può esprimersi in modo apparentemente rispettabile solo se prende di mira gli ebrei come Stato, demonizzando Israele e deformando la tragedia di un conflitto che ha ormai un secolo sino a renderlo irriconoscibile. Il cerchio del nuovo antisemitismo si chiude con l’accusa agli ebrei di voler fissare gli altri popoli in un sentimento di colpa perenne per acquisire privilegi e coprire le colpe di Israele. La memoria personale coinvolge le emozioni e il pensiero. È di ricordi e di storie famigliari. Man mano che l’evento si allontana e il rito si svuota, come si è svuotato quello della Resistenza in Italia, il rischio è che chiunque non si riconosca nei valori della cultura occidentale, o sia in aperto contrasto con essa possa identificare gli ebrei con i mali di questa società. Il sionismo aspirava a fare degli ebrei un popolo come gli altri, a edificare uno stato ebraico come gli altri stati. L’esito paradossale di questa impresa è stato di avere uno Stato “diverso” dagli altri. Lo Stato degli Ebrei è diventato l’Ebreo degli Stati, e gli ebrei i suoi ambasciatori in ogni luogo del mondo, non solo agli occhi dei suoi nemici, degli antisemiti vecchi e nuovi, ma anche degli amici più sinceri, che ne difendono l’esistenza. Le tradizioni comunitarie un tempo svalutate in nome dell’ebreo nuovo, si sono riprese una rivincita e la possibilità di vincere un’elezione si misura ormai con la capacità di rispondere ai richiami e alle rivendicazioni dei singoli gruppi comunitari. La società israeliana somiglia ad un laboratorio postmoderno che ha sperimentato con molto anticipo molti dei problemi che assillano oggi l’Europa. A non accorgersene sono stati per lungo tempo gli europei che dopo avere lungamente ritenuto di essere un’isola felice e del mondo, scoprono con angoscia di non essere affatto avanti in fatto di tolleranza, e che molti dei problemi che pensavano di essersi lasciati per sempre alle spalle si sono violentemente riaffacciati in Europa mostrando quanto fragili siano le costruzioni umane.

Da pagina 4 del RIFORMISTA, un'intervista di Luca Mastrantonio a David Budussa, "Sinistri antisemitismi e memoria in crisi dopo le Torri gemelle" :

Non se ne trova traccia in copertina, non se ne trova traccia nel frontespizio, non se ne trova traccia nel copyright. Dall’edizione italiana di “Cenere d’uomo” di Nicholson Baker (Bompiani) è sparito il sottotitolo. Non era un sottotitolo da poco. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, rispettando la volontà dell’autore, il libro era intitolato “Human smoke” e subito sotto recava la scritta “The Beginnings of World War II, The End of Civilization”: gli inizi della Seconda guerra mondiale, la fine della civiltà. Finora noto come romanziere attento al punto di rottura di una stringa per scarpe, al sesso telefonico (il suo “Vox” fu tra i regali che Monica Lewinski fece al presidente Clinton), alla voglia matta di assassinare George W. Bush, Baker considera la guerra contro Hitler un criminale errore. Meglio sarebbe stato lasciare in pace il Terzo Reich: si sarebbero risparmiate parecchie vite umane, sacrificate dal guerrafondaio Churchill e da Roosevelt che le tentò tutte per provocare i giapponesi e ci riuscì. Non solo sparisce il sottotitolo, ma il risvolto di copertina confeziona il volume come un pacco regalo per la Giornata della Memoria. Una trentina di righe che partono con finta commozione sui fiocchi di cenere umana portati dal vento in una cella di Auschwitz, poi definiscono il libro un provocatorio documento che ripercorre “l’inesorabile marcia dell’Inghilterra, della Germania, dell’Europa tutta verso l’Olocausto”, mentre racconta “i segni inquietanti della follia che ha portato