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Dal CORRIERE della SERA del 3 luglio 2008, la cronaca di Davide Frattini:
GERUSALEMME — Il primo a guardarlo negli occhi è stato l'autista dell'autobus, quando ancora pensava che quell'enorme ruspa gialla stesse solo facendo una manovra sbagliata. L'ultimo, il poliziotto che gli ha sparato per fermarlo. Hosam Taysir Dwayyat è uscito a caccia con il bulldozer che ogni giorno usava al lavoro. A caccia di auto e pedoni. Su per via Jaffa, in contromano, nel traffico soffocante di Gerusalemme. «Colpiva le macchine con la pala, le centrava e le ribaltava», racconta Yakob Ashkenazi all'Ap. Quando ha visto arrivare la ruspa, una donna ha gettato il figlio (seduto nel seggiolino davanti) fuori dal finestrino, perché non venisse schiacciato. Lei è rimasta ferita, come altre 45 persone. I morti sono tre, oltre all'attentatore, fermato da un soldato in licenza e da un agente delle squadre speciali. Insieme sono saliti sulla torretta del caterpillar, dopo che altri poliziotti non erano riusciti a fermare il kamikaze. «Siamo arrivati in moto dal mercato», spiega Eli Mizrahi. «Mi sono arrampicato sulla scaletta e gli ho sparato due volte, stava ancora guidando come un matto». Mizrahi fa parte di un'unità messa in piedi durante l'intifada. Gli agenti, in coppia, armati di mitragliatori, pattugliano le strade in moto, si possono muovere nelle aree pedonali e intervenire se il traffico blocca le auto della polizia. I soccorritori hanno trovato una bimba di cinque mesi, ferita, tra i sedili del bus ribaltato. Per ore hanno aspettato che qualcuno venisse a cercarla. «Poi abbiamo capito — spiega un'assistente sociale che si sta prendendo cura della piccola —. La madre è rimasta uccisa. La bambina è fortunata perché è viva. Per ora non può capire la tragedia che le è successa». L'attacco è stato rivendicato da tre organizzazioni: le Brigate Al Aqsa, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina e il Battaglione per la libertà della Galilea, un gruppo semi-sconosciuto, considerato vicino all'Hezbollah libanese. Il Battaglione, che sostiene di essersi formato per vendicare l'assassinio di Imad Mughniyeh, aveva assunto la responsabilità anche per l'attentato alla scuola religiosa Merkaz ha-Rav, in marzo, sempre a Gerusalemme. Hosam Taysir Dwayyat, 31 anni, veniva da un villaggio nella parte est della città. La polizia è convinta che non abbia pianificato la missione suicida. Come residente palestinese, aveva una carta d'identità che gli permetteva di muoversi liberamente. «La sua azione è una reazione naturale all'aggressione e ai crimini quotidiani commessi dagli israeliani», ha commentato Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas da Gaza. Saeb Erekat, tra i consiglieri del presidente Abu Mazen, ha condannato l'attacco: «I civili non possono essere un bersaglio, che siano palestinesi o israeliani». Un altro articolo di Frattini sull'attentatore e sulle reazioni alla strage in Israele: GERUSALEMME — Le jeep militari israeliane scendono dalla collina di Sur Baher e si lasciano dietro una madre che dalla finestra invoca pietà per il figlio (da Dio) e solidarietà dai vicini: «È un martire». Il «martire» ha una storia alle spalle che la polizia fatica a far combinare con le rivendicazioni arrivate dopo l'attacco. Sposato a una donna russa, un paio di anni in carcere per traffico di droga, lavorava come ruspista per una delle ditte che stanno costruendo il metrò leggero. Attraverserà Gerusalemme ed è uno dei progetti più ambiziosi della città. «I palestinesi non sono pastori di pecore», dice Yousef Hamed, poeta e lontano parente. «È successo per la pressione dell'occupazione, ci hanno confiscato la terra e l'aria». Un altro vicino spiega che Hosam Taysir Dwayyat «non era legato ad Hamas o altri gruppi. Lo ha fatto da solo, non so perché. Si è portato il segreto con lui». «Lo ha fatto da solo» è quello che ripete il portavoce della polizia. Da solo. Come Ala Hisham Abu Ddeim che in marzo ha colpito la scuola rabbinica Merkaz ha-Rav. Anche lui veniva da un villaggio nella parte est della città. Anche lui con un lavoro e in tasca la carta d'identità blu che permette ai residenti palestinesi di muoversi liberamente in Israele. Adesso è diventato un eroe, il suo volto rilanciato da video e poster venduti tra gli arabi di Gerusalemme. Il premier Ehud Olmet e Uri Lupoliasnky, il sindaco ultraortodosso, hanno chiesto che la casa dell'attentatore venga rasa al suolo. Uri Ariel, deputato della destra nazionalista, ha invocato misure contro il quartiere e la famiglia: «Questi terroristi sono aiutati da un ambiente che sostiene i loro attacchi ». Le organizzazioni israeliane per i diritti civili sono pronte a ricorrere alla Corte Suprema per fermare qualunque tentativo: «Sarebbe una punizione collettiva». Ala e Hosam rappresentano l'incubo dello Shin Bet, il servizio segreto interno. Preparano gli attacchi nel loro appartamento, è difficile ricostruire legami con le fazioni. Hosam non ha dovuto procurarsi delle armi, è bastato il suo caterpillar giallo. Non ha neppure scelto un simbolo politico, come il collegio religioso dove erano stati uccisi otto studenti. «La zona dell'attacco non è un'area militare — scrive Bradley Burston, sul quotidiano liberal Haaretz — e non è una colonia. Gli ebrei hanno vissuto e lavorato qui per più di un secolo. Dottori e infermiere ebree curavano bambini arabi nell'ospedale Shaare Tzedek fin dal 1902. Non ci sarebbe niente da temere. Eccetto l'uomo alla guida del bulldozer. Che ha deciso di uccidere». Ieri il parlamento israeliano ha votato due leggi, presentate prima dell'attacco. Preparate da deputati della destra, vogliono togliere o limitare i diritti di residenza ai parenti di palestinesi, che abitano a Gerusalemme Est, coinvolti in attentati. «Ci sono dei limiti a quello che una democrazia può concedere», commenta Nissan Slomiansky di un partito nazionalista religioso. «Non è accettabile che a un palestinese venga concessa la carta d'identità e la usi per colpire in Israele». L'analisi di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE : Rehov Yaffo, ovvero Jaffa Street, è un’arteria che attraversa tutta Gerusalemme dall’ingresso al pieno centro. L’attentato è avvenuto proprio di fronte alla grande centrale delle tv straniere, la Jcs, che ha già conosciuto molti attentati come questi, filmati dunque in ogni particolare. Questo luogo conosce tutte le tipologie di terrorismo: gli autobus che scoppiano là sono di casa, la cronista ne ricorda parecchi, di cui due negli anni del processo di pace, Rabin e Peres con la faccia disperata sotto un ombrello che li difende dalla pioggia battente mentre guardano dentro un autobus pieno di sangue, di studenti, vecchi che andavano al mercato della zona, lavoratori Se il trattore guidato ieri dal trentenne arabo israeliano cittadino di Gerusalemme est Taysir Dwayyat, 30 anni, del quartiere di Zur Baher fosse arrivato due strade più in là, al mercato di Ben Yehuda, altro teatro di attentati frequenti e fruttuosi, la strage sarebbe ancora più orrida. Mentre tutto il mondo si culla nell’illusione della tregua con Hamas e sogna i colloqui fra Olmert e Abu Mazen, di fatto il maggiore messaggio, il linguaggio più assordante che proviene dal mondo palestinese, con imperterrita costanza, seguita a essere uno: terrorismo. Che gli arabi israeliani siano stati partner degli attentati di questi anni, è ormai uno strazio abituale, spesso volontariamente messo in sott’ordine per non aumentare una frizione molto preoccupante. Mentre il 70 per cento dei palestinesi di Israele non vorrebbe, afferma, vivere da nessuna altra parte, il suo gruppo politico dirigente non lesina la sua disaffezione e la sua simpatia per i nemici dello Stato ebraico, e gli estremisti aiutano i terroristi. Anche se si spera che il personaggio fosse un isolato, pure il ripeterlo non è altro che un ennesimo sforzo consolatorio: Zur Baher ha una netta maggioranza di simpatizzanti per Hamas. Le sue «hamule», le famiglie allargate, hanno un linguaggio estremista, le sue regole sono piene di armi e odio. Anche quando AlaAbu Dheim, del quartiere di Gerusalemme Est di Jabel Mukkaber, falciò in una scuola religiosa 8 ragazzi e ne ferì dieci, si sperò che fosse un isolato: mail suo ambiente era ben connesso ad Hamas e persino agli Hezbollah. L’ambiente di Dwayyat è certo filo Hamas e i suoi passati di piccoli crimini comuni avrebbero dovuto suscitare una cautela in chi gli ha messo in mano un trattore, cautela che invece non si esercita per paura di essere tacciati di razzismo. In più Hamas, non potendo oggi agire da Gaza per rispettare la hudna (per altro ripetutamente violata), ha interesse a dimostrare che può colpire dal West Bank. È anche una dimostrazione che il recinto di difesa di Israele che pure ha fermato il 98 per cento del terrorismo suicida, può essere scavalcato, per esempio, dalla carta d’identità blu, quella degli arabi israeliani. Hamas può anche avere interesse a dimostrare che i colloqui fra Olmert e Abu Mazen sono inutili, e a lanciare avvertimenti al rais di Fatah: «Vai avanti pure, alla fine decidiamo noi sul campo». Hamas