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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Avvenire - Corriere della Sera Rassegna Stampa
05.07.2008 A 60 anni dalle leggi razziali
nuovi studi storici sull'antisemitismo fascista, un convegno a San Rossore per presentare un manifesto sulla «razza umana»

Testata:Avvenire - Corriere della Sera
Autore: Anna Foa - Marco Gasperetti - Mario Porqueddu - Sergio Romano
Titolo: «Italiani brutta razza, antisemiti per legge - Razzismo se ritorna il fantasma - Le razze umane esistono - Le razze non umane esistono - «Sei una zingara e non puoi servire ai tavoli» L'Italia dei «giusti» tra gli orrori della Storia»

Da AVVENIRE del 4 luglio 2008, un articolo di Anna Foa sull'antisemitismo fascista e le leggi razziali:

Settant’anni fa, il 14 luglio 1938, veniva pubblicato sul Giorna­le d’Italia un documento, «Il fa­scismo e i problemi della razza», più noto sotto il nome di «Manifesto del­la razza » , che dava inizio ufficial­mente a quella che uno studioso, Michele Sarfatti ( Gli ebrei nell’Italia fascista) definisce con termine cal­zante la persecuzione dei diritti de­gli ebrei italiani, a distinguerla dal­la persecuzione delle vite, che ini­zierà dopo l’8 settembre 1943.
  Il documento, redatto da un giova­ne assistente di antropologia, Guido Landra, ma steso su precise indica­zioni di Mussolini, come risulta da un’annotazione del
Diario di Ciano, affermava l’esistenza delle razze u­mane, la superiorità di alcune di es­se sulle altre e il loro fondamento puramente biologico. Si sosteneva inoltre l’esistenza di una pura razza italica, di origine «ariana», a cui gli ebrei, come gli africani, non avreb­bero appartenuto. A dare a questa accozzaglia pseudo-scientifica un carattere di serietà, dieci scienziati vi apposero la firma.
  A partire dall’autunno, poi, fondan­dosi su queste basi teoriche sareb­bero stati varati una serie di leggi, seguiti da numerosi provvedimenti amministrativi che nel loro insieme sono conosciuti come «leggi razzia­li », anche se sarebbe più esatto de­finirle leggi razziste. Con esse gli e­brei erano riportati, meno di un se­colo dopo l’emancipazione, in una situazione di grave inferiorità dei di­ritti. Proibiti i matrimoni misti, cac­ciati studenti e insegnanti ebrei dal­le scuole di ogni ordine, mandati via gli impiegati e i funzionari dello Sta­to, e via di seguito con una lunga se­rie di inferiorità civili, discrimina­zioni e perfino vessazioni che nello spazio di pochi mesi, con un’effi­cienza straordinaria per il nostro Paese, avrebbero separato gli ebrei dagli altri cittadini e sottratto loro beni e attività lavorative, avrebbero spinto quelli che potevano ad emi­grare e convinto molte migliaia di persone a una conversione che non li avrebbe comunque sottratti al lo­ro destino «razziale». L’Italia fu, na­turalmente dopo la Germania, l’u­nico Paese europeo che abbia adot­tato leggi antiebraiche di tipo biolo­gico prima dello scoppio della guer­ra. Negli altri Paesi europei leggi si­mili sarebbero state introdotte solo a guerra iniziata.
  Questi i dati nudi e crudi. Ma come sono state viste le leggi del 1938 dal­la storiografia, e qual è il loro posto nella memoria storica di quegli an­ni? Per molto tempo il loro ruolo è stato considerato marginale. Stori­ci e pensatori di vaglia, non ultimi George Mosse, Hannah Arendt e Renzo De Felice, ne hanno mini­mizzato l’importanza, consideran­dole più «morbide» di quelle tede­sche del 1935 e mettendo in dubbio la rigidità della loro esecuzione. In realtà, non solo le leggi del 1938 fu­rono meticolosamente applicate, ma sotto alcuni aspetti esse erano più dure di quelle di Vichy, che non vietarono mai il matrimonio fra e­brei e «ariani», e perfino di quelle naziste, per esempio per quanto ri­guardava i figli di matrimonio mi­sto. L’idea della mitezza della per­secuzione antisemita in Italia non si fonda sul confronto con le leggi te­desche del 1935 o con le altre adot-
tate successivamente in Europa, ma su quello fra le leggi del 1938 e la per­secuzione delle vite, che nei Paesi occupati dai nazisti era già in fase a­vanzata nel 1942 e che in Italia ini­zierà solo dopo l’8 settembre 1943.
  Un altro motivo della persistenza di questa immagine è il fatto che ef­fettivamente l’amministrazione mi­litare italiana in Grecia, Iugoslavia e zone occupate della Francia svolse generalmente un’opera di protezio­ne degli ebrei presenti in quei terri­tori. Tutto questo, evidentemente, cessò nel 1943 con la fine della giu­risdizione italiana, con l’arresto, l’in­ternamento e gli eccidi dei militari italiani, con la Repubblica di Salò. A
questo punto, la persecuzione degli ebrei fu presa in carico dalla Re­pubblica stessa, che con la Carta di Verona del novembre 1943 consi­derò tutti gli ebrei, di ogni sesso ed età, come nemici e ne impose l’ar­resto.
 
