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La Stampa - L'Unità - Il Foglio - La Repubblica - Liberazione Rassegna Stampa
10.07.2008 L'Iran testa missili che possono colpire Israele
cronache e analisi: rassegna di quotidiani

Testata:La Stampa - L'Unità - Il Foglio - La Repubblica - Liberazione
Autore: Francesca Paci - Umberto De Giovannangeli - Giulio Meotti - la redazione - Alix Van Buren - Sabina Morandi
Titolo: «Iran, un missile per intimidire Israele - «Dobbiamo colpire per primi o Teheran ci distruggerà» - “A Israele resta una sola scelta: colpire l’Iran”. Parla Benny Morris - Lo Shahab-3 già raggiunge Gerusalemme, e ora arriva lo Shahab-4 -»

È un avvertimento del regime per continuare le trattative - Tutti contro l'Iran, fra propaganda ed equilibrismo diplomatico

Da pagina 10 de La STAMPA del 10 luglio 2008, la cronaca di Francesca Paci:


«Martedì sera stavamo mangiando il cocomero sul balcone quando all’improvviso abbiamo visto un lampo luminosissimo che attraversava il cielo e finiva nel mare», racconta Esther Katz, avvocato, moglie di un avvocato, lo studio in Dizengoff Street e una villetta a pochi isolati dal porto di Tel Aviv. «Ho pensato a una cometa», continua. I genitori che vivono a Modin invece, si sono ricordati delle minacce del presidente iraniano Ahmadinejad e hanno chiamato la centrale di polizia, trovando la linea intasata. Secondo gli scienziati era semplicemente un meteorite di dimensioni portentose, un falso allarme frutto di giorni e giorni di tam tam bellico. Almeno fino a ieri mattina, quando Teheran ha divulgato la notizia del lancio di nove missili, uno dei quali, una versione aggiornata dello Shahab-3, capace di raggiungere Israele, e il premier Olmert ha convocato d’urgenza il Consiglio di difesa.
Il governo tace, ma in casa Katz e nei salotti di migliaia di israeliani non si parla d’altro. Quasi il conflitto contro gli ayatollah non fosse più questione di probabilità ma di tempo.
«Di certo spirano venti di guerra», ammette il generale Amnon Lipkin Shahak, ex capo di stato maggiore. Il mese scorso l’aviazione israeliana ha condotto un poderoso addestramento nei cieli della Grecia all’indomani del quale il ministro dei trasporti Shaul Mofaz si è espresso senza mezzi termini circa «l’inevitabilità di un attacco all’Iran». E poco importa che un paio di settimane fa l’ammiraglio Mike Millen, capo supremo delle forze armate americane, abbia concluso la sua visita a Gerusalemme dissuadendo gli israeliani da un eventuale raid. Con o senza gli Stati Uniti lo Stato ebraico è deciso a difendersi.
La comunità internazionale resta orientata alla via diplomatica. Ma il lancio dello Shahab-3, con una gittata di duemila chilometri e un’appendice di bombe a grappolo, desta parecchia preoccupazione. A cominciare dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, ieri a Ramallah per incontrare il premier palestinese Salam Fayyad e annunciargli il finanziamento di altri 20 milioni di euro, un extra rispetto a quelli recentemente stanziati alla Conferenza di Berlino. Secondo Frattini «tutta la comunità internazionale, non solo Israele, ha interesse a bloccare in modo definitivo questa escalation». Anche perché, incalza dal vertice del G8 il presidente del Consiglio Berlusconi, il fallimento delle trattative sul nucleare iraniano sarebbe «un finimondo per il mondo arabo», forse addirittura per l'intero pianeta.
L’Iran non molla. Rifiuta di sospendere l’arricchimento dell’uranio, come richiesto dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e rilancia, minacciando di mettere «a ferro e fuoco» Tel Aviv in caso i suoi impianti nucleari venissero colpiti. Il test di ieri, spiega il comandante delle forze aeree Pasdaran, Hossein Salami, «è una dimostrazione di forza e determinazione ai nemici che da settimane ci provocano con un linguaggio rude».
Se l'escalation degli armamenti ancora tituba, quella verbale è cominciata da tempo. Il segretario di Stato americano Condoleezza Rice accoglie il lancio del nuovo missile di Teheran come «la prova» che il pericolo iraniano «non è frutto dell’immaginazione». Un’affermazione condivisa da entrambi i candidati alla Casa Bianca, il democratico Barack Obama favorevole a una «diplomazia aggressiva» con ulteriori sanzioni e il repubblicano John McCain propenso alla realizzazione di uno scudo anti-missile in Europa.
Lo Shahab-3 in realtà, sarebbe un modello vecchio, noto all’intelligence israeliana da almeno tre anni. Sembra che l'Iran ne abbia una trentina. Ma, rivelano gli esperti, neppure lanciati in blocco farebbero più danni degli Scud-C iracheni del 1991. Magra consolazione per i coniugi Katz che anche stasera scrutano il cielo terso di Tel Aviv.

