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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
02.05.2008 Ahmadinejad auspica una "piena collaborazione" tra Iran e Italia
cronaca e analisi

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: la redazione - Franco Venturini - Lucio Caracciolo
Titolo: «Ahmadinejad scrive al premier e al presidente «Piena intesa con Roma» - Il dilemma più scomodo - Perché ci conviene discutere con l'Iran»
Dal CORRIERE della SERA del 2 giugno 2008

ROMA — Alla vigilia del suo arrivo in Italia per il vertice Fao, Mahmoud Ahmadinejad ha inviato due lettere, una a Giorgio Napolitano, l'altra a Silvio Berlusconi. E lo ha fatto per auspicare ad entrambi «una piena cooperazione fra Italia e Iran, in linea con l'interesse nazionale dei due Paesi». Un gesto distensivo, anticipato in mattinata dalle parole del portavoce del ministero degli Esteri iraniano: «Se Roma lo chiedesse saremmo pronti ad incontri bilaterali a margine del summit, sulla base delle buone relazioni esistenti». Il messaggio che arriva dall'Iran è chiaro: tentare in qualche modo di uscire dall'isolamento internazionale.
La prima reazione di Silvio Berlusconi arriva durante il ricevimento per il 2 giugno nei giardini del Quirinale: «Prima di rispondere, serve ponderazione». Ma da Palazzo Chigi si fa sapere che sarà comunque molto difficile l'eventuale incontro, data la fitta serie di impegni già fissati durante il vertice dell'agenzia Onu. Una posizione molto soft, che ricalca quella espressa qualche giorno fa dal ministro degli Esteri Franco Frattini, e che mira a non inasprire inutilmente i toni con un Paese di cui l'Italia rimane comunque il primo partner commerciale europeo. Tanto che, domani pomeriggio a Roma, Ahmadinejad ha in programma un incontro con alcune importanti aziende italiane.
Ma accanto a quella di Ahmadinejad, si annuncia, sempre per il vertice Fao, la visita di un altro capo di Stato messo all'indice dalla comunità internazionale, cioè il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. È la sua prima visita all'estero dalle controverse elezioni del 29 marzo scorso in cui il suo partito è uscito sconfitto nel rinnovo del Parlamento.

In prima pagina il CORRIERE pubblica un editoriale di Franco Venturini che sostiene la necessità di tentare di giungere a un accordo con  l'Iran attraverso sanzioni e l'offerta di "garanzie di sicurezza".
Venturini mette in rilievo giustamente la lentezza e l'inefficacia delle sanzioni e fornisce un puntuale elenco delle condizioni che Teheran dovrebbe ottemperare: 
"la fine delle minacce a Israele, la collaborazione iraniana in Iraq e in Libano, e beninteso una verificata rinuncia alla bomba".
Tutte condizioni che, purtroppo, molto difficilmente verranno soddisfatte dal regime iraniano, che è mosso dal fanatismo ideologico più che dalla considerazione razionale dell'interesse nazionale. E' questo il motivo per cui i tentativi di dialogo, che non sono mancati, sono tutti caduti nel vuoto. Fino a quando sarà possibile continuare a temporeggiare, battendo una strada che non si è rivelata fruttuosa ?

Ecco il testo:

Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in arrivo stasera a Roma per partecipare alla conferenza della Fao sulla sicurezza alimentare, è un ospite inevitabile ma non gradito. Bene fanno le massime autorità italiane e il Papa — quali che siano le ragioni formali di quest'ultimo — a non volerlo incontrare. Perché Ahmadinejad non è un reprobo come tanti altri nella comunità internazionale: è invece l'unico capo di Stato al mondo che auspichi apertamente la distruzione fisica di un altro Stato, Israele. E se anche Israele non facesse scattare in noi memorie storiche pesanti come macigni, se anche non esistesse in Ahmadinejad quel fanatismo islamico che come tutti i fanatismi religiosi rende imperscrutabile il confine tra retorica e vera capacità di nuocere, l'Italia avrebbe il dovere di recapitargli un messaggio di forte contrarietà.
La figura del presidente iraniano che nega la Shoah e vuole «cancellare » lo Stato ebraico, del resto, è legata a doppio filo con le inquietudini che i programmi nucleari di Teheran suscitano in gran parte del mondo.
Se qualcuno dice continuamente di voler uccidere il vicino, il rischio che imbracci un fucile non può lasciare indifferenti. Men che meno se il vicino è Israele. E Ahmadinejad è pericoloso proprio perché mentre proclama di inseguire soltanto il nucleare civile non ha mai rinunciato alla minaccia, perché ha sempre preferito il favore dei nazionalismi interni a una condotta internazionale responsabile, perché domani un dito come il suo poggiato sul grilletto potrebbe decidere di premerlo.
Nasce da questo scenario un dilemma assai scomodo: cosa è peggio, un Iran con la bomba o una guerra per impedirgli di averla? La domanda è sul tavolo, ma Ahmadinejad non pare curarsene. Il presidente che minaccia di eliminare Israele e di provocare una proliferazione atomica incontrollabile, che viola i diritti civili in casa propria, che alimenta i radicalismi medio-rientali, ha fatto i suoi calcoli. Un attacco farebbe schizzare ulteriormente verso l'alto il prezzo del petrolio, renderebbe pericolosa la navigazione nel Golfo Persico, scuoterebbe i regimi arabi filo-occidentali a cominciare dall'Arabia Saudita, si presterebbe alla vendetta iraniana in Iraq, in Libano e in Afghanistan. E oltretutto potrebbe soltanto allontanare nel tempo i piani nucleari di Teheran.
Che fare, allora? Esiste una sola certezza: non quello che è stato fatto sin qui. L'invasione del-l'Iraq ha sì eliminato Saddam, ma ha aperto un'autostrada alle ambizioni iraniane. Hezbollah è vicino al controllo del Libano. Hamas ha vinto le elezioni prima di trincerarsi a Gaza. L'Afghanistan non è sotto controllo. Israele è di nuovo minacciato di accerchiamento. E, soprattutto, le sanzioni decise dall'Onu contro Teheran lavorano più lentamente delle centrifughe iraniane per l'arricchimento dell'uranio.
Un cambiamento di strategia è maturo, tanto più che Israele esplora una tregua con Hamas attraverso la mediazione egiziana, tratta con la Siria con la mediazione turca e, come dimostra il triste scambio di ieri, ha contatti indiretti anche con Hezbollah. La dottrina del «non si parla con» e i fulmini di Bush contro l'appeasement sembrano ormai appartenere più alla forma che alla sostanza, mentre alla Casa Bianca è in arrivo un nuovo Presidente.
Potrà allora essere messo a punto un «pacchetto » di incentivi e di sanzioni capace di interessare Teheran e di favorire un negoziato? Gli Usa riconosceranno che l'Iran ha qualche buon motivo di sentirsi chiuso in una tenaglia, e gli forniranno garanzie di sicurezza chiedendo in cambio la fine delle minacce a Israele, la collaborazione iraniana in Iraq e in Libano, e beninteso una verificata rinuncia alla bomba? Se l'Iran non dovesse marciare, sarà in grado l'Occidente di usare i rapporti economico-energetici come strumento di pressione non più contraddittorio rispetto al giudizio politico (perché è proprio questa, tra altre, la realtà italiana)?
Esiste un percorso da esplorare. Lo suggeriscono da tempo personalità che vanno da James Baker a Efraim Halevy, ex capo del Mossad ed ex consigliere per la sicurezza di Sharon. Il guaio è che il tempo è poco, e non lavora per la pace. Ma nulla sarebbe più controproducente di una guerra per omissione di dialogo in ossequio a una teoria errata.

Per Lucio Caracciolo, che scrive su La REPUBBLICA non solo si deve trattare con l'Iran. Si dovrebbe anche ricevere Ahmadinejad.
A noi sembra che ci sia una distinzione tra le trattative, che hanno le loro sedi e non si sono interrotte, e il riconoscimento pubblico al regime. Fa parte del complesso di pressioni messe in atto verso Teheran anche l'isolamento diplomatico riservato agli esponenti del regime.
Si deve poi considerare che le trattative possono fallire, e finora sono fallite.
Se, in definitva, dovessero rivelarsi una strada improduttiva, cosa propone Caracciolo per la  "difesa non solo dei nostri interessi immediati, ma anche della sicurezza di Israele in quanto Stato degli ebrei".  che per noi  "un dovere, prima ancora che un interesse" ?