ha approvato, la Jihad Islamica ha salutato e benedetto. Ovvero: parte di un piano o isolato che fosse, il terrorista era sostenuto da un solido senso di approvazione sociale per cui è bello e buono morire da martire jihadistico, lasciando ai propri genitori, anche se Israele toglierà loro l’assicurazione e la casa, un dono più grande, quello di essere l’ammirata famiglia di uno shahid. Il terrorismo continua a distruggere la tenue possibilità di un dialogo con i palestinesi. La cultura di violenza promuove i piani di Hamas e li rende vincitori anche mentre speriamo in qualche progresso: l’Onu deve condannare senza false equivalenze la persecuzione dei cittadini israeliani, che impedisce una pace duratura. Da L'OPINIONE, l'analisi di Michael Sfaradi: Mentre si continua con sterili discorsi sulla pace, la guerra fra arabi ed israeliani prosegue senza soluzione di continuità, asimmetrica, ma non meno violenta. Con l’entrata in vigore della tregua, Hamas ha ottenuto una bella vittoria militare. Israele, infatti, avendola firmata, si è messa in condizione di non poter più colpire all’interno della striscia di Gaza, mentre ad Hamas è bastato solo fermare i missili Kassam e ricominciare con gli attentati terroristici tradizionali. L’ultimo esempio è stato l’attentato di ieri a Gerusalemme, dove un operaio arabo di 30 anni residente a Tzur Baker, un quartiere di Gerusalemme Est, sposato con due figli e con precedenti penali, si è impossessato di un bulldozer nel cantiere stradale dove lavorava e procedendo contromano sulla Via Jaffa, nel pieno centro della capitale, ha travolto tutto ciò che incontrava, pedoni, automobili, ed è riuscito a ribaltare due autobus pieni di passeggeri creando il panico fra la popolazione. Questo tipo di attentato era molto in voga durante le tregue con Arafat: non furono pochi gli autisti arabi di autobus che fecero scempio di passanti o di viaggiatori in attesa alle fermate, investendoli e travolgendoli. Il risultato è che sul terreno sono rimaste 4 persone uccise e 44 ferite di cui tre in gravissime condizioni. A distanza di due ore un gruppo chiamato “Brigate Galilea” ha rivendicato l’attentato. È chiaro che le “Brigate Galilea” sono solo uno dei tanti pseudonimi che Hamas utilizza quando non può apparire in prima persona. Anche in passato, in occasioni simili a quella odierna, ha fatto uso di diversi nomi “usa e getta”. È chiaro che Hamas non può rivendicare in prima persona la strage di oggi, perché la tregua finirebbe e Israele avrebbe di nuovo le mani libere, dato che è più facile picchiare quando il nemico è legato. Un bel nome di fantasia che ricorda la Galilea, regione a Nord di Israele e vicina agli amici Hezbollah, fa sempre comodo e ricorda, a chi di dovere, che i legami con gli sciiti di Nasrallah c’è ed è forte. Il capo della polizia di Gerusalemme, intervistato dal Canale 10, ha dichiarato che investigatori dell’anti-terrorismo hanno interrogato i membri della famiglia dell’attentatore, ed ha aggiunto che ci sono in corso perquisizioni a tappeto nel quartiere Tzur Baker in cerca di eventuali fiancheggiatori. Ha messo bene in chiaro che essendo il terrorista un residente in Israele, il caso sarebbe rimasto in mano alla polizia e che ci si sarebbe comportati nei confronti dei familiari con le stesse procedure che si attuano per qualsiasi altro residente in Israele. C’è da fare alcune considerazioni: innanzitutto questo è il secondo attentato terroristico che viene portato a termine a Gerusalemme nel giro di tre mesi, il primo come ricorderete si consumò in una scuola rabbinica quando un terrorista, anche lui residente a Gerusalemme Est, uccise a sangue freddo a colpi di mitra alcuni studenti. Il fatto che ambedue i terroristi fossero residenti a Gerusalemme e che la città per due anni avesse conosciuto, da questo punto di vista, un periodo di calma, vuol dire che le organizzazioni terroristiche non possono più infiltrare i loro kamikaze dalla Cisgiordania. E questo dipende esclusivamente dal tanto odiato muro, che si sta dimostrando un fantastico sistema di difesa passivo. Ora i nemici di Israele arruolano i loro terroristi fra gli arabi israeliani. E questo, alla lunga, creerà tensioni fra le comunità arabe ed ebraiche della capitale, con conseguenze che potrebbero essere disastrose. Per inviare una e-mail alla redazione de il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Foglio e L'Opinione cliccare sul link sottostante lettere@corriere.it lettori@ilgiornale.it lettere@ilfoglio.it diaconale@opinione.it |
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