Umberto De Giovannangeli intervista per L'UNITA' ( pagina 11)l'ex capo del Mossad Shabtay Shavit. "Non è un politico alla ricerca di consensi" scrive u.d.g."Non c’è alcun interesse di carriera a motivare le sue allarmanti considerazioni. Per questo va preso molto sul serio. Per la sua storia, la sua riconosciuta autorevolezza, per l’esperienza acquisita sul campo" lo sideve ascoltare quando afferma che " Israele ha un anno, non di più, per distruggere le installazioni nucleari iraniane, altrimenti rischia di essere l’obiettivo di un attacco atomico da parte di Teheran".

Ecco il testo completo.

Non è un politico alla ricerca di consensi. Non c’è alcun interesse di carriera a motivare le sue allarmanti considerazioni. Per questo va preso molto sul serio. Per la sua storia, la sua riconosciuta autorevolezza, per l’esperienza acquisita sul campo. Israele ha un anno, non di più, per distruggere le installazioni nucleari iraniane, altrimenti rischia di essere l’obiettivo di un attacco atomico da parte di Teheran: a sostenerlo è Shabtay Shavit, già capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, dal 1989 al 1996. «Lo scenario peggiore - spiega Shavit - è che l’Iran si doti entro un anno dell’arma nucleare: il tempo per evitarlo si fa sempre più ristretto». E il fallimento delle sanzioni aprirebbe inevitabilmente la strada all’opzione militare. «Nessuno al mondo - avverte l’ex capo del Mossad - può sottovalutare la portata della minaccia iraniana».
La comunità internazionale ha espresso preoccupazione per il nuovo test missilistico effettuato ieri dall’Iran. Qual è in merito la sua valutazione?
«È la riprova, se mai ce ne fosse stato bisogno, della pericolosità estrema della sfida che il regime iraniano ha lanciato non solo a Israele ma al mondo libero, all’Europa...I nuovi missili iraniani (gli Shahab-3) hanno una gittata - duemila chilometri - una precisione, un potenziale distruttivo tali da mettere a rischio non solo i cittadini di Tel Aviv, ma anche quelli di Madrid, di Roma...».
In un recente convegno lei non ha nascosto il suo pessimismo su una possibile soluzione diplomatica del contenzioso nucleare con Teheran.
«Vede, in quanto esperto che lavora sui peggiori scenari, è mio dovere sottolineare la necessità di prepararsi. Occorre fare di tutto per approntare un piano difensivo nell’ipotesi che le sanzioni contro l’Iran non risultino efficaci ed esaustive. Quel che resterebbe, a quel punto, è l’opzione militare. Una cosa è certa: Israele non può permettersi di sottovalutare minimamente la minaccia iraniana, Dobbiamo essere pronti ad ogni evenienze, e anticipare il nemico. D’altro canto, è bene sapere che gli iraniani non si fermeranno quando avranno raggiunto il livello che garantisce una sola bomba atomica ma continueranno a creare altro materiale fissile».
Lei ha fatto riferimento alla strategia delle sanzioni. È una carta ancora spendibile?
«Potrebbe esserlo, ma per funzionare le sanzioni devono essere realmente incisive e, soprattutto, rispettate da tutti...».
Quali potrebbero essere sanzioni più incisive?
«Penso alla sospensione di prodotti petrolifero raffinati, che l’Iran non è in grado di fabbricare. o al blocco totale dei conti esteri iraniani: queste misure, se realizzate in tempi rapidi e senza eccezioni, potrebbero, forse, aprire delle contraddizioni all’interno stesso del regime iraniano e mettere alle corde la componente più estrema. Se questa carta non sarà giocata con la massima fermezza e unità di intenti allora non resterà che l’opzione militare. C’è poi un altro dato di preoccupazione che a me pare essere sottovalutato dalla diplomazia internazionale...».
Qual è questo dato?
«L’atomica iraniana avrà un effetto destabilizzante per l’intero Medio Oriente per il fatto stesso che è stata realizzata. Perché il solo possesso dell’arma nucleare rafforzerebbe l’influenza di Teheran su tutti i gruppi radicali mediorientali, dalla Jihad islamica a Hamas agli Hezbollah fino alla galassia qaedista... Quella bomba non sarebbe solo una minaccia mortale per Israele ma verrebbe vissuta dai regimi arabi sunniti come l’“atomica sciita” che altererebbe a favore dell’Iran e dei suo satelliti sciiti in Medio Oriente, gli equilibri di potenza nel mondo arabo. Nel mirino entrerebbero l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita. Vi sarebbe una corsa al riarmo nucleare che a quel punto diverrebbe inarrestabile. Ragione in più per agire subito, prima che sia troppo tardi».

