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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Il Manifesto - L'Unità - La Repubblica Rassegna Stampa
14.10.2008 Scontri ad Akko: è una nuova intifada ?
analisi a confronto

Testata:Il Giornale - Il Manifesto - L'Unità - La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein - Michele Giorgio - Michelangelo Cocco - Umberto De Giovannangeli - Renato Caprile - Francesca Caferri
Titolo: «Israele ha paura di una nuova Intifada - Cocci di coesistenza a San Giovanni D'Acri - Le nuove generazioni di arabi si ribellano - L'allarme di Blair: Gaza al collasso, Israele deve salvare la Striscia -San Giovanni d´Acri l´odio e la guerriglia nel forte»

Sui quotidiani del 14 ottobre 2008 si trovano interpretazioni molto divergenti degli scontri tra arabi ed ebrei ad Akko.
Sul MANIFESTO  il sociologo Adel Manna, intervistato da Michelangelo Cocco, riprende  la tesi della rivolta della minoranza araba oppressa e discriminata . ("Le nuove generazioni di arabi si ribellano")
Anche Michele Giorgio ("Cocci di coesistenza a San Giovanni D'Acri") conferma questa interpretazione,  già propagandata da Umberto De Giovannangeli nei suoi articoli del 12 e del 13 ottobre pubblicati da L'UNITA' (oggi u.dg. , sulla scorta di dichiarazioni di Tony Blair, torna invece a dare l'allarme sulla "crisi umanitaria" di Gaza, perpetuamente imminente da quando Hamas ha preso il potere, "L'allarme di Blair: Gaza al collasso, Israele deve salvare la Striscia", pagina 13 ).REPUBBLICA  preferisce concentrarsi sulla cronaca ("San Giovanni d´Acri l´odio e la guerriglia nel forte dei Crociati", di Renato Caprile), lasciando che ad analizzare gli eventi sia Abraham B. Yehoshua che, intervistato da  Francesca Caferri, conferma anch'egli la tesi della rivolta contro la discriminazione.

Ben diversa la documentata analisi di Fiamma Nirenstein, che riprendiamo dal GIORNALE



Quello che i palestinesi «si devono preparare ad affrontare è né più né meno che una battaglia strategica conclusiva con Israele. Non devono sentirsi scoraggiati dal passato ma guardare con fiducia al futuro...». Queste sono per ora solo parole contenute in un documento di 60 pagine intitolato «Riconquistare l’iniziativa» pubblicato in agosto dopo una serie di incontri di intellettuali e politici palestinesi (sostenuti da un’iniziativa dell’Oxford research group finanziato dall’Unione Europea), fra cui molti di Fatah, inclusi anche ex ministri dell’Autorità Palestinese.

Il documento, ultimato in agosto, in sostanza suggerisce di abbandonare la vecchia strada del negoziato, ritenuto ormai fallito con Annapolis, per avviare «una resistenza intelligente» e un’Intifada che si basi su un necessario ritrovato accordo fra Hamas e Fatah. Di fatto la parola «resistenza» ricalca l’impostazione bellicista degli hezbollah, usarla vuol dire solo scontro senza remissione, come poi chiarisce il seguito. Ma le parole non desterebbero preoccupazione se non fossero parte di una situazione sull’orlo del baratro che può portare al rapido deteriorarsi della situazione di relativa calma fra Israele e i palestinesi: Fatah ha perseguito un accordo mai realizzato sulla spinta di Bush tramite il rapporto fra Abu Mazen e Olmert, ormai fuori gioco, e dall’altra parte la tregua con Hamas ha molto diminuito i missili Kassam su Sderot.

Ma il baratro è dietro l’angolo: il 9 gennaio scade il mandato presidenziale di Abu Mazen. Egli, tuttavia, è determinato a prolungarlo almeno di un anno, finché scada anche il termine delle elezioni del Consiglio legislativo, da cui ebbe origine la mortale presa di Hamas su Gaza e la sua strisciante forza nel West Bank. Ma Hamas non vuole saperne e minaccia molto pesantemente una reazione violenta e una sostituzione forzosa di Abu Mazen. Fatah tuttavia, non sta a guardare: da una parte cerca la pace con Hamas, e visto il fallimento del Cairo che da tempo cerca di mettere d’accordo le due parti, proprio domenica Abu Mazen è andato a Damasco per provare la mallevadoria di Bashar Assad, cui il capo di Hamas all’estero Khaled Mashaal deve pur qualcosa per la lunga e onerosa ospitalità. Dall’altra parte, con il permesso degli israeliani che temono per lui, Abu Mazen ha ottenuto proprio ieri il permesso che 700 uomini armati vengano introdotti fin da ora a presidio della città di Hebron, nella West Bank, un fortino di Hamas, e da parte israeliana si suggerisce che Abbas è pronto a stroncare Hamas da subito con arresti e confische.