Ecco il testo:

Si può parlare col Diavolo? La tradizione diplomatica occidentale risponde di sì. Si può. Anzi si deve, quando in gioco sono valori e interessi vitali. E la forza non serve o non basta a proteggerli. Prassi seguita non solo dai cinici statisti europei, ma financo dai più idealisti leader americani. Per Roosevelt, Kennedy o Reagan, il dialogo e talvolta la cooperazione con gli "imperatori del Male", da Stalin (alias "zio Giuseppe") al semiconvertito Gorbaciov, erano la norma. Alla prova dei fatti, questo stile diplomatico, aperto ma non corrivo, guadagnò agli Stati Uniti la solidarietà degli alleati atlantici e la vittoria nella guerra fredda.
Con Bush figlio la musica è cambiata. Dopo l´11 settembre, l´America in guerra ha proclamato di non voler trattare con i terroristi e i loro sponsor – categoria cangiante nel tempo e nello spazio. A forza di accumular rovesci, l´attuale inquilino della Casa Bianca ha però versato molta acqua nel suo vino. E ha intavolato proficui negoziati con una delle più criminali dittature del mondo (la Corea del Nord), oltre che con un ampio bouquet di insorti iracheni, con i taliban "buoni" e con gli stessi iraniani (su Iraq e dintorni).
Domani il Diavolo viene in Italia. Se non Belzebù in persona, Mahmud Ahmadinejad incarna in Occidente qualcosa di molto vicino al Male assoluto. Quantomeno, un diavoletto subdolo e odioso. Il presidente della Repubblica Islamica d´Iran, in arrivo a Roma per il vertice mondiale della Fao, proclama di voler cancellare Israele dalla carta geografica. Il suo antisionismo slitta spesso nell´antisemitismo. Quest´uomo e il regime militarclericale che rappresenta – ma non comanda – è sospettato, probabilmente a ragione, di voler elevare l´Iran al rango di potenza nucleare.
Dominante nel Golfo Persico e in tutto il Medio Oriente. In grado di liquidare lo Stato ebraico e di ricattare l´Occidente.
È possibile per noi italiani e per gli altri occidentali – ma anche per i vicini arabi e sunniti, i russi e le altre potenze mondiali – chiudere entrambi gli occhi e lasciare che una potenza così minacciosa detti la nostra agenda? Certamente no. È possibile impedirlo? Probabilmente sì. Per ottenere questo scopo bastano le armi della politica o serve la politica delle armi? Qui la questione si complica. E rimbalza alla cronaca.
Stabilendo di non ricevere il presidente iraniano, il governo italiano sembra escludere l´utilità di negoziare col Diavolo. E siccome non predica l´attacco all´Iran, parrebbe negare entrambi i corni del dilemma: no alla guerra, no al dialogo. Una ben curiosa politica delle "mani nette". Se fatta propria dalle maggiori potenze, i leader iraniani potrebbero trarne la legittima conclusione che nessuno intende interferire con i loro progetti.
Allo stesso tempo, prima Prodi (che incontrò Ahmadinejad nel settembre 2006) e poi più apertamente Berlusconi hanno approvato la politica delle sanzioni, nella speranza di convincere l´Iran a rinunciare alle sue ambizioni nucleari. Dopo che il precedente governo Berlusconi si autoescluse dal club europeo abilitato a trattare con il regime dei pasdaran (il terzetto franco-britannico-tedesco), stiamo cercando di entrare a tutti i costi nel gruppo dei 5+1, composto dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania. Anche perché l´Iran è un nostro storico partner commerciale, e alcune rilevanti imprese nazionali, dall´energia alla meccanica, vi coltivano cospicui interessi. Gli americani assicurano di appoggiare la nostra aspirazione, purché naturalmente una volta entrati nel club ci si comporti come loro suggeriscono. Ma se desideriamo accedere domani alla pattuglia degli interlocutori dell´Iran, perché oggi rifiutiamo di parlare con il suo presidente? Solo perché israeliani e americani ce l´hanno sconsigliato?