Da Il FOGLIO, un'untervista di Giulio Meotti allo storico israeliano  Benny Morris che denuncia il concreto pericolo di un  secondo Olocausto:

Roma. Le Guardie rivoluzionarie dell’Iran ieri hanno trasmesso in diretta tv il lancio di nove missili a lunga gittata in grado di colpire Israele. Lo Shahab-3 può arrivare fino a duemila chilometri, il doppio della distanza che separa Israele dal confine occidentale iraniano. Il grande storico Benny Morris, che insegna alla Ben Gurion University di Be’er Sheva, aveva previsto lo scenario in un lunghissimo saggio sul “secondo Olocausto”, pubblicato da molti quotidiani, come New York Sun e Jerusalem Post, in Italia dal Corriere della Sera. “Storico solitario”, come lo chiama il mensile The Atlantic, Morris è autore di molti saggi su Israele. Una ventina di anni fa scrisse “The Birth of the Palestinian Refugee Problem”, ne fece il capofila dei “nuovi storici”, studiosi pronti a dissacrare i miti fondatori d’Israele a colpi di ricerche d’archivio. Da colomba pacifista che rifiutò la divisa di Tsahal, Morris oggi è un “revisionista” difensore delle ragioni israeliane, persino nella scelta del 1948 di “trasferire” parte dei palestinesi (rilasciò una clamorosa intervista a Haaretz). A lui chiediamo prima di tutto come giudica la tregua con Hamas. “E’ qualcosa di temporaneo, loro vogliono la distruzione di Israele e Israele non vuole che Hamas domini la striscia di Gaza e la West Bank. Da qui nasce il periodo di tregua, ma sfocerà in un nuovo periodo di guerra fra Israele e l’organizzazione islamica terrorista. E’ inevitabile”. Teheran ha esteso il raggio dei missili in grado di colpire Tel Aviv. “Io dico sempre: siamo realisti. L’Iran vuole a tutti i costi la bomba nucleare e c’è un limitato periodo di tempo prima che abbia ultimato la produzione. Ora, l’America è irrisoluta, Bush debole e senza sostegno popolare, con l’Afghanistan che va peggio di quanto si aspettassero. Bush potrebbe fare ciò che deve negli ultimi mesi di presidenza, ma non è nelle condizioni adatte. Israele non può permettersi che l’Iran detenga la bomba e quindi è iniziato il conto alla rovescia per la distruzione dei suoi siti nucleari. Israele non ha scelta: la comunità internazionale non ha fatto niente sull’Iran, le sanzioni non funzionano e gli americani prendono tempo. Israele ha una sola opzione: colpire Teheran. Se avrà successo, ma chi può dirlo, dipende dal grado di informazioni di Israele e come gli iraniani si difenderanno”. Morris spiega le conseguenze della bomba atomica iraniana. “Sarebbe un disastro, gli iraniani vogliono distruggere Israele, lo ha promesso Ahmadinejad e non c’è resistenza e dissidenza su questo. Se hanno la bomba, la useranno. Ma il vero problema non è neanche il suo utilizzo, quanto il solo fatto di possederla, non è la distruzione di Israele, ma il suo estremo indebolimento. Con il tempo, sotto minaccia atomica, non ci sarà più immigrazione in Israele, gli ebrei se ne andranno, non ci saranno investimenti per la paura atomica. L’Iran atomico sarebbe una catastrofe per Israele”. Vale anche per Hamas e Hezbollah. “Sono agenti iraniani, se l’Iran avesse la bomba fornirebbe a ogni gruppo terroristico una copertura morale e militare, ogni terrorista sarebbe protetto dall’ombrello atomico iraniano. Vale per la Siria. L’Iran non deve assolutamente avere lo scudo nucleare”. In