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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Il Riformista - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.05.2008 Dossier Ahmadinejad
l'appello di Fiamma Nirenstein a non legittimare il tiranno, la persecuzione degli omosessuali in Iran, le strategie dell'America, la richiesta d'udienza in Vaticano

Testata:Il Giornale - Il Riformista - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - fdl - la redazione - Luigi Accattoli
Titolo: «Ora tocca a noi smascherare Ahmadinejad - MAHMUD, L'INCUBO DEI GAY -Raid aereo americano in Iran contro le basi pasadaran in agosto - McCain e Obama si scannano sull’Iran,Taheri dice che è inutile -Ahmadinejad dal Papa Un'udienza collettiva con gli altri»
Dal GIORNALE del 29 maggio 2008:

Il mondo ci guarderà nei giorni in cui il presidente iraniano Ahmadinejad in visita alla Fao saggerà di fatto il terreno italiano, europeo, democratico. Abbiamo quindi una grande responsabilità, come la ebbero gli Usa in occasione della visita all’Onu: allora il presidente della Columbia University, professor Lee Bollinger, schiacciò il presidente dell’Iran sotto le sue stesse menzogne. Per noi italiani, è un compito importante dimostrare che la visita di Ahmadinejad ci risulta molto problematica, fortemente sgradita: questo, diciamolo subito, nonostante la nobilissima storia della Persia e la grazia e la forza della cultura dei Persiani.
Il governo non incontrerà Ahmadinejad e questo rafforzerà l’atteggiamento più duro di tutto il consesso internazionale: è un dato fortemente positivo. Ma ora sta alla società civile, agli intellettuali, ai politici uno a uno, dare un segnale deciso di consapevolezza. Bene ha fatto il Riformista a lanciare un appello che sfocerà in un sit in.
Ahmadinejad è un dittatore spietato, il suo Paese condanna a morte 210 persone l’anno, 100 giovani sono nel braccio della morte per crimini di varia natura, dall’omosessualità al dissenso mascherato. La costruzione di strutture atomiche va di pari passo con l’ossessiva promessa di distruggere Israele, e col disprezzo per tutto l’Occidente accompagnato dalla minaccia ripetuta nel 2006 che l’Islam è pronto a dominare il mondo, anche con il perfezionamento di missili Shahab che possono già raggiungere le capitali europee. La sua pericolosità non è legata però soltanto al progetto atomico ormai in dirittura di arrivo, ma a un bisogno egemonico che usa e fomenta per fini imperialisti le organizzazioni terroriste in ogni situazione agibile, come per esempio quella irachena.
Gli hezbollah hanno rivolto contro i propri concittadini le armi che l’Iran stesso gli ha fornito insieme alla Siria. L’Iran ha addirittura portato a 150 milioni di dollari il sussidio a Hamas mentre tratta con Khaled Mashaal, capo dell’organizzazione, un eventuale trasferimento da Damasco a Teheran nel caso di trattative avanzate tra Israele e Siria.
Ma le armi non sono tutto per Ahmadinejad, il suo sogno egemonico va oltre. Per lui si basa soprattutto sull’antisemitismo, sulla propaganda anti occidentale, sulla negazione dell’Olocausto, sulla sistematica minaccia di sterminio e su quel sorriso da gatto di Alice nel Paese delle meraviglie che suggerisce, nelle sue visite cariche di cerimoniale e di disprezzo, a tutti coloro che lo guardano alla televisione nei Paesi occidentali: «Io vi rivelerò la verità, io sono qui per aprire una strada a una cultura che non è la vostra e che dovrete accettare per forza». Se guardiamo alla sua offensiva egemonica verso l’Occidente, dove c’è chi, già affascinato, ritiene che l’America sia un mostro e Israele non abbia il diritto di esistere, possiamo trovare l’indicazione per respingerla. Come ha fatto il professor Bollinger nel suo discorso alla Columbia, in cui dimostrava l’autentica impresentabilità morale e culturale dell’interlocutore iraniano, sfidandolo senza paura sul terreno dei fatti, della verità, smascherando le sue menzogne, e offrendo, parallelamente, un posto nella sua università al professore iraniano di urbanistica dissidente, Kian Tajbakhsh.
Ogni volta che Ahmadinejad si presenta in ambito diplomatico, si ripropone la questione dell’utilità di interloquire offrendo un palcoscenico a chi esprime una determinazione di distruggerci e contemporaneamente non nasconde il suo disprezzo per la nostra civiltà. La risposta è che nel caso di Ahmadinejad il suo proporsi come sprezzante cerimoniere e interlocutore dell’Occidente è oggi ancora più pericoloso. Infatti la sua idea è che il mondo della certezza del diritto, la civiltà dei diritti umani e della democrazia debba oggi essere costretto a parlare con chi apertamente premiava la Jihad, il terrorismo, l’omicidio, e diventare quindi un interlocutore morale oltre che economico. Guai a noi e ai nostri figli se non sapremo rifiutare di sederci a questo tavolo. Ahmadinejad propone alla nostra civiltà, che si batte in un corpo a corpo eroico con questo tema da decenni, un linguaggio inaccettabile, quello della violenza e della sopraffazione in nome di Dio. Se lo accetteremo, ne resteremo vittime.

