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Corriere della Sera - La Stampa - Europa - L'Unità Rassegna Stampa
06.06.2008 Le reazioni di israeliani e palestinesi alle dichiarazioni di Barack Obama sul Medio Oriente
rassegna di quotidiani

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Europa - L'Unità
Autore: Davide Frattini - Francesca Paci - Daniele Castellani Perelli - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Barack «il falco» seduce gli israeliani Gli «amici» palestinesi si sentono traditi - Lunga vita a Barack - Ecco come batterà McCain - «A Barack dico, vieni a vedere l’inferno dei Territori»»

Dal CORRIERE della SERA del 6 giugno 2008, un articolo di Davide Frattini:

GERUSALEMME — Il «candidato preferito da Hamas», come l'ha chiamato l'avversario John McCain, ha tenuto un discorso che «neppure il Likud ai tempi di Menachem Begin», come hanno commentato i giornali israeliani. Che si interrogano, con i politici, sul «mistero» Barack Obama, quello dei tre senatori che conoscono meno.
Qualcuno ricorda nostalgico il sostegno dimostrato da Hillary Clinton. «Allora ero ministro del Turismo — dice Benny Elon, della destra religiosa — e nel momento più buio degli attentati le ho chiesto di dare l'esempio. Entro due mesi è venuta a Gerusalemme e ha proclamato: seguitemi, non dovete avere paura». Altri ammettono «McCain è il nostro tipo di americano »: «Ha un passato militare, come noi capisce e riconosce quali siano i buoni e i cattivi », scrive Ofer Shelah su Maariv.
La maggior parte si chiede se lasciarsi prendere dall'«abbraccio » del discorso di Obama all'Aipac: «È circondato da consiglieri legati a gruppi della sinistra radicale o da musulmani americani», commenta preoccupata una fonte del governo al quotidiano Yedioth Ahronoth.
Due settimane fa, il ministero degli Esteri israeliano ha organizzato un dibattito interno per studiare la politica estera americana, finita l'era Bush. Gli esperti sostengono che lo Stato ebraico non si debba preoccupare. Che sia il repubblicano McCain o il democratico Obama a vincere, la nuova amministrazione — spiegano — dovrà concentrarsi su Iraq e Iran, due questioni molto più urgenti di quella palestinese. «Qualunque presidente tenterà fino in fondo la via diplomatica con Teheran prima di optare per l'azione militare, una possibilità che Obama non ha escluso. La sua disponibilità a impegnarsi nel dialogo con gli ayatollah gli permetterà di giustificare un attacco all'Iran, se le trattative non dovessero funzionare».
Ehud Olmert è salito sullo stesso palco della conferenza dell'American Israel Public Affairs Committee a Washington. «Il suo discorso mi ha colpito — ha detto il primo ministro israeliano — e le parole su Gerusalemme mi hanno commosso ». Le parole su Gerusalemme — «rimarrà la capitale indivisa di Israele» — sono quelle che hanno fatto sbottare Abu Mazen, presidente palestinese: «Tutti sanno che la parte Est della città è stata occupata nel 1967 e noi non accetteremo mai uno Stato senza Gerusalemme come capitale». «Il candidato americano non può essere più israeliano degli israeliani. Neppure loro usano più il linguaggio che ha scelto», commenta il negoziatore Saeb Erekat. Perfino Sean McCormack, portavoce del Dipartimento di Stato americano, si è affrettato a precisare: «La questione delle frontiere deve essere risolta dalle due parti». Il discorso di Obama — azzardano gli analisti palestinesi — sarebbe tra le ragioni che hanno spinto Abu Mazen a riaprire il dialogo con Hamas. «Si trova davanti alla prospettiva — dice Ghassan Kattib — di un blocco del negoziato, tra i guai giudiziari di Olmert, la costruzione di insediamenti e questa posizione del senatore».
Da Gaza, i fondamentalisti hanno rigettato il candidato che solo due mesi fa avevano votato come il preferito («ci piace e vorremmo vincesse»). «Il suo discorso distrugge tutte le speranze di un cambiamento nella politica americana — attacca un portavoce del movimento —. È una prova dell'ostilità degli Stati Uniti verso gli arabi e i musulmani».