un libro recente, Morris ha spiegato come fin dal 1948 il conflitto avesse un carattere jihadista. “Ahmadinejad pensa davvero che Allah vuole che l’islam sia vincitore nel mondo e che sconfigga la cristianità, il giudaismo, il buddismo e l’induismo. L’Iran si vede come l’avanguardia della vittoria islamica globale. Israele è il problema principale in questo progetto, la distruzione dello stato ebraico è necessaria per questa ambizione”. Secondo dati recenti, aumenta la fascia di popolazione israeliana minacciata da Hamas. “Io vivo fra Gerusalemme e il Negev, non mi trovo sotto i razzi. Ma oggi circa 200 mila israeliani si trovano sotto la minaccia dei Qassam. Questi missili non uccidono molti israeliani, perché il loro obiettivo è un altro, lanciare in aria un razzo e sottomettere alla paura la popolazione israeliana. I bambini devono ripararsi sotto il letto, le madri avranno paura di portarli a scuola”. Morris ha scritto che “il secondo Olocausto non sarà come il primo”. Anche i nazisti ordirono uno sterminio di massa. Ma avevano un contatto diretto con gli ebrei, li disumanizzavano, vedevano, sentivano, toccavano e bruciavano. “Il secondo Olocausto sarà diverso”. E lo descrive così: “Un bel giorno, tempo cinque o dieci anni, magari nel pieno di una crisi regionale, o quando meno ce lo aspetteremo, un giorno o un anno o cinque anni dopo che l’Iran si sarà dotato della Bomba, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto dell’ayatollah Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet al presidente Ahmadinejad, giunto oramai al secondo o al terzo mandato. Tutti i comandi saranno eseguiti, i missili Shahab-3 e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme e, probabilmente, anche contro alcuni campi militari, comprese le sei basi aeree e missilistiche nucleari (o presunte tali) di Israele. Quattro o cinque lanci saranno probabilmente sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nelle maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, periranno sul colpo. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale”. Dire Qassam significa parlare del disimpegno voluto da Ariel Sharon. “Ero moderatamente ottimista, molto combattuto, sul ritiro da Gaza”, ci dice Morris. “Il ritiro ha reso Hamas molto più potente, in questo senso è stato un errore. E’ possibile che alla fine Israele sarà costretto a rientrare a Gaza con i carri armati se i terroristi non cesseranno i lanci di Qassam. Il ritiro ha certamente migliorato le nostre relazioni con l’occidente e l’America, ma i palestinesi hanno letto la politica del ritiro come debolezza. Nonostante le stragi recenti, non penso che rivedremo quanto accadde dal 2001, i continui attentati suicidi. Israele fa continui raid nei covi di Hamas nella West Bank e del Jihad Islamico. Hamas può lanciare razzi, ma non infiltrare facilmente i kamikaze”. In due minuti, una domenica del giugno 1981, caccia israeliani distrussero il reattore iracheno di Osirak. Ma secondo Morris quel modello non si applica all’Iran. “Osirak fu facile per noi, era vicino, l’Iraq era in guerra con un’altra potenza e guardava altrove. L’Iran è più lontano, è molto esteso e ha molti siti sotto terra. L’operazione è molto più complicata. Non possiamo però stare con le mani in mano: o Israele elimina il suo arsenale nucleare, o l’Iran prima o poi distruggerà Israele”.