Dal RIFORMISTA, un articolo sulla persecuzione degli omosessualiin Iran:

Fu travolgente il boato degli studenti alla Columbia University dopo che il presidente iraniano Ahmadinejad, a settembre dello scorso anno, pronunciò la ormai celebre frase: «In Iran non esistono omosessuali, noi non ne abbiamo». La comunità gay è invece presente in Iran e non se la passa affatto bene, isolata dalla società e dalla famiglia e perseguitata dal regime islamico. Si dice siano 4000 gli omosessuali impiccati negli ultimi trent'anni, molti di più sono stati sottoposti a pene detentive e corporali. Il discorso di Ahmadinejad però almeno un merito lo ha avuto: da allora, la questione omosessuale è diventata importante per i media quasi quanto il nucleare. Sui blog cominciano a circolare video e testimonianze con le prime denunce di chi vive l'omosessualità come un incubo. Nascondono la loro identità sessuale, la cancellano perché potrebbe rappresentare la loro fine. In molti casi si tratta di persone cresciute in famiglie religiose, nell'angoscia di rischiare di perdere tutto. Il dramma maggiore per loro è il non riuscire a creare comunità, il non avere modo di confrontarsi e solidarizzare. Il Parco Daneshjou è il grande punto d'incontro, il famoso Parco degli Studenti, in cui gli incontri sono quanto mai nascosti per sfuggire alle retate della Polizia Morale.
Il rischio è la condanna a morte per impiccagione. Il grande tabù da combattere è per il clero la non precisa identità sessuale. L'Islam non l'accetta, non si sfugge: o uomo o donna. Una storia accaduta nel 1975, letta su un blog iraniano, chiarisce i termini della questione. È quella di Fereidoon Malakara, un giovane ragazzo gay di Tehran che lavorava presso la tv iraniana. Era molto religioso e decise di scrivere a Khomeini, durante il suo esilio francese. L'Iman risponde. Lo invita a fare la scelta, a identificarsi completamente nel sesso femminile e per questo a coprirsi e a seguire tutti i dettami della religione coranica. Scoppia la rivoluzione nel '79 e Fereidoon perde il lavoro. Piomba nell'incubo ed è costretto a subire l'emissione forzata di ormoni maschili, così, gli dicono i medici, avrebbe superato il problema. Tramite conoscenze riesce a fissare un appuntamento con l'Iman, lo incontra, gli parla, gli chiede aiuto. Ed è allora che Khomeini, sorpreso dalla visione diretta delle sue caratteristiche femminili deciderà di emettere una fatwa, un comando religioso utilizzato per fissare o modificare una legge. Si sarebbero permessi i cambi di sesso.
Fereidoon Malakara diventa da allora Maryam Malakara, ora è una donna. Tornando all'oggi una buona notizia va comunque registrata. Mehdi Kazemi, che rischiava la pena di morte in Iran solo per il fatto di essere gay, ha ottenuto asilo nel Regno Unito. Per The Indipendent «è una buona notizia, ma non abbastanza buona». Il quotidiano britannico non nasconde l'indignazione per un caso che la giustizia ha saputo risolvere solo dopo due anni, con un provvedimento speciale, e che secondo il giornale avrebbe dovuto invece portare a una modifica delle leggi in materia. Il ventenne Kazemi era infatti giunto in Gran Bretagna nel 2005 e l'anno successivo aveva saputo dell'esecuzione del suo ex compagno, condannato a morte per il reato di sodomia. Era stato lui, prima di morire a fare il suo nome e Kazemi, per evitare il ritorno in Iran, inoltrò immediatamente domanda di asilo. «Un minuto prima studiavo ancora a Brighton e un minuto dopo mi hanno detto che era stato firmato l'ordine di espulsione - ha detto al giornale - Pensavo di essere a un passo dalla morte, mi avevano detto che avrei potuto fare appello solo dopo essere stato rimpatriato. Mi sono detto: è impossibile, chi presenterà appello? Il mio cadavere?».
La richiesta venne respinta dalle autorità britanniche sulla base del fatto che, pur ammettendo che l'Iran condanna a morte imputati omosessuali, non esiste alcuna repressione sistematica. Kazemi insomma sarebbe stato al sicuro se avesse esercitato discrezione riguardo al suo orientamento sessuale. Una scelta vergognosa per il celebre quotidiano londinese.