verso la soluzione finale’”. Viene ricordata “la domanda che agita ogni coscienza ‘come è mai potuto accadere tutto questo?’”, senza specificare che per “tutto questo” Baker non intende affatto lo sterminio degli ebrei, ma – come onestamente riconosce il risvolto dell’editore americano Simon & Schuster – la guerra globale che per cinque anni ha messo in stand by la civiltà come noi la conosciamo. Alla fine, il capoverso più ambiguo e velenoso: “lascia al lettore l’onere di giudicare non solo i colpevoli (inequivocabilmente colpevoli), ma anche quegli spettatori che per indifferenza, malizia, cinismo, non hanno voluto opporsi quando ancora sarebbe stato possibile farlo e si sono lasciati risucchiare dal vortice dell’orrore”. Basta leggere le 450 pagine del libro, più le 75 di note e bibliografia, e se non bastano consultare le interviste rilasciate da Nicholson Baker l’anno scorso, ai giornali americani e britannici, per capire che tra i colpevoli Churchill e Roosevelt stanno a pari demerito con Hitler, che “l’indifferenza, la malizia, il cinismo” sono imputabili agli alleati, che per “vortice dell’orrore” si intende la Seconda guerra mondiale. “Il Terzo Reich voleva sterminare gli ebrei”, concede sul risvolto dell’edizione Simon & Schuster uno dei sostenitori del libro. Epperò subito aggiunge che nel conto bisogna mettere “l’arroganza imperialista di Churchill, l’antisemitismo di Roosevelt, le macchinazioni dei mercanti d’armi”. “La più convincente argomentazione mai messa insieme a favore della pace”, ribadisce un altro estimatore. Nicholson Baker racconta di aver cominciato a fare ricerche per “Cenere d’uomo” quando capì che George Bush intendeva far guerra a Saddam Hussein. E il suo primo pensiero fu: “Errore fatale, come fu un fatale errore muover guerra a Hitler”. Bisognava trovare un accordo con la Germania e il Giappone, non mettersi a sganciare bombe come decise Churchill, che esce dal libro come un bugiardo matricolato, e per giunta mentalmente instabile. Bisognava ascoltare i pacifisti e lasciare tranquilli i dittatori. Solo davanti al giornalista che gli domanda “la penserebbe allo stesso modo se qualcuno attaccasse la sua famiglia?”, Baker ha un cedimento e risponde “forse no”. Poi si riprende, dice “comunque sono affari miei”, e ricomincia a demolire la guerra giusta, “una delle più grandi menzogne mai architettate”. Poiché appartiene all’eletta schiera degli scrittori postmoderni, Nicholson Baker raccoglie in “Cenere umana” una collezione di dispacci, articoli di giornale, brani di diario, dichiarazioni pubbliche, volantini, trasmissioni radio. Inizia nel 1892 con Alfred Nobel (“le mie fabbriche porranno fine alla guerra prima dei tuoi convegni”, disse a un’amica pacifista) e finisce nel 1941: “Quando la maggior parte delle persone che sarebbero morte durante la Seconda guerra mondiale erano ancora vive”. Il momento giusto per sventolare davanti a Hitler le bandiere (non ancora multicolori) della pace

«Ci sono molti e diversamente odiosi antisemitismi, e un uso improprio del termine Olocausto. Non si può paragonare Gaza a un lager, come fanno anche alcuni cattolici. Né si può usare il termine Olocausto per l'aborto. È come paragonare "Lettera a un figlio mai nato" a "Se questo è un uomo"».
Così David Bidussa al Riformista. Nel suo equilibrato "Dopo l'ultimo testimone", Einaudi, affronta in maniera anticonformista, ma senza perdere rigore, la questione della "trivializzazione", cioè banalizzazione, della Giornata della Memoria. L'obbiettivo storiografico è garantire alla memoria dell'Olocausto una sopravvivenza dopo la scomparsa dei testimoni diretti.
Come immagina la Giornata della Memoria dopo l'ultimo testimone?
Il primo modo sarà una dimensione di silenzio. Come se non ci fosse qualcuno in grado di saper prendere in mano il testimone di una storia. Servirà allora il lavoro di professionisti culturali sul tema del rapporto tra storia e memoria. Ma in Italia c'è un rapporto difficile, poco onesto, tra storici e media.
Quest'anno la Giornata della Memoria si caratterizza per una tensione tra mondo cattolico, dal cardinale Martino che ha parlato di lager a Gaza, al lefebvriano negazionista, e comunità ebraica. Perché?
Negli ultimi decenni del Novecento, la Chiesa ha curato il suo rapporto, un po' malato, con il mondo ebraico, avuto nei primi decenni del secolo scorso. Penso che dopo aver approfondito questo dialogo non voglia andare oltre, adesso le interessa di più recuperare alcune figure che si sono staccatte 30 o 40 anni fa. Ovviamente la scelta di recuperare i lefebvriani e non i seguaci della teologia della liberazione è politica, con degli effetti collaterali e delle contro-indicazioni che sono stati ben pesati. Oggi c'è una grande necessità di norma dentro i grandi sistemi di fede. Penso che sia un segnale di debolezza della Chiesa. Non si sono chiuse delle porte, ma è cambiata la mappa. Chi pensava che il dialogo tra Chiesa cattolica e mondo ebraico fosse in continua evoluzione si sbagliava. Siamo di fronte a una fase di riflessione. La Chiesa non vuole più distribuire universalismo, ma capire chi è.
Ma i cattolici, i politici soprattutto, non si sono fatti forti della formula "le radici cristiano-giudaiche dell'Europa"?
Le radici giudaico-cristiane sono radici cristiane. Il giudaico sta solo a ricordare l'antefatto, è una dicitura antiquaria. Proprio all'Europa spetta il compito di costruire valori culturali condivisi, e la Giornata della Memoria è un valore transnazionale, su cui costruire un principio di tolleranza e coabitazione. Ma la Giornata della Memoria è in crisi da anni... a partire dalle Torri Gemelle.
Perché ha risvegliato l'antisemitismo dei complottisti?
Sì. C'è un antisemitismo di tipo classico, sociale, che compatta contro gli ebrei popoli che non sopportano più le differenze. E poi c'è un antisemitismo che va fortissimo in Italia e si fomenta con le teorie dei complotti. Un esercizio che è portato avanti trasversalmente in tutto il Paese e in tutto il Parlamento. La ricerca di un nemico figurato... una volta è l'ebreo, altre volte l'immigrato.
Si sta diffondendo, a sinistra e nella Chiesa, un "equiparazionismo" tra Shoah e i massacri a Gaza.
È una figura retorica politica. Come è possibile che le vittime di allora diventino i carnefici di oggi? Sbagliato. Non si può non fare differenza tra politiche repressive, genocidi, stupri, massacri di massa... Ma il problema sono le parole. Non hanno più un significato stabile. Come quando uno paragona l'aborto all'Olocausto o Gaza ad Auschwitz. Infine, nel mondo arabo e nella sinistra italiana e in molte leadership europee, è nato il mito della fondazione di Israele come una risarcimento per la Shoah. Io non penso che sia così, perché lo Stato israeliano è nato da strutture economiche e sociali preesistenti, che hanno preso forma dopo un voto politico internazionale che parlava di due Stati per due popoli. Chi dice il contrario sta compiendo lo stesso falso discorso, mitologico, sui palestinesi. Sull'eccidio di Gaza vogliono fondare il diritto del popolo palestinese a uno Stato.

Il MANIFESTO pubblica a pagina 13 un intervento di Valentina Pisanty, che equipara le strumentalizzazioni della Shoah di chi intende difendere le scelte di governi israeliani e il rifiuto di ricordare la Shoah dei "filopalestinesi".
Si tratta di un accostamento indebito: perché nel secondo caso si è di fronte a casi di evidenti antisemitismo, perché nessuno o quasi, in realtà, difende aprioristicamente l'operato dei governi israeliani, qualsiasi cosa facciano, perchè è invece assolutamente lecito trarre dalla memoria della Shoah l'insegnamento del diritto all'autodifesa di Israele e del popolo ebraico, della denuncia del nuovo antisemitismo arabo-islamico, del rifiuto della demonizzazione e della calunnia, che si accaniscono oggi contro lo Stato degli ebrei come ieri contro gli ebrei.
Detto questo, si deve rilevare che la polemica di Valentina Pisanty è rivolta soprattutto contro chi nega, strumentalizzando  il conflitto mediorentale "empatia" agli ebrei vittime della Shoah. La qual cosa non deve essere piaciuta molto alla redazione del quotidiano comunista, che in prima pagina pubblica un rimando all'articolo che ne stravolge il significato: "La trappola del collante ideologico. Da evento storico ad elemento identitario. Come forzare la Shoah, creando un cortocircuito tra un popolo - gli ebrei - e un governo - quello israeliano".
La memoria della Shoah come "collante idelogico" ed "elemento identitario", forzata a divenire argomento di propaganda a favore dei governi israeliani.
Tesi aberranti molto più vicine a quelle di Norman Finkelstein che a quelle effettivamente espresse da Valentina Pisanty.

Ecco il testo integrale: "In memoria della memoria"


Eccoci di nuovo, si è tentati di dire. Inutile negare l'insofferenza più o meno velata che, a neppure un decennio dalla sua istituzione, il giorno della memoria suscita in molte persone. Da parte di chi se ne occupa da vicino e sistematicamente la sensazione è comprensibile: ogni 27 gennaio schiere di storici, accademici, insegnanti, scrittori e testimoni (quei pochi che restano) vengono convocati per saturare gli spazi mediatici e scolastici che la legge 211 del 20 luglio 2000 prescrive di riempire con «cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti (...) affinché simili eventi non possano mai più accadere». Ma non è dell'eventuale stanchezza dei comunicatori che, evidentemente, ci si deve preoccupare, e neppure dell'imbarazzo dei redattori di giornale, degli insegnanti e degli organizzatori di convegni i quali, chiamati di anno in anno a inventarsi nuovi palinsesti commemorativi, si spremono le meningi per conferire un «taglio originale» alla rievocazione dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz. Piuttosto, meritano attenzione alcune critiche più strutturali circa 1) l'inflazione della memoria a cui darebbe adito la ricorrenza del 27 gennaio, 2) i possibili usi e abusi ideologici di questa giornata e 3) l'opportunità o meno di eleggere lo sterminio antiebraico a tema di riflessione collettiva, sancendone per legge la centralità nella mappa mentale con cui ci viene chiesto di rappresentarci l'identità italiana e/o europea postbelliche (qualunque cosa esse siano). La prima obiezione Sul primo aspetto si sofferma David Bidussa nel suo recente saggio Dopo l'ultimo testimone (Einaudi, 2009), a proposito dei difetti della retorica consolatoria di cui sarebbe imbevuta buona parte degli attuali discorsi sulla memoria, inclini ad assecondare i meccanismi di sacralizzazione e di trivializzazione degli eventi, e a trasformare la ricostruzione storica in una liturgia riparatrice che pone la corona d'alloro sul capo delle vittime. Vittime che - si suppone - dovrebbero sentirsi sufficientemente gratificate da tale riconoscimento tardivo da mettere una pietra sopra alle violenze subite. Ricordo di avere partecipato, diversi anni fa, a una trasmissione televisiva in cui la conduttrice pretendeva di chiudere la puntata in bellezza con l'abbraccio risolutivo tra la figlia (peraltro incolpevole) di una SS e una ex deportata. La versione banalizzante del giorno della memoria aspira a svolgere un'analoga funzione terapeutica: come in un film di Hitchcock, la rievocazione del trauma dovrebbe bastare per annullarne gli effetti, sciogliendo nelle lacrime ogni residuo di rancore. A parte l'implausibilità psicologica di una simile pretesa il punto è che, come ricorda Bidussa, «il 27 gennaio non è il giorno dell'identità ebraica», bensì «riguarda un pezzo della storia culturale dell'Europa con la quale il nostro continente ha iniziato a confrontarsi, pur se in ritardo e spesso a disagio». Lungi dall'essere stata concepita come un'occasione per cicatrizzare le ferite, la proposta di legge perseguiva l'obiettivo opposto di affondare un dito nella piaga, e di tenercelo almeno fino a quando la cultura italiana non avesse cominciato a fare seriamente i conti con i propri trascorsi razzisti e antisemiti. «What, in our house?» (ovvero: «Possibile che questo delitto sia stato consumato proprio qui, a casa nostra?») è la domanda che per la prima volta veniva formulata in via ufficiale: come l'ostentata sorpresa di Lady Macbeth rivela l'ipocrisia di chi sa di essere il mandante del crimine rispetto al quale si dichiara sgomento, così gli italiani venivano posti di fronte all'infingardo vuoto di memoria su cui si fondava la propria auto-narrazione postbellica. La Shoah non è, come ci si era a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso, frutto di «incosciente faciloneria» piuttosto che di una reale e diffusa intenzione omicida - come se non ci fossero sfumature intermedie - ma un crimine specificamente italiano che per decenni gli italiani avevano spazzato via a colpi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione. Alcuni ricorderanno le polemiche di stampo revisionista che all'epoca scoppiarono circa la presunta necessità di estendere la commemorazione a «tutte le vittime della guerra», e più specificamente alle vittime delle foibe, quasi a cercare il pareggio in un macabro derby ideologico. La seconda obiezione Si giunge così alla seconda obiezione: il giorno della memoria come posta in gioco di interessi politici ulteriori. Se dieci anni fa la battaglia ideologica attorno alla memoria dello sterminio ricalcava il conflitto tra fascisti e antifascisti, in quale misura la successiva abiura degli uni come degli altri (ammesso che di abiura si possa veramente parlare) ha intaccato il senso profondo del giorno della memoria? Rispetto al 2000, oggi il revisionismo di De Felice fa meno scalpore, il negazionismo ha perso gran parte del suo slancio, perlomeno in Europa (non altrettanto in Medio Oriente), e il razzismo selvaggio sembra essersi scelto altri bersagli, pur senza rinunciare all'occasionale profanazione di cimiteri ebraici per tenersi in esercizio. Certo, non è da escludere che questi progressi siano almeno in parte attribuibili agli approfondimenti sulla storia e sui meccanismi dell'antisemitismo promossi (anche) dalle passate edizioni del giorno della memoria. Tuttavia, potrebbe darsi che - arrivati a questo punto, e proprio in virtù dei successi mietuti - l'urgenza dell'iniziativa sia meno evidente di una volta. La Shoah è probabilmente l'unico evento di cui i ragazzi, per il resto beatamente ignoranti, abbiano una cognizione piuttosto precisa: sullo sfondo di un'enciclopedia storica alquanto fuzzy che stenta a distinguere il Rinascimento dal Risorgimento e la guerra del Golfo da quella in Afghanistan, lo sterminio nazista si staglia con la luminosità di un'insegna al neon. Alla luce di tutto ciò, è ancora il caso di dedicare una giornata di riflessione collettiva alla Shoah, o non sarebbe invece ora di spostarsi su altri argomenti meno frequentati, ma forse altrettanto rilevanti? A maggior ragione quest'anno, qualcuno aggiunge: come si fa a celebrare con la dovuta empatia il giorno della memoria a ridosso dei bombardamenti israeliani di Gaza? Con quale credibilità morale - si dice - gli ebrei ci chiedono di partecipare al loro lutto identitario proprio nei giorni in cui infliggono dolore agli altri? Come non tenere conto del tradimento che, secondo alcuni, Israele starebbe consumando nei confronti dell'orizzonte