Da La STAMPA, un articolo di Francesca Paci:

Lunga vita al fedele sionista Barack». Bastava leggere l'apertura di ieri del quotidiano conservatore Israel Aiom, una specie di «Libero» locale distribuito gratis nei caffè di Gerusalemme, per capire il cambiamento del vento. Poco conta che nella stessa pagina il professor Abraham Ben-Tzvi mettesse in guardia dall’uomo che «ha accettato di incontrare Ahmadinejad senza condizioni»: il giornale diretto dall’israelo-americano di superdestra Asher Baarav si fida della «garanzia di Obama su Gerusalemme unita». Un’affermazione così partigiana da essere costata al candidato democratico il biasimo del presidente palestinese Abu Mazen e, soprattutto, la bocciatura di Hamas, lesto a rimangiarsi l’endorsment di una settimana fa.
L'Europa adora Obama, sostiene il quotidiano inglese «The Telegraph». Il popolo eletto però, non lo boicotta: secondo la Gallup, il 61 per cento degli ebrei è pronto a votare per lui. Paura? Certo. Obama non parla come McCain, «impegnato a prevenire un secondo Olocausto»; ritiene che le scelte di Bush abbiano rafforzato l'estremismo islamico a Gaza e dissente dalla linea intransigente del Likud. Ma rafforzerà l'alleanza con Israele «il migliore amico americano»: l'ha ribadito nei mesi scorsi dal palco e sul suo sito blog in ebraico. I politici aspettano cauti e, dal leader dell’opposizione Netanyahu al consigliere del ministro degli esteri Arye Mekel, replicano «no comment». Gli israeliani invece mostrano maggior pragmatismo: ci conviene? In fondo, nota il corrispondente di Haaretz dagli Stati Uniti Shmuel Rosner: «Obama, per quanto ne sappiamo, non ha mai accettato bustarelle...».

Su EUROPA Daniele Castellani Perelli intervista Ian Buruma su Barack Obama. Giunto a trattare il tema della posizioni del senatore democratico sul Medio Oriente, Perelli formula  domande chiaramente tendenziosa:
Inizialmente chiede:
"Obama ha fatto un discorso estremamente amichevole all'Aipac, la principale lobby pro-Israele, schierata solitamente su posizioni conservatrici. E' stato un discorso sincero o molto elettorale"
Buruma risponde che "nessun candidato alla Casa Bianca può permettersi di essere troppo duro su Israele". e Perelli: "Da alcune sue passate dichiarazioni, però si potrebbe dedurre che Obama sia più sensibile di altri alla sofferenza dei palestinesi".
Si tratta di un'abusiva confusione tra questioni politiche (accettare o meno Hamas come interlocutore, riconoscere o meno Gerusalemme come capitale indivisibile di Israele) e la "sensibilità" umanitaria verso le sofferenze dei palestinesi. Chi è "sensibile", suggerisce Perelli dovrebbe essere "duro" con Israele. Ma il ragionamento cade non appena si ammetta che le sofferenze dei palestinesi ( e degli israeliani) sono causare dalla scelta di contrapposizione frontale e di prosecuzione del terrorismo compiuta da Hamas e dai suoi sostenitori, dalla debolezza della leadership di Abu Mazen, dall'interferenza dell'Iran e della Siria.

Propaganda palestinese, rivolta idealmente a Barack Obama e praticamente ai lettori italiani, sull' UNITA'
Umberto De Giovannangeli intervista Abu Ala, che batte ancora sui tasti della "sofferenza dei palestinesi" e dell'"occupazione" .
Vale la pena di ricordare che uno Stato palestinese esisterebbe da tempo, se non fosse stato per le catastrofiche scelte di Arafat e della classe dirigente che ad Arafat era legata. Della quale anche Abu Ala faceva parte.