Dalla prima pagina del FOGLIO, un articolo sui piani dell'amministrazione Bush per un raid contro l'Iran:

Washington. Il piano dell’Amministrazione Bush per lanciare un raid aereo contro l’Iran scatterà entro agosto, secondo una fonte di Asia Times. Per bloccare l’azione militare due senatori americani, a cui sono stati forniti rapporti dettagliati, sono decisi a pubblicare “entro pochi giorni” un editoriale sul New York Times. Dianne Feinstein, senatrice democratica della California, e Richard Lugar, senatore repubblicano dell’Indiana, sono vincolati dal segreto e non possono scendere nei dettagli, ma sperano di suscitare abbastanza allarme pubblico per dissuadere l’Amministrazione. L’annuncio di un attacco imminente – “entro un mese”, “entro sei mesi”, “entro l’anno” – contro l’Iran è ormai una costante della politica americana. L’ultimo è arrivato dal Jerusalem Post, otto giorni fa. La portavoce della Casa Bianca, Dana Perino, non ha potuto che smentire per l’ennesima volta: “La notizia non vale la carta su cui è scritta”. A questo giro il dettaglio che aggiunge realismo è l’obiettivo del raid: non più le installazioni del programma nucleare iraniano, ma le guarnigioni delle forze speciali delle Guardie rivoluzionarie, la Brigata Gerusalemme, incaricata delle operazioni sotto copertura all’estero. Un’operazione antiatomica sul modello Osirak – il raid israeliano che nel 1981 bombardò e distrusse un reattore nucleare in costruzione in Iraq – è invece incerta: come nel piano abortito contro le basi atomiche cinesi nel 1964, oggi le informazioni dei servizi segreti sembrano ancora incomplete e gli ultimi rapporti d’intelligence (sebbene smentiti senza far troppo rumore in seguito) sostengono la tesi di un programma ancora in fase non avanzata. Il colpo contro le basi della Brigata Gerusalemme – che lo scorso ottobre il dipartimento di stato ha incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche, non era mai successo per un reparto di un esercito nazionale – sarebbe motivato dall’influenza tentacolare che gli iraniani esercitano sul medio oriente. La Brigata Gerusalemme è da tempo specializzata nella sovversione, nelle operazioni segrete e nelle attività terroristiche all’estero, con l’obiettivo di espandere l’egemonia regionale di Teheran. Secondo l’Amministrazione americana, dalle loro basi vicino al confine con l’Iraq arrivano i razzi e gli ordigni esplosivi a carica cava – molto più efficaci contro i mezzi blindati delle rudimentali bombe al fertilizzante in mano alla guerriglia sunnita – usati dalle milizie sciite. I satelliti hanno persino scoperto in una guarnigione una replica della base americana- irachena a Karbala; proprio in quella base, nel gennaio 2007, una squadra speciale ha rapito cinque soldati americani con un blitz preparato alla perfezione. I pasdaran sono in Libano con Hezbollah, in Iraq con l’esercito del Mahdi e nella Striscia di Gaza con Hamas: la loro mezzaluna – come l’ha definita re Abdallah di Giordania – ride maligna su tutta la regione. Segnali premonitori e smentite I segnali premonitori dell’attacco, sia diplomatici sia militari, si stanno moltiplicando. Dall’invio simultaneo nell’Oceano indiano di tutti e quattro i sottomarini più moderni della marina americana, classe Ohio, capaci di portare 616 missili Cruise e 250 commandos delle Forze speciali, fino agli incontri ripetuti del vicepresidente Dick Cheney con gli alleati sunniti in zona e del segretario di stato Condoleezza Rice con Mosca, per ottenere un tacito lasciapassare dipomatico . La scorsa estate, segnala William Arkin, analista per il Washington Post, aerei americani hanno fatto la grande prova: hanno bombardato talebani in Afghanistan partendo dall’Iraq, un’operazione non-necessaria (gli americani hanno una comodissima base a Bagram) di incredibile complessità, 13 rifornimenti in volo, come andare da New York a Los Angeles e ritorno: la missione ha attraversato i cieli iraniani. Per contrastare il programma atomico potrebbe inoltre essere in corso una guerra segreta di altro tipo: due giorni fa, secondo Iran Press News, un’autobomba a Teheran ha ucciso uno scienziato nucleare. L’anno scorso ne era morto un altro: ufficialmente per una “fuga di gas”, ma due settimane dopo la morte è giunta la notizia del suo avvelenamento.

Sempre dal FOGLIO , il dibattito americano sul "dialogo con l'Iran"

New York. I primi cenni di campagna presidenziale tra il repubblicano John McCain e il democratico Barack Obama – sempre che il senatore nero dell’Illinois riesca a ottenere la nomination contro Hillary Clinton – sono rivolti alla politica iraniana che il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà costretto a elaborare per evitare che gli ayatollah si dotino della bomba nucleare. L’Iraq è in fase di miglioramento, quindi in secondo piano. Al di là della retorica e dei toni diversi, i piani di Obama e le proposte di McCain (e Hillary) prevedono che almeno fino al 2012 in Iraq dovranno rimanere circa 75 mila soldati americani. La nuova politica su Cuba non eccita gli animi, se non nella comunità di Miami. Nemmeno l’endorsement (con riserva) di Fidel Castro a Obama ha provocato polemiche, anche perché il senatore ha dichiarato di essere pronto a incontrare i Castro, interrompendo una tradizione avviata da John Fitzgerald Kennedy, ma anche di non voler togliere l’embargo economico all’isola. La svolta aperturista di John McCain sulla Russia (ora è pronto a discutere con Mosca un nuovo Trattato contro la proliferazione nucleare) non supera i confini del dibattito accademico. Il punto di interesse è solo l’Iran, ora che anche l’Agenzia atomica dell’Onu di Mohamed ElBaradei sostiene che Teheran prenda in giro la comunità internazionale e proceda spedito verso il nucleare militare. La linea di Mc- Cain è piuttosto ferma, centrata sul principio secondo cui “peggio di un intervento armato in Iran c’è solo un Iran dotato di armi nucleari”. Una strategia precisa però non c’è, un po’ come non ne ha una ben definita l’Amministrazione Bush che parla di cambio di regime, ma che da anni incontra i rappresentanti degli ayatollah prima riservatamente in Svizzera, poi apertamente a Baghdad. Obama propone una svolta diplomatica dai contorni non ancora delineati e decisamente contraddittoria visto che dopo aver ricevuto un altro imbarazzante endorsement dal portavoce di Hamas ha detto senza esitazioni che con Hamas e Hezbollah invece non si parla, perché sono organizzazioni terroristiche. Eppure è pronto a incontrare senza precondizioni il presidente iraniano, rifacendosi alla tradizione di incontri col nemico tenuti da presidenti americani del passato. Hillary Clinton ha detto che si tratta di una posizione “pericolosa e ingenua”, ma nel corso dei mesi Obama ha mantenuto l’impegno, ribadendolo in più occasioni e modificandolo fino a dire che “senza precondizioni” non vuol dire che non ci dovranno essere incontri preparatori a più basso livello. Significa, dice Obama, che non si deve subordinare l’incontro diplomatico alla rinuncia al nucleare, semmai quello sarà il tema dell’incontro. L’idea è che la dottrina Bush-Mc- Cain sul cambio di regime sia controproducente, oltre che illogica, perché chiede agli ayatollah di rinunciare alla bomba e, una volta che l’avranno fatto, di prepararsi comunque alla pronta destituzione. Il risultato – ha scritto il senatore Joe Biden – è che l’Iran ha accelerato la corsa ad arricchire l’uranio: “Invece che sul cambio di regime, dovremmo concentrarci sul cambiamento di comportamenti”. L’iraniano Amir Taheri ha spiegato in un articolo uscito ieri sul Wall Street Journal perché il dialogo con l’Iran non funziona, non da oggi, ma da trent’anni. Il motivo è la crisi di identità della Repubblica islamica, incapace di capire se deve comportarsi come un normale stato-nazione o come forza rivoluzionaria con pretese messianiche. Ahmadinejad crede davvero nel dodicesimo Imam che prima o poi arriverà a conquistare il mondo ed è sinceramente interessato a cambiare il destino dell’umanità, più che essere allettato dalla proposta obamiana di entrare nella Wto. Anzi crede che la Wto sia “un nido di cospirazioni sioniste e americane”. Il mese scorso, a Teheran, c’è stato un convegno internazionale dal titolo “un mondo senza l’America”. Condi Rice, ha ricordato Taheri, due anni fa ha già offerto l’avvio di una trattativa senza condizioni, ma non ha mai ricevuto risposta. Semmai l’ayatollah Ali Khamenei dice: “Non avete niente da dirci. Siamo diversi. Non siamo favorevoli ad avere una relazione con voi”.

Dal CORRIERE della SERA la cronaca di Luigi Accattoli su come il Vaticano sta preparando la risposta alla richiesta di udienza con il Papa avanzata da Ahmadinejad:

CITