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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Il Sole 24 Ore - Il Messaggero - Il Manifesto Rassegna Stampa
09.01.2009 La parole d'ordine è colpevolizzare Israele
rassegna di analisi scorrette

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Il Sole 24 Ore - Il Messaggero - Il Manifesto
Autore: Sergio Romano - Igor Man - Paolo Garimberti - Antonio Badini - Vittorio Arrigoni - Giuliana Sgrena
Titolo: «Gaza, chi ha iniziato e come giudicare la guerra - Nel kibbutz per capire Israele - I giorni dell'angoscia - Hamas ? Errore dell'occidente - Cos i bambini di Gaza City vivono l'orrore - Con il pretesto di annientare Hama»

Per Sergio Romano è Israele ad aver aggredito Hamas, con lil fantomatico assedio di Gaza. L'ex ambasciatore naturalmente dimentica che i razzi vengono sparati contro Israele da sette anni, gli attentati suicidi, il rifiuto dell'esistenza di Israele.

Dal CORRIERe della SERA del 9 gennaio 2009:


Credo che i lettori del
Corriere della Sera
apprezzerebbero molto una sua disamina sulla guerra in corso in Israele e i suoi possibili sviluppi.
Lionello Leoni
lionello.leoni@alice.it
Nel suo intervento intitolato «Gaza: le elezioni israeliane e il silenzio di Obama» pubblicato sul Corriere della Sera del 3 gennaio, lei attribuisce la scelta dei tempi dell'attacco israeliano a svariati motivi tra i quali le imminenti elezioni in Israele e il cambio della guardia alla Casa Bianca.
Ma non prende nemmeno in considerazione la vera ragione dell'attacco: la necessità di sopprimere i lanci dei missili di Hamas dopo il rifiuto di questa organizzazione terroristica di estendere la tregua.
La sua insistenza nel negare l'evidenza e nel proporre una dietrologia fatta di luoghi comuni sottintende che lei ritiene che Israele non abbia il semplice diritto di difendersi in modo opportuno quando lo esige la congiuntura strategica.
Daniel Gold
dangold@stny.rr.com
Cari lettori,
V
i sono almeno due modi per giudicare un conflitto e pesare le responsabilità dei contendenti. Il primo è quello di ricostruire la dinamica delle vicende che hanno preceduto l'inizio delle ostilità. Chi ha sparato per primo? Chi ha assunto l'atteggiamento più provocatorio? La risposta a queste domande è indubbiamente: Hamas. L'organizzazione islamica che governa la striscia di Gaza ha denunciato la tregua e ha continuato a colpire con i suoi missili alcune città israeliane in prossimità del confine. Sapeva che i suoi lanci avrebbero provocato una reazione israeliana, ma non ha rinunciato alle sue azioni offensive. Voleva una guerra e l'ha avuta. Il secondo è quello di allargare lo sguardo a un periodo più lungo e di prendere in considerazione altri fattori. Israele ha occupato alcuni territori arabi nel 1967 e ha assunto in tal modo il controllo di una popolazione che ammonta oggi, complessivamente, a non meno di tre milioni e 300 mila abitanti. Non li ha assorbiti all'interno della propria società perché avrebbero intollerabilmente diluito la sua natura di Stato ebraico. Non ha garantito a essi una reale autonomia perché ha permesso ai suoi cittadini di insediarsi nei territori occupati e di estendere le proprie comunità occupando terre della popolazione locale: un fenomeno che ha avuto per effetto, oltre a numerosi espropri, l'instaurazione di controlli, blocchi stradali, corsie preferenziali per i cittadini della potenza occupante. Ha ritirato 8 mila coloni dalla Striscia di Gaza, ma non ha riconosciuto la vittoria di Hamas nelle elezioni del gennaio 2006. Ha stretto d'assedio la Striscia per diciotto mesi prima dell'inizio delle ostilità. E ha adottato infine verso la popolazione civile lo stile di una tradizionale potenza coloniale. Mi ha colpito, ma non sorpreso, la lettura dell'articolo dello scrittore e giornalista israeliano Yossi Klein Halevi ( Corriere del 6 gennaio) che ha fatto servizio militare nella Striscia di Gaza durante la prima Intifada e scrive: «Il nostro contingente non solo arrestava i sospettati di terrorismo, ma trascinava la gente giù dai letti nel cuore della notte per costringerla a coprire di vernice le strisce anti israeliane e rastrellava persone innocenti, dopo un lancio di granate, giusto "per far sentire la nostra presenza"». E non è possibile dimenticare a questo proposito la distruzione delle case dove abitavano le famiglie dei guerriglieri e gli 11 mila detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, prigionieri di guerra, ma trattati come terroristi e combattenti irregolari. Tutta colpa di Israele? No. Al Fatah prima, Hamas e Jihad islamica poi hanno ucciso civili israeliani, compiuto attentati terroristici nelle città, deliberatamente provocato le reazioni di Israele, alimentato un ingranaggio che consentiva ai loro gruppi più radicali di assumere la guida del movimento. Ma esiste in queste situazioni una legge politica a cui non è possibile sottrarsi. Le maggiori responsabilità, in ultima analisi, sono sempre della potenza occupante. Se 41 anni di occupazione non bastano a risolvere il problema, le conseguenze ricadono inevitabilmente sulle sue spalle.
Esiste anche una seconda legge che risponde indirettamente alla domanda di Gold. Chi fa una guerra non può limitarsi a programmare le operazioni militari. Deve avere un progetto per il dopoguerra. Se l'obiettivo è sbaragliare Hamas, chi governerà la Striscia di Gaza dopo la fine del conflitto? Con chi fare la pace se non con quelli contro i quali si è combattuto?

Israele in trappola per la sua stessa superiorità nei confronti degli arabi. E' il messaggio dell'editoriale di Igor Man pubblicato da La  .
Il vecchio cronista usa la sua collaudata tecnica: lodi agli israeliani morti e nessuna solidarietà con quelli vivi:


Sono giornate devastanti quelle che scorrono in Medio Oriente e il Vecchio Cronista una volta ancora ricorda l’incontro, nel 1959, con Berta Grinstein. Non la vedevo dal 1939 (io fanciullo, lei signora di mezza età), allorché venne cacciata, con la famiglia, dall’Italia in forza delle leggi razziali. Ci vedemmo a Waterbury (Co) e fu lei a procurarmi l’intervista con Ben Gurion, suo mezzo parente. Alla lettera di presentazione, Berta aveva accluso un bigliettino per me: «Se vuoi capirci, se vuoi capire Israele, devi, devi visitare Lahomei Haghetaot. Shalom, shalom». È un kibbutz dove gli scampati alla strage di Varsavia (3 agosto 1944) in soli trenta metri hanno allestito un museo della Memoria. L’impatto è forte. L’ambiente è scabro, fiero, ma niente affatto retorico; evidente è l’intenzione di far parlare «in diretta» la Storia affinché la Memoria duri. Sui muri spiccano le macchie gialle delle stelle di pezza imposte da Hans Franck agli ebrei; gli stampati con la scritta Jood da affiggere sulle botteghe; una svastica e un documento che ci riporta, sgomenti, nell’Italia repubblichina: «Questura di Roma - oggetto: traduzione ebrei al concentramento di Carpi, in numero di 38 (trentotto). Pregasi di rilasciare al funzionario latore relativa ricevuta. Firmato: il Questore Pietro Caruso. Roma addì 25 febbraio 1944, XXII».
Quel che colpisce è «relativa ricevuta»: cose erano, povere cose gli ebrei in «traduzione». Cose destinate a finire nel gas nazista. Cose. Che tuttavia risorgeranno: come ci dicono i disegni dei bambini ebrei condannati a morte perché ebrei. Capovolgendo la realtà (siamo, in fatto, al Presagio) quegli innocenti disegnavano gli adulti: il papà, lo zio, l’amico che, armati di lunghi fucili, mettevano in fuga le SS. Inconsciamente quei bimbi ebrei si ribellavano al cliché dell’ebreo rassegnato, eterno perdente. Quei disegni reclamano il diritto d’esser dichiarati profetici. Essi anticipano la mutazione degli sfiniti reduci dai campi di sterminio in soldati vincenti: quelli che hanno costruito Israele, anzi il Nuovo-Israele, paese democratico, prima potenza militare del Medio Oriente, primatista nella Ricerca.
Quello che i Padri fondatori hanno creato in Palestina è certamente da ammirare ma paradossalmente il suo limite è la Supremazia. Un ebreo d’antica famiglia, Gad Lerner, ha citato su Repubblica il «Giobbe» di Joseph Roth: «Tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano». Magari ne serbassero memoria gli Israeliani, esclama Gad. «Esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo-risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l’importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia». Insomma, dice Gad: la guerra non risolve. Ancorché sempre vittorioso, Israele è tuttora accerchiato da nemici che ne sognano la distruzione. Guerre brevi assicurano lunghi periodi di pace ma a ogni vittoria Israele vede crescere l’odio dei vicini. Esiste una dicotomia geopolitica alla base dell’eterno limbo in cui (coraggiosamente) Israele vive. Nell’arengo mondiale è un paese come gli altri, nell’ambito regionale è «un corpo estraneo» condannato a morte dall’islam militante; al tempo stesso è la testimonianza d’una superiorità che esaspera il complesso d’inferiorità dei suoi (frustrati) vicini. Temo che questo scenario non muterà mai. Voglio ricordare che nel 1956 i soldati israeliani cantavano: «Sempre in tre saremo: io, tu e la prossima guerra».

Paolo Garimberti, nell'editoriale pubblicato da La REPUBBLICA "I giorni dell'angoscia" da per certo che non vi sia alcuna giustificazione per un episodio, il convoglio Onu colpito, che in realtà non è ancora oscuro nella sua dinamica.

Antonio Badini sul SOLE 24 ORE ripropone i miti della responsabilità israeliana nella nascita di Hamas e del pacifismo di Arafat.

Sul MESSAGGERO l'"esperto" intervistato, il francese Legraine, dà ovviamente tutte le colpe a Israele. Non l'avesse fatto non sarebbe stato presentato come il massimo esperto di cose mediorentali.

In prima pagina sul MANIFESTO, la condanna senza se e senza ma di Israele  porta le firme di Vittorio Arrigoni e Giuliana Sgrena

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