Chi ricorda il sangue e gli orrori dello scontro Hamas-Fatah a Gaza può immaginare cosa accadrà sia a Gaza che a Ramallah, Hebron e così via, se le due parti non troveranno un accordo. Del resto Hamas non intende rinunciare al potere, all’eccitazione religiosa che le vibra nei muscoli dal 2006 e le dà il vento in poppa: i loro amici, gli Hezbollah sono una forza vittoriosa, Ahmadinejad un leader che guiderà l’Islam alla distruzione d’Israele e al rovesciamento del potere mondiale a favore dell’Islam, Al Qaida un amico lungimirante e potente. La crisi americana, inoltre, è considerata un segno del Cielo. Come si collega tutto questo alla possibilità di nuova Intifada? Attraverso la necessità di Abu Mazen di conquistare il consenso, sempre più scarso quando si parla di pace e di rapporti con gli israeliani. Un paio di segnali forti li ha già dati, come per esempio la visita in Libano a Samir Kuntar, che ha ucciso una bambina ebrea spaccandole la testa col calcio del fucile.

Abu Mazen sa che la sua debolezza, legata alla fatale ostilità di metà almeno del suo popolo, diventerà forza solo se la lotta comune al Nemico per eccellenza, Israele, seppellirà le continue accuse di Hamas di essere un burattino degli americani e degli israeliani. Adesso i «suoi» americani, Rice e Bush, e il suo israeliano, Olmert svaniscono all’orizzonte come il sorriso del gatto di Alice e brillano le armi di Hamas che suggeriscono: «Attenzione, o con noi, o contro di noi». Abu Mazen è di fronte a un dilemma fatale.

Di seguito, la cronaca di Caprile:

Ben Ami, la strada dello shopping di Akko, sembra essere stata attraversata da un tornado caraibico. Vetrine in frantumi, saracinesche divelte e cumuli e cumuli di detriti. Ma in questa devastazione il furore del vento non c´entra. C´entra l´odio, purtroppo. L´odio tra ebrei e arabi, costretti a vivere, fingendo di sopportarsi fino a una settimana fa, sotto lo stesso cielo di questa bella città, l´antica San Giovanni d´Acri dei tempi delle crociate e dei Templari, che si affaccia sul mare nel nord d´Israele.
Forse il mito della «coesistenza pacifica» tra le due comunità non è morto, come sentenzia qualcuno, ma è sicuramente stato messo a dura prova da cinque giorni di violentissima guerriglia urbana. La scintilla di quello che sarebbe ben presto divenuto un incendio scoppia mercoledì scorso. Quando un´auto guidata da un arabo entra inavvertitamente in un quartiere ebraico in pieno Yom Kuppur, la sacra festa del Perdono. Errore o provocazione che sia quella macchina innesca un uragano di violenza. Si diffonde la falsa notizia che l´incauto autista sia stato ucciso. Basta questo perché centinaia di giovani invadano il centro al grido di «Morte agli ebrei», distruggendo qualunque cosa capiti loro a tiro. La risposta degli ebrei non tarda ad arrivare e si trasforma ben presto in una autentica caccia all´arabo che solo per miracolo non fa vittime. Le pubbliche scuse che Jamal Taufik, l´uomo che la sera del Kippur ha scatenato la guerriglia, si affretta a fare non servono a nulla: «Non intendevo provocare nessuno - dice - Semplicemente dovevo passare di lì per tornare a casa. Mi dispiace immensamente per ciò che sia pure involontariamente ho causato. Se potessi, darei la vita per riportare la pace tra noi arabi e gli ebrei».
La guerriglia continua, dunque. Case e auto incendiate, negozi del centro devastati, un orribile ping pong che se per fortuna non uccide nessuno fa comunque temere che non sia finita qui e che il «contagio» possa presto estendersi ad altri centri della Galilea.
Per ora la situazione è sotto controllo grazie alla tempestiva risposta dello Stato che ha militarizzato la zona inviando settecento tra poliziotti e guardie di frontiera per presidiare i punti nevralgici di San Giovanni d´Acri. Una misura eccezionale che insieme agli appelli alla ragionevolezza delle massime autorità politiche e religiose dell´una e dell´altra comunità, è riuscita a riportare la calma. Ma è una calma apparente. Perché come teme lo scrittore arabo, Yakub Hijazi, «forse qualcosa si è definitivamente rotto e niente sarà più come prima».
Che bisognava intervenire subito il primo a capirlo è stato Simon Peres, l´85enne presidente della Repubblica, premio Nobel per la pace nel �94, che ieri si è precipitato ad Akko. «Nessuno pretende che un musulmano diventi ebreo o che un ebreo diventi musulmano», ha detto Peres, aggiungendo che «se in Israele ci sono religioni differenti esistono però una unica legge e una sola polizia». Tolleranza zero, dunque, contro tutti coloro che, indipendentemente dal loro credo, alimenteranno la spirale d´odio. Nella speranza che ritorni la ragione, Peres ha convocato in municipio esponenti ebrei ed arabi chiedendo loro di fare l´impossibile per riportare la pace sociale Ha anche lanciato l´idea di un forum religioso, con rappresentanti di ebrei, musulmani e cristiani.
La tensione però resta altissima. Serpeggia tra i minareti delle moschee nella città vecchia e tra i merli, in gran parte ricostruiti in epoca recente, sugli spalti delle mura che al tempo delle crociate avrebbero dovuto difendere la storica San Giovanni d´Acri dagli attacchi del Saladino, al quale però la città fu consegnata senza colpo ferire per evitare ai cristiani un inutile bagno di sangue. E la speranza è che anche stavolta la ragionevolezza induca gli uni e gli altri a fare un passo indietro. Da ieri sera, prima giornata del Succot, che dura una settimana e chiude la serie delle feste ebraiche di inizio anno, Akko si accinge a vivere un´altra notte di paura. Con la consapevolezza, purtroppo, che non sarà l´ultima