«Spero che il senatore Obama possa visitare presto i Territori palestinesi. Avrà modo di rendersi conto di persona della sofferenza di un popolo e di ciò che significa vivere sotto occupazione. Una cosa è certa: nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso e al dialogo con Israele, potrebbe mai firmare un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est come sua capitale». A parlare è l’uomo delle «missioni impossibili»: Ahmed Qurei (Abu Ala), già primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, oggi capo negoziatore palestinese. Abu Ala - che fu tra gli artefici degli accordi di Oslo-Washington (1993) - si rivolge anche all’Europa: «Ciò che chiediamo - afferma - è che i governi europei e la Ue non innalzino il livello delle relazioni con Israele» fintanto che lo Stato ebraico «non avrà rispettato i suoi obblighi, in particolare la fine delle attività degli insediamenti e delle altre violazioni dei diritti umani».
Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha affermato che Gerusalemme deve restare capitale indivisa dello Stato d’Israele. Qual è la sua risposta?
«Negli Stati Uniti si è in piena campagna elettorale e il senatore Obama parlava alla convention di una influente associazione proisraeliana. Il contesto può forse spiegare certi eccessi».
Resta l’affermazione
«Un’affermazione in sé sbagliata, inaccettabile, perché un accordo di pace tra Israele e Anp non può prescindere dalla definizione dello status di Gerusalemme. Al senatore Obama, di cui pure apprezziamo il suo sostegno alla nascita di uno Stato palestinese indipendente, diciamo che Gerusalemme può e deve divenire capitale condivisa di due Stati che vivano in pace uno a fianco dell’altro. D’altro canto, uno dei dossier in discussione nel negoziato in corso riguarda proprio Gerusalemme, il suo futuro. Discutere dello status di Gerusalemme non è più un tabù: sul tappeto vi sono idee, proposte che possono aiutare la discussione, sapendo la delicatezza estrema della materia e il fatto che il futuro di Gerusalemme non riguarda solo israeliani e palestinesi, perché Gerusalemme, è bene ricordarlo sempre, è patrimonio dell’umanità e città Santa per le tre più grandi religioni monoteistiche. Mi auguro che il senatore Obama rifletta su questo e ne tragga le dovute conclusioni da uomo di pace quale egli è».
È ancora possibile, come sostenuto dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush alla Conferenza di Annapolis (dicembre 2007), raggiungere un accordo definitivo di pace entro la fine di quest’anno?
«La speranza è l’ultima a morire, ma la realtà purtroppo non induce all’ottimismo. Diciamo che allo stato delle cose, solo un miracolo potrebbe portare ad un accordo entro il 2008. Di positivo c’è che ciascuna delle questioni cruciali che riguardano un accordo di pace globale, sono state affrontate in apposite commissioni. Nessun tema, neanche il più spinoso, è stato accantonato».
Questo l’aspetto positivo. E quello negativo?
«Il dato negativo è che finora non è stato registrato alcun progresso, e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace, soprattutto se questo tempo viene impiegato da Israele per porre nuovi ostacoli sul percorso negoziale».
A cosa si riferisce in particolare?
«Alla politica di colonizzazione portata avanti da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme. Una politica contraria alla legalità internazionale, condannata con decisione dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Non si può invocare il dialogo e allo stesso tempo imporre sul campo la politica dei fatti compiuti. Se davvero gli israeliani vogliono negoziati seri, allora devono fermare gli insediamenti, rimuovere i posti di blocco e i check-point, oltre 600, che hanno spezzato in mille frammenti la Cisgiordania, e porre fine alle punizioni collettive inflitte alla popolazione di Gaza. La colonizzazione è antitetica alla pace».
Ma da Gaza continua il lancio di razzi Qassam contro le città israeliane. Oggi (ieri, ndr.) è un razzo ha ucciso un civile israeliano e provocato diversi feriti.
«Il presidente Abbas (Abu Mazen) ha più volte e duramente condannato il lancio dei razzi. Questa pratica va contro gli interessi del popolo palestinese e va rigettata con fermezza, come va respinto ogni atto che coinvolga civili, palestinesi o israeliani. Ma il blocco della Striscia non ha indebolito Hamas, ha solo moltiplicato la sofferenza della popolazione. E sulla sofferenza e l’ingiustizia non possono radicarsi le regioni del dialogo».

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