Un arresto che – per loro stessa am­missione – i tedeschi non avrebbe­ro avuto la forza materiale di com­piere. Così, se è vero che le prime razzie, e in particolare quella di Ro­ma del 16 ottobre 1943, furono ope­ra diretta dei nazisti, gli altri arresti furono generalmente opera dell’e­sercito repubblichino. E ovunque fu­rono agevolati dal censimento degli ebrei in Italia, una delle prime ope­re realizzate dalla Demorazza, l’Uf­ficio del ministero della Cultura po­polare creato nell’agosto 1938. Una schedatura attenta, che nel 1943 sa­rebbe stata consegnata direttamen­te ai poliziotti nazisti e repubblichi­ni per aiutarli nella caccia all’ebreo. La continuità dei provvedimenti raz­zisti del 1938 con la Shoah in Italia è innegabile: le leggi del 1938 decise­ro chi era ebreo, separarono gli ebrei dagli altri cittadini, crearono un cli­ma di ostilità nei loro confronti, re­sero «normale routine» l’arresto e la deportazione. Ma come si arrivò al­le leggi e quali furono i motivi che spinsero Mussolini ad adottare una politica razzista, per di più a carat­tere decisamente biologico? Anche qui, la storiografia è passata da un’immagine che fa delle leggi del 1938 una sorta di incidente di per­corso, e le spiega con la necessità di compiacere l’alleato nazista, come nell’interpretazione di De Felice, a un’altra assai più complessa, che sottolinea le motivazioni autonome dell’adozione della politica della raz­za da parte di Mussolini, l’assenza di pressione da parte dei tedeschi, l’esistenza di un progetto totalitario autonomo di Mussolini, come af­ferma in uno studio recente Matard Bonucci ( L’Italia fascista e la perse­cuzione degli ebrei).
 Ciò ha comportato anche una mag­giore attenzione della storiografia. A partire dal 1988, il 40° anniversa­rio delle leggi, gli studi, prima qua­si assenti, si sono fatti numerosi. Ed infine, fatto significativo, le leggi raz­ziste sono passate anche nei ma­nuali di storia (dove fino ad anni re­centi brillavano per la loro assenza), trovando posto nel quadro storico più generale, come un tassello fon­damentale della storia del fascismo e di quella della Shoah in Italia.


Il CORRIERE della SERA del 5 luglio 2008 dedica due pagine a un 'iniziativa delle Regione Toscana, incentrato sulla presentazione di un "manifesto sulla «razza umana»  :