Un'analisi della capacità missilistica iraniana, vera e propria "pistola fumante" della natura militare del programma nucleare:

Le grandi esercitazioni “Profeta” tenute dai pasdaran nell’area del Golfo Persico costituiscono da tre anni una vetrina degli arsenali iraniani e un’occasione per ribadire al “Grande Satana” statunitense e alle monarchie sunnite che Teheran è in grado di bloccare lo Stretto di Hormuz. Il culmine delle esercitazioni “Profeta” è costituito dal lancio di una vasta gamma di missili balistici, antinave e razzi pesanti, una regola che non ha avuto eccezioni quest’anno con ben nove test missilistici, dal “piccolo” razzo campale Fateh 110 (160 chilometri di gittata, fornito anche a Hezbollah) al missile balistico a medio raggio Shahab-3, punto di forza dell’arsenale strategico di Mahmoud Ahmadinejad. Sviluppo del nordcoreano Nodong-1 acquisito negli anni Novanta, lo Shahab-3 è in realtà stato prodotto in Iran in diverse versioni, migliorate grazie alla tecnologia russa e cinese, che ha consentito di perfezionare soprattutto i propulsori e il sistema di guida. Nonostante le assicurazioni del presidente russo, Dmitri Medvedev, a Silvio Berlusconi (“non abbiamo mai dato e non daremo mai missili a Teheran”) Mosca è il principale fornitore di armi all’Iran, inclusa tecnologia missilistica, i moderni sistemi antiaerei Tor-M1 posti a difesa dei siti nucleari e forse gli S-300, capaci di intercettare anche i missili da crociera. La gittata degli Shahab varia dai 1.300 chilometri della versione A ai 2.000 della versione B a due stadi, nota anche come Shahab-4. E’ in fase di sviluppo una versione D, derivata dai Taepodong-2 nordcoreani. Quello lanciato ieri dall’esercito della Repubblica islamica è un missile da una tonnellata che può colpire obiettivi in un raggio di 1.300 chilometri. Nel bersaglio ci sono i paesi del Caucaso e quelli dell’Asia centrale, la Turchia e tutta la penisola arabica, da Israele allo Yemen. La realizzazione dello Shahab versione D costituirebbe una minaccia reale alla sicurezza europea: con i suoi 3.000 chilometri di gittata può colpire Roma, Berlino e Parigi, ma anche Mosca e Nuova Delhi. Gli analisti ritengono che gli Shahab in servizio siano un centinaio, per lo più nella versione A, gestiti da cinque brigate missilistiche dei Guardiani della Rivoluzione (Ra’ad, al Hadid, Zulfuqar, Gaem eTowhid), anche se parte del personale proviene dai ranghi dell’aeronautica. E’ assai probabile che l’Iran armi i suoi Shahab con testate chimiche o biologiche: i missili balistici sono armi strategiche il cui impiego per portare sul bersaglio 550 o mille chili di tritolo avrebbe un significato soltanto simbolico. Gli Shahab di fatto costituiscono la principale “pistola fumante” del programma nucleare militare iraniano poiché armi del genere sono in servizio soltanto presso paesi che dispongono di armi nucleari: India, Pakistan, Israele e le cinque grandi potenze. Teheran potrebbe reagire su due fronti a un eventuale attacco contro i propri impianti nucleari. Potrebbe colpire Israele con i missili Shahab o scatenare una rappresaglia nello Stretto di Hormuz. Nelle acque del Golfo Persico sarebbero impiegati barchini esplosivi, missili antinave cinesi Silkworm e siluri veloci russi Shvalk già collaudati durante le manovre Profeta dell’anno scorso. Il comandante delle forze aeree dei pasdaran, Hossein Salami, ha sottolineato che con queste esercitazioni “l’Iran vuole mostrare la sua determinazione e la sua forza ai nemici”. Un riferimento alle ipotesi di raid aerei israeliani ma forse anche al rischieramento nel Golfo dell’Oman della portaerei americana Lincoln

Intervistato da Alix Van Buren per REPUBBLICA Vali Nasr sostiene l'incredibile tesi secondo la quale il lancio dei missili iraniani "introduce nel discorso bellicistico un elemento di deterrenza". Il "discorso bellicistico" sarebbe quello americano e israeliano, non quello degli ayatollah che vogliono cancellare Israele dalla faccia della terra.

Vali Nasr sostiene da tempo il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell'Iran come potenza regionale. Il fatto che Teheran sostenga il terrorismo, voglia distruggere Israele ed esportare la rivoluzione islamica khomeinista per lui non un problema.

Scegliendo di commentare il test missilistico iraniano con un'intervista a Nasr, REPUBBLICA sembra fare una  scelta precisa. Quella dell'indifferenza di fronte alla minaccia all'esistenza stessa di Israele.

Ecco il testo:

«Il rompicapo dell´Iran si complica con la sorpresa dei nove missili esplosi ieri da Teheran. Quelle ogive recano un messaggio chiaro: che un´eventuale attacco israelo-americano avrà conseguenze gravi, per l´intera regione». Vali Nasr al telefono da Washington misura la temperatura dello scontro finora verbale col regime iraniano. Esperto ascoltato nelle cancellerie dell´Occidente, autore del bestseller "La rivincita sciita", il professore Nasr predica cautela. A suo avviso il conflitto non è inevitabile, «purché - avverte - chi abbia orecchie ascolti quest´ultimo messaggio lanciato da Teheran. I destinatari del monito sono più d´uno».
Professore Nasr, a chi s´è indirizzata Teheran?
«Agli Usa e a Israele, innanzitutto. Sciorinando agli occhi del mondo un´arma balistica del raggio di 2000 chilometri, dimostra che può colpire fino a Tel Aviv e alle basi militari americane nel Golfo. Introduce nel discorso bellicistico un elemento di deterrenza. Manda a dire però anche agli Stati arabi - a Dubai, ad Abu Dhabi, alla Giordania - che se concederanno all´America l´uso del proprio territorio o dello spazio aereo per l´attacco, subiranno il contraccolpo. Ma si rivolge anche all´Europa, perché rafforzi l´iniziativa diplomatica e freni le tentazioni della Casa Bianca. Paradossalmente, quello di Teheran può essere interpretato come un segnale di pace».
Di pace? Si spieghi.
«L´ala moderata del regime, di cui fanno parte Velayati, Larijani il nuovo capo del Parlamento e molti altri ai vertici, preme affinché non si modifichi l´attuale status quo, sospeso fra guerra e pace. Questo nell´attesa che cambino i rispettivi presidenti, Bush e Ahmadimejad, i cui mandati stanno per scadere. Perciò moltiplica le iniziative diplomatiche, ad esempio la proposta fatta nei giorni scorsi a Javier Solana. In breve affermano: "E´ troppo presto per la guerra. Non chiudete la porta delle trattative"».
Israele raccoglierà l´invito? Lei come interpreta l´esercitazione militare condotta da Tsahal che simulava un attacco all´Iran?
«I "giochi di guerra israeliani", tradotti in termini diplomatici, equivalgono a una pressione sull´Europa affinché s´impegni a fermare il programma nucleare iraniano, se vuole scongiurare un conflitto. Ma alle minacce seguono altre prove di forza. Così, a colpi di escalation, rischia d´innescarsi una situazione simile alla Prima guerra mondiale. Per questo Teheran ieri ha introdotto un principio di deterrenza».
Con quali risultati?
«Bisogna vedere quanto i missili iraniani siano davvero temibili. Il Pentagono non ha mai rese pubbliche le sue valutazioni sull´arsenale di Teheran. I vertici militari americani, però, non sono pronti a una nuova avventura, visti gli enormi ostacoli sul fronte afgano, pachistano e iracheno. E questo fa sperare».

Su LIBERAZIONE l'Iran diventa la vittima dei complotti americani e israeliani:

La notizia è stata ripresa da tutti i media insieme alle parole di fuoco dei generali iraniani: Shahab-3, un nuovo missile a lunga gittata, è stato testato da Teheran per dimostrare «la determinazione e la potenza - dell'Iran - ai nemici che hanno usato un linguaggio aggressivo nelle ultime settimane» come hanno riportato i media di stato. Il realtà il missile era già stato testato (ma questo non lo dicono né i nazionalisti iraniani né i falchi d'Occidente) e viene ri-sperimentato per rispondere alle esercitazioni che Israele ha condotto all'inizio di giugno, lette da Teheran come una prova d'attacco alle sue presunte installazioni nucleari. Gli esperti fanno macabre scommesse sullo scoppio di un conflitto che avrebbe certo conseguenze nefaste, e non solo nella martoriata regione. Più che i missili su Tel Aviv il mondo - israeliani compresi - dovrebbe temere il devastante impatto sull'economia globale del blocco dei rifornimenti petroliferi provenienti dal Golfo che passano tutti, compresi quelli sauditi, per il piccolo Stretto di Hormuz. E' noto infatti che l'Iran è perfettamente in grado di bloccare in poche ore il transito delle petroliere in un braccio di mare dove passa il 50% del greggio prodotto nel mondo.
La vicenda iraniana va avanti da parecchio. Secondo Scott Ritter, ex-ispettore dell'Aiea (l'Agenzia internazionale per l'energia atomica), da sei anni Stati Uniti e Israele alimentano un'escalation fondata sul nulla visto che di armi nucleari, in Iran, non c'è traccia. In "Obiettivo Iran" - libro che la Casa Bianca ha fatto di tutto per bloccare - Ritter racconta dettagliatamente la paradossale storia della bomba di Teheran, una bomba che non c'è e non ci sarà per parecchi anni (l'ha sostenuto perfino la Cia) ma che continua a campeggiare nei titoli dei giornali. Eppure, dal 2002, l'Iran viene passato al setaccio dagli ispettori dell'Agenzia, cui spetta il compito di controllare che i firmatari del Trattato di Non Proliferazione Nucleare non impieghino le tecnologie necessarie alla produzione di energia per costruire armi di distruzione di massa. In cambio di un controllo ravvicinato, ai firmatari viene garantito il diritto di avere accesso all'energia atomica civile, fornendo loro tecnologie moderne per evitare eventuali incidenti.
Normalmente all'Agenzia spetta il compito di dimostrare che un paese ha mentito sui propri programmi e non il contrario, esattamente come ai giudici spetta di dimostrare la colpevolezza di un imputato. Le pressioni congiunte di Washington e di Tel Aviv, però, hanno spostato l'onere della prova dall'Agenzia all'Iran, costringendo l'Aiea a deferire Teheran al Consiglio di Sicurezza anche se, in sei anni, i suoi ispettori non hanno trovato uno straccio di prova e anche se gli iraniani sono stati molto disponibili - con l'esempio di Saddam come potevano fare altrimenti? Se l'Agenzia non avesse deferito l'Iran, come ha dichiarato più volte John Bolton, il superfalco di Bush messo alle Nazioni Unite appositamente a questo scopo, l'Aiea avrebbe mostrato la sua inutilità e gli Usa avrebbero dovuto fare di nuovo tutto da soli come nel 2003, quando attaccarono l'Iraq senza mandato.
Pesi e misure molto diverse da quelle applicate all'India, che ha costruito e testato la bomba, non ha firmato il Trattato eppure riceve in cambio da Washington un pacchetto di tecnologie atomiche di tutto rispetto. In cambio New Delhi si smarca da Teheran e da Pechino - almeno così sperano gli americani - che hanno già stanziato parecchi soldi per la costruzione di una megapipeline asiatica per portare gas e petrolio nella fabbrica del mondo. L'altra preoccupazione degli americani riguarda la vera bomba di Teheran, quella finanziaria: se aprisse la famosa borsa petrolifera in euro il dollaro, già in declino, andrebbe in caduta libera con conseguenze devastanti per la disastrata economia americana. Continuare le guerre coloniali in Medio Oriente sembra insomma la strada obbligata per un'amministrazione che vuole a tutti i costi addossare a qualcun altro il fallimento in Iraq.
Del resto è dal 2004 che la stampa americana pubblica articoli sui piani d'attacco: Newsweek, l'Atlantic Monthly e quel megafono dei neocon che è l'American Conservative hanno prospettato l'impiego di atomiche tattiche e altre diavolerie "chirurgiche" volte a far tornare gli iraniani «all'età della pietra». Nel frattempo l'intelligence statunitense e israeliana continuavano a passare informazioni all'Aiea che, puntualmente, cercava di verificarle sul campo, senza mai riuscirci. Così, irritata dai fallimenti dell'intelligence, l'amministrazione Bush ha cominciato a spostare l'attenzione dall'atomica al cambio di regime. Inutile dire che il governo di Teheran non è certo un campione dei diritti umani e oltretutto avrebbe qualche motivo per dotarsi di armi atomiche come i suoi vicini - India, Pakistan e Israele - anche se, particolare che si tende a dimenticare, le autorità religiose sciite hanno più volte espresso la loro contrarietà (diramando apposite fatwe) e l'Iran non invade nessuno dai tempi dell'antica Grecia.
La campagna anti-Iran è stata costruita sulla notissima affermazione del presidente iraniano relativa alla distruzione di Israele. Appena il discorso venne pronunciato, i leader mondiali ripresero e condannarono la minaccia ignorando le proteste del ministro degli esteri di Tehran che aveva immediatamente negato che Ahmedinejad avesse pronunciato qualcosa del genere. Del resto sono state tranquillamente ignorate anche le lettere che alcuni noti accademici statunitensi hanno spedito ai network per protestare sull'inesattezza della traduzione. Juan Cole, professore di Studi medio-orientali presso l'Università del Michigan, ha spiegato che in realtà il presidente Ahmadinejad si è limitato a citare una frase dell'Ayatollah Khomeini sul regime sionista, non su Israele: «L'Imam disse che il regime che occupa Gerusalemme (een rezhim-e ishghalgar-e qods, in persiano) deve sparire dalla pagina del tempo (bayad az safheh-ye ruzgar mahv shavad)». Secondo Cole «Ahmadinejad non stava facendo una minaccia, stava citando una frase di Khomeini per incoraggiare gli attivisti pro-Palestina a non abbandonare le speranze perché l'occupazione di Gerusalemme prima o poi finirà così come è finito il dominio dello Shah sull'Iran». "Israele va spazzata via dalle mappe", insomma, non l'ha mai detto.
Da allora americani e israeliani hanno continuato a ripetere le loro minacce e l'Iran ha continuato a rivendicare il proprio diritto al nucleare civile, riavviando e bloccando i programmi di arricchimento a seconda del gioco diplomatico tenuto vivo da Europei, Russi e Cinesi, fermamente intenzionati a evitare un nuovo conflitto. Naturalmente con gli opportuni distinguo. Come al solito l'Europa si presenta divisa e contraddittoria: per far piacere agli americani perseguita l'Iran e danneggia se stessa - visto che è un partner commerciale di tutto rispetto - ma per evitare la guerra promette pacchetti di incentivi fra i quali l'accesso alle nuove tecnologie nucleari che il Trattato garantisce ai paesi firmatari, previo controllo dell'Agenzia. La Russia ha messo sul tavolo la proposta di utilizzare le proprie centrali per arricchire l'uranio iraniano mentre la Cina continua a firmare sostanziosi contratti per lo sfruttamento dei ricchi giacimenti iraniani e forse, nell'ombra, usa la leva finanziaria per tenere buoni gli americani essendo Pechino il principale creditore di Washington. Sono questi delicati equilibrismi a tenere lontana la guerra. Per ora.


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