ideale in cui si colloca la storia del suo popolo? Come raccontare agli studenti la storia del genocidio antiebraico senza riferirsi alla tragedia che oggi colpisce il popolo palestinese? E addirittura: come non equiparare l'assedio di Gaza all'assedio del ghetto di Varsavia, il sionismo al nazifascismo, le vittime di un tempo agli aguzzini di oggi? Non c'è bisogno di tirare in ballo Roger Garaudy o i neofascisti boicottatori dei negozi romani gestiti da ebrei per accorgersi dell'indebito (e indecente) cortocircuito tra ebrei e governo israeliano che simili domande retoriche presuppongono. Cortocircuito ufficializzato in almeno un caso, se è vero che la decisione del governo catalano di ridimensionare (sia pure solo marginalmente) le celebrazioni del giorno della memoria a Barcellona è da intendersi come una forma di rappresaglia culturale. Sembra strano dovere precisare ancora una volta che gli ebrei della Shoah sono un'altra cosa - nel senso che sono individui diversi, vissuti in epoche diverse - rispetto agli israeliani, qualunque giudizio si voglia dare sulle responsabilità, sugli sbagli e sulle eventuali colpe di Israele, il quale (a volte lo si dimentica) è uno stato nazionale e non uno stato mentale. Ricordare Auschwitz non toglie - e non aggiunge - nulla alla valutazione politica che si può dare del conflitto arabo-israeliano, e da questo punto di vista non c'è moltissima differenza tra chi usa la Shoah per legittimare le scelte del governo israeliano, e chi gliela risbatte in faccia con atteggiamento almeno altrettanto ricattatorio. È interessante osservare come in dieci anni la Shoah, in quanto topos narrativo retoricamente spendibile, sia migrata dal contesto di una diatriba storiografica nazionale a quello della disputa transnazionale tra anti-israeliani e filoisraeliani. Ma in ogni caso, quale che sia l'uso specifico che se ne fa, lo sterminio degli ebrei sta sempre per qualcos'altro, e da evento storico (come tale contingente e pertanto unico - che non vuol dire incommensurabile) diventa categoria di pensiero, pietra di paragone, oggetto totemico, collante ideologico e, all'occorrenza, strumento contundente. Le tappe di ogni evento traumatico Riprendendo il modello proposto da Henry Rousso nel suo libro Le sindrome de Vichy, Enzo Traverso (Il passato: istruzioni per l'uso, Ombre corte, 2006) ricorda le varie tappe che la memoria di un evento traumatico tende ad attraversare: «prima un evento importante, un punto di svolta, spesso un trauma; poi una fase di rimozione, che prima o poi sarà seguita da una inevitabile 'anamnesi' ('il ritorno del rimosso') e che può, a volte, trasformarsi in ossessione della memoria». Così è accaduto esemplarmente alla Shoah (laddove altri stermini sono ancora in attesa della propria anamnesi), e il problema ora è di capire se e come si possa superare la fase dell'ossessione, non tanto da parte delle vittime stesse o dei loro discendenti (nessuno si può arrogare il diritto di dettare i tempi di metabolizzazione della memoria soggettiva), quanto della collettività più ampia di cui essi fanno parte a pieno titolo e a pari condizioni. Non credo ci siano molti dubbi sul fatto che l'auto-rappresentazione europea, imperniata sul principio della tutela dei diritti delle minoranze, si fondi in buona parte sulla promessa solenne di conservare il ricordo dello sterminio affinché episodi del genere non si ripetano più. Ma se si vuole onorare per davvero questa promessa occorre impiegare la giornata che il calendario istituzionale ci mette a disposizione per ricordare, certamente, ma soprattutto per ricostruire le dinamiche storiche e culturali del razzismo (non solo antisemita), per ragionare sui suoi meccanismi logici e retorici, per imparare a riconoscerne le avvisaglie, per smontare vecchi stereotipi sempre in agguato, per contrastare l'inerzia delle scorciatoie interpretative e, alla fin fine, per mantenere vivi i nostri anticorpi.

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