La storia si riscrive nella pineta, tra i monti pisani e il mare ai confini con la Versilia. Si ripresenta, non immutabile, ma trasfigurata, guarita dai mali orribili e assoluti del fascismo e del nazismo, come un «eterno ritorno» purificato.
A San Rossore, un tempo residenza estiva di re e presidenti della Repubblica e oggi parco naturale, nell'estate del 1938 Vittorio Emanuele III promulgò le leggi razziali che seguirono la pubblicazione dell'odioso manifesto della razza sottoscritto da un gruppo di fascisti, sedicenti intellettuali. Oggi, esattamente 70 anni dopo, negli stessi luoghi, altri intellettuali dal pensiero libero presenteranno un altro manifesto sulla «razza umana», un decalogo contro il razzismo e l'intolleranza, un inno all'amore per i popoli e le genti.
Accadrà il 10 e l'11 luglio durante l'ottava edizione del Meeting, che ogni anno la Regione Toscana dedica a uno dei problemi mondiali. Un summit che chiama a raccolta politici, scienziati e artisti per una due giorni di discussioni e dibattiti senza «se e senza ma». Con nomi celebri. Tra questi Jolanda Betancourt, mamma della candidata alla presidenza della Colombia prigioniera dei guerriglieri, il cardinale Silvano Piovanelli, il nobel Dario Fo, Walter Veltroni, Emma Bonino, Erri De Luca, Moni Ovadia.
Nell'area delle Cascine Vecchie, sotto tendoni ribattezzati Gandhi, Anna Frank, Luther King, si parlerà di popoli e culture. Si affronteranno le problematiche legate alla genetica, ai flussi migratori, alle ideologie. Si discuterà di tecnologie, antropologia, sociologia.
Con uno sguardo profetico al futuro. «Perché razzismo e xenofobia si combattono anche ricordando il passato e allo stesso tempo guardando al domani — dice Claudio Martini, governatore della Toscana —. Oggi abbiamo nuove forme, insidiose e subdole da combattere, e settant'anni dopo il tema della razza è tornato di drammatica attualità. Non voglio fare esagerati parallelismi con fascismo e nazismo, ma quando le nostre società entrano in qualche difficoltà, scatta uno stesso meccanismo perverso: si scaricano i problemi su qualcuno, ci si inventa il nemico, che è il diverso, il più debole. E si generalizza, si spara sul mucchio. A San Rossore noi cercheremo di capire perché il 5% della nostra popolazione, gli immigrati, crea più apprensione di mafia, camorra e 'ndrangheta ».
Ricco il carnet di appuntamenti. Dalla presentazione del nuovo manifesto degli scienziati antirazzisti voluto dal governatore Martini e preparato dal genetista Marcello Buiatti, agli incontri con lo scienziato della politica Marco Revelli, l'antropologo Antonio Guerci, il genetista Lucio Luzzatto. Scienza e anche politica. Con Walter Veltroni e Claudio Martini. E pure con Emma Bonino e il ministro tunisino Mohamed Mehdi Mlika per un dibattito sullle ideologie del razzismo. E l'arte? Presente, anch'essa, come testimonianza di un antirazzismo imprescindibile dalla creatività. Al Meeting ci sono l'attore e musicista Moni Ovadia, il fotografo Oliviero Toscani, l'autore radiofonico Adulai Bah. Ci sarà pure lui, Nelson Mandela. Non nella realtà, ma in videomessaggio.

Si è portati a chiedersi se, in un incontro che parte dalle leggi razziali anti
ebraiche, una specifica attenzione verrà dedicata alla forma oggi prevalente di antisemitsmo: che è l'antisemitismo, l'odio per lo Stato di Israle e la negazione del suo diritto all'esistenza.

Il CORRIERE mette a confronto il primo articolo del
Manifesto della razza degli scienziati, del 1938, con il "primo articolo del Manifesto degli scienziati antirazzisti "

il primo articolo del Manifesto della razza degli scienziati, datato 1938, firmato da un gruppo di docenti universitari vicini al regime e che anticipò le leggi razziali: I. Le razze umane esistono.
La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi.
Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi.
Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.

I l primo articolo del Manifesto degli scienziati antirazzisti, 2008, sottoscritto da diversi docenti (si può aderire via internet sul sito www.regione.toscana.it):
I. Le razze umane non esistono. L'esistenza delle razze umane è un'astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze «psicologiche» e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull'idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in «migliori» e «peggiori» e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.

Sempre sul CORRIERE, un'intervista di  Mario Porqueddu a Lia Radulescu, rom che lavora per la Caritas ambrosiana:

«Sono andata davanti alla chiesa come ogni domenica. Lì di solito riesco a vendere un po' di copie del giornale. Stavolta ne ho vendute una decina, poi la gente ha cominciato a chiamarmi "zingara". Stringevano la borsa al braccio e andavano via». Nella voce di Lia Radulescu non c'è particolare emozione, ormai ci è abituata. Le è già successo chissà quante volte, sugli autobus o per strada: mani che corrono alle tasche, persone che si allontanano. «Dà fastidio, ma faccio finta di non vedere». Però davanti a quella chiesa fino a non molto tempo fa piazzava 30 o 40 copie di «Scarp de Tennis», il mensile che dal '96 appartiene alla Cooperativa «Oltre», promossa dalla Caritas Ambrosiana. Adesso Lia è diventata una «zingara» anche lì. Un piccolo, brutto segno.
Vendere i giornali è l'unica fonte di guadagno per Lia e suo marito Marcel Costica: 500 euro al mese per loro e i due figli. «Ma dovrebbe essere anche un trampolino di lancio — spiega Antonio Mininni, responsabile della redazione di strada — Nel senso che ci lavori un po', esci dal degrado e poi passi a un'occupazione più stabile. Magari riesci ad affittare casa. Un ragazzo albanese dopo sei mesi da venditore con noi ha trovato un lavoro e lo assumeranno. Ma oggi con i rom tutto questo non funziona più». Lia e Marcel sono rom. Vengono dalla Romania, distretto di Timisoara. Lì avevano una casa, ma guadagnavano troppo poco per vivere. «Prima, quando c'era Ceausescu, ti davano più soldi ma non c'era nulla da comperare. Dopo che l'hanno ucciso gli stipendi erano da fame ». Sposini, 23 anni lei e 27 lui, Lia e Marcel sono venuti a Milano. Era il '99. Da allora vendono il giornale. Intanto hanno messo al mondo due bambini, che a settembre andranno in quarta elementare. Abitano in un container. «Io c'ho provato a fare il muratore in Italia — spiega Marcel — ma mi pagavano meno degli altri. A me 5 euro l'ora, ai miei colleghi 8 o 10». Lia è arrivata a un passo da un'assunzione. Accompagnata da un mediatore culturale ha fatto un colloquio con un'impresa di ristorazione che offre servizio mensa ad altre aziende. «È andato tutto bene, stavamo per firmare, ma quando gli ho dato la carta d'identità hanno letto "residenza Triboniano" e hanno avuto paura. Dicevano che una rom tra i tavoli non va bene».
Storie come questa, raccontano alla Caritas, se ne ascoltano sempre più spesso. «Ormai i rom cercano in tutti i modi di nascondere le loro origini — spiega Marco Trezzi, che con la cooperativa "Intrecci" lavora in vari campi di Milano e provincia —. Lo fa anche chi ha già un impiego, ma continua a temere di perdere tutto per motivi che non dipendono dalla sua professionalità». Così c'è chi si definisce serbo, o kosovaro, rinunciando a dire che fa parte della comunità rom e chiedendo al Comune di non mettere il timbro dell'«Ufficio nomadi» sui documenti. «Parliamo di operai specializzati — dice Marco — o di meccanici assunti in grosse officine». Anche se hanno compiuto il passo più importante verso l'integrazione, la loro resta una vita complicata. L'anno scorso le nove famiglie dei Kanjaria vivevano a Rho, su un terreno di loro proprietà, ma dentro baracche abusive. Non avevano acqua corrente. Quella che recuperavano andava amministrata con cura. Per la toilette non bastava. I bambini andavano a scuola e lì maestre e mediatrici li lavavano prima dell'ingresso in classe, per evitare cattivi odori, e con questi potenziali atteggiamenti discriminatori. Ora i Kanjaria si sono spostati in un campo attrezzato dal Comune e le cose vanno meglio.
La scuola, finora, è stata il più efficace strumento di integrazione. «I nostri figli non hanno mai avuto problemi — dicono Lia e Marcel — Le loro maestre sono venute a trovarci al campo». Ma anche lì qualcosa sta cambiando. «Gli istituti frequentati dai bimbi del campo di via Novara, dove la scolarizzazione è del 100% e ci sono livelli di frequenza buona o discreta nell'80% dei casi, hanno iniziato a segnalare episodi di intolleranza fuori dai cancelli. Mai fra bambini, sempre tra adulti: i genitori degli scolari italiani insultavano i rom. Il campo è li da 7 anni e non era mai successo. È una novità degli ultimi due o tre mesi».

Sempre dal CORRIERE, un articolo di Sergio Romano sugli studi storici sul razzismo fascista.
Romano tende a svalutare i risultati delle più recenti ricerche storiche, che tendono ad aggravare il quadro delle responsabilità del regime fascista,  presentandoli in modo affrettato e minimale.
Marie-Anne Matard- Bonucci (sulle cui ricerche si veda sopra il testo di Anna Foa) è per esempio citata solo per aver ricordato 
 

un bollettino politico, «L'Informazione diplomatica » del 5 agosto 1938, pubblicò un testo probabilmente scritto da Mussolini in cui si leggeva tra l'altro: «Discriminare non significa perseguitare ».

Ecco il testo:

Per studiare la svolta razzista di Mussolini gli studiosi non hanno atteso il settantesimo anniversario delle leggi razziali. Nella fase che ha preceduto e seguito la commissione di Tina Anselmi sulla confisca dei beni ebraici e la promulgazione di un giorno della memoria in ricordo delle vittime del genocidio, sono apparsi molti libri: alcuni di carattere generale, altri dedicati a temi specifici come quello degli scienziati che firmarono il manifesto della razza o dei professori che non esitarono a insediarsi nelle cattedre da cui i loro colleghi ebrei erano stati cacciati.
Non vi è quasi nulla, quindi, che il lettore desideroso d'informarsi non possa trovare nelle librerie e nelle biblioteche.
Ma la ricorrenza può servire per uno sguardo d'insieme allo spazio che le leggi razziali hanno occupato nella vita pubblica e nelle coscienza degli italiani dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. Vedo almeno tre fasi distinte.
Nella prima fase, sino all'inizio degli anni Sessanta, il tema è continuamente evocato nei ricordi personali, nelle conversazioni private, nel racconto delle esperienze di coloro che hanno avuto la fortuna di sopravvivere. Ma il Paese è dominato dai problemi della ricostruzione e dello sviluppo, le sinistre non sono particolarmente interessate alle vicende dell'ebraismo europeo e gli ebrei preferiscono curare silenziosamente le loro ferite. La seconda fase comincia all'inizio degli anni Sessanta con due libri: La «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo» di Renzo De Felice, pubblicato da Einaudi nel 1961, e la «Storia degli ebrei in Italia» di Attilio Milano, apparso presso lo stesso editore nel 1963. Le personalità degli autori sono molto diverse. De Felice è lo studioso che tutti conoscono, già allora impegnato nella sua monumentale biografia di Mussolini. Attilio Milano è un ebreo romano, nato nel 1907, emigrato in Palestina nel 1939, autore di studi sull'ebraismo mediterraneo.
Il primo è uno storico accademico, il secondo un appassionato cultore di «storia patria», preciso, scrupoloso e animato da un profondo sentimento di pietà per la tragedia dei suoi compagni di fede. Ma nella parte che concerne la politica razziale del regime i loro libri giungono grosso modo alle stesse conclusioni. Ambedue sanno che l'antisemitismo di Mussolini, sino alla seconda metà degli anni Trenta, fu generico, sporadico, non diverso da quello di altri esponenti della sinistra europea, spesso bruscamente interrotto da alcune sferzanti denuncie della politica anti-ebraica del nazismo. E ambedue sanno che molti aspetti della sua politica — il ritorno all'ordine negli anni Venti, le garanzie per gli ebrei all'epoca del Concordato, la protezione delle comunità ebraiche nel Mediterraneo, il nazionalismo — gli avevano procurato le simpatie della maggioranza dell'ebraismo italiano.
Occorre quindi spiegare le ragioni della svolta. Per De Felice e Milano esse vanno ricercate anzitutto nel desiderio di rendere «totalitaria» e «granitica » l'alleanza con la Germania. Ma De Felice sottolinea anche l'esperienza della guerra d'Etiopia dove la promiscuità sessuale dei vincitori suscita in Mussolini il timore che il colonialismo italiano produca un meticciato di massa. Occorreva educare gli italiani alla coscienza della propria identità, occorreva fare «l'italiano» contro la volontà degli italiani. Ma occorreva anche evitare eccessive somiglianze con la Germania.
Come ricorda Marie-Anne Matard- Bonucci in un libro appena pubblicato dal Mulino («L'Italia fascista e la persecuzione degli ebrei»), un bollettino politico, «L'Informazione diplomatica » del 5 agosto 1938, pubblicò un testo probabilmente scritto da Mussolini in cui si leggeva tra l'altro: «Discriminare non significa perseguitare ».
La terza fase comincia con la crescente importanza del genocidio hitleriano nella vita pubblica europea e americana degli ultimi trent'anni ed è anche il risultato di un certo «sessantottismo » della cultura italiana.
Nel grande filone della storiografia dell'Olocausto una nuova generazione di studiosi si concentra soprattutto sul tema della responsabilità collettiva della società nazionale, sull'antisemitismo che avrebbe caratterizzato il fascismo sin dalle sue origini, sulle colpe della Chiesa. Se confrontata all'opera di De Felice e Milano, questa impostazione illumina alcuni aspetti dimenticati o trascurati, ma presenta un inconveniente. Rende difficilmente comprensibile la disapprovazione della grande maggioranza degli italiani, l'aiuto offerto da rappresentanti della diplomazia e della pubblica amministrazione. E oscura quello che Attilio Milano definì «l'esempio di superiore umanità» delle autorità militari italiane nelle zone occupate della Croazia, della Dalmazia, del Montenegro, della Grecia centrale e di alcuni dipartimenti francesi; luoghi divenuti «per i molti ebrei che vi abitavano e per i più ancora che vi si erano rifugiati, un parco protetto contro le pressanti minacce » tedesche. Nel ricordare, settant'anni dopo, la più brutta pagina della storia nazionale italiana, non sarebbe giusto dimenticare i molti «giusti » a cui premeva dimostrare che vi era ancora un'Italia dell'onore e della pietà.

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