Si potrebbe obiettare: parliamo con l´Iran, non con il suo presidente. Ora, ammesso che gli altri leader del regime abbiano idee molto diverse su Israele o sulla bomba atomica, dovremmo forse selezionare noi l´interlocutore iraniano che ci aggrada? Purtroppo in diplomazia i partner non si scelgono. Si accettano o si rifiutano. Oppure vogliamo offrire un contributo umoristico alla teoria negoziale, sostenendo che parliamo solo con chi è d´accordo con noi? E in tal caso, perché mai pochi giorni fa il ministro degli Esteri Frattini ha stretto la mano e scambiato qualche battuta con il suo omologo iraniano Mottaki, per il quale «se ogni musulmano gettasse un secchio d´acqua su Israele, Israele sarebbe cancellato»?
Il punto è: ci serve oggi discutere con gli iraniani, e in particolare con il loro presidente? La risposta è sì. Con Teheran abbiamo molte questioni da dirimere. Non solo l´atomica. Oltre agli interessi economici, dobbiamo proteggere la sicurezza delle nostre truppe in Libano e in Afghanistan. Anche se preferiamo negarlo a noi stessi, in entrambi i teatri i nostri soldati sono ostaggi dell´Iran. In qualsiasi momento Teheran può dare ordine di colpirli: in Libano via Hezbollah, in Afghanistan tramite i "suoi" signori della guerra. Il nostro basso profilo su entrambi i fronti – specie la nostra tolleranza verso le milizie del Partito di Dio libanese – si spiega anche così.
È insomma consigliabile non trasformare in questione di principio un problema di opportunità. Sia perché spesso chi martella sui princìpi maschera l´assenza di una politica (vedi Bush jr.). Sia soprattutto perché gli stessi partner che oggi amichevolmente ci invitano a non interloquire con il presidente iraniano potrebbero domani aprire un negoziato a 360 gradi con il regime persiano, nel caso l´opzione militare venisse definitivamente scartata (ancora non lo è). Con tanti saluti ai puristi del non possumus.
Obama ha già annunciato di essere disposto a incontrare Ahmadinejad o altro leader iraniano senza precondizioni. Perché, ha spiegato, «la tesi per cui non parlare a un paese è una punizione nei suoi confronti – il principio guida della diplomazia di questa amministrazione – è ridicolo».
McCain passa per falco, ma nello stesso establishment repubblicano si rafforzano i fautori del dialogo con Teheran. Così Henry Kissinger – non proprio un pacifista insensibile alla sorte di Israele – sostiene «un negoziato complessivo con l´Iran… Abbiamo bisogno di discutere apertamente tutte le differenze». Un faccia a faccia fra i leader dei due paesi dovrebbe produrre una conferenza internazionale in cui l´Iran scambi la rinuncia all´arsenale atomico con il riconoscimento del suo rango di grande potenza e la riammissione a pieno titolo nel circuito economico internazionale. Certo, conclude Kissinger, l´Iran «deve decidere se è una nazione o una causa». In parole povere, se intende comportarsi da Stato o da avanguardia della rivoluzione islamica mondiale.
Nessuno può giurare sulle intenzioni dei capi iraniani, maestri di ambiguità e inganno. Ma finora, quando c´è stato da scegliere fra fedeltà alla rivoluzione e salvezza della nazione, fra "purezza" dottrinale e Persia, da Khomeini in avanti la risposta è stata una sola: Persia. La ragione di Stato prevale sulla religione di Stato. Forse potremmo contribuire anche noi a sollecitare questo sano patriottismo, trattando l´Iran da "nazione" e non da "causa". A difesa non solo dei nostri interessi immediati, ma anche della sicurezza di Israele in quanto Stato degli ebrei. Per noi un dovere, prima ancora che un interesse.

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