E l'intervista a Yehoshua:

Abraham Yehoshua è preoccupato: dalla sua casa di Haifa lo scrittore guarda con apprensione l´esplosione di violenza degli ultimi giorni ad Akko e non lo nasconde. «È una cosa molto negativa. E allarmante. Spero solo che funzioni come sveglia per tutta la società israeliana e convinca destra e sinistra che occorre migliorare le condizioni dei cittadini arabi israeliani».
Perché dice allarmante?
«Da cittadino israeliano sono sempre stato molto fiero di vivere in un paese dove nonostante tutte le difficoltà e la violenza cittadini ebrei e arabi riuscissero a convivere. Non dico ad amarsi o essere amici, ma convivere. Ora questo viene messo in dubbio. È una questione vitale per Israele che la minoranza araba si senta a casa sua in questo paese, è sempre stato così, sin dalla nascita dello Stato. Sono cittadini come noi».
Ma non godono degli stessi diritti...
«Questo è verissimo e questo è ciò su cui le violenze di questi giorni devono aprirci gli occhi. La popolazione araba di Israele cresce più in fretta di quella ebraica ma non ha lo stesso accesso all´edilizia. Non ci sono case per loro. Sono state costruite città nuove per contenere gli ebrei in questi anni, non per gli arabi: gli spazi si riducono, c´è più tensione e può scoppiare violenza. Dovremmo costruire città anche per gli arabi: occorre un piano per migliorare il livello di vita dei cittadini arabi e integrarli nella vita dello stato di Israele, altrimenti rischiamo altri incidenti. Akko è un luogo dove la convivenza è vecchia di secoli, ma ora, sotto la pressione demografica, gli equilibri si stanno rompendo».
Queste città per arabi non rischierebbero di diventare ghetti?
«Non credo. Ci sono già villaggi arabi, servirebbe solo più spazio. Così non si creerebbe il problema come quello di un arabo che viola lo Yom Kippur, sbagliando, e viene attaccato dagli ebrei, che hanno sbagliato anche loro».
Molti temono che da questi scontri nasca una nuova Intifada: lei cosa pensa?
«Non sono d´accordo. Nessuno vuole una nuova Intifada, glielo dico io che vivo in una zona mista. Dopo guerra, violenza e attentati ora siamo almeno in una fase di dialogo. Difficile, ma dialogo. Nessuno vuole tornare indietro».
Il nuovo governo israeliano affronterà la questione?
«Spero di sì. Ho mandato un appello alla Livni, perché inviti i deputati che rappresentano i cittadini arabi a entrare nella maggioranza. Non ho ricevuto risposta, ma ci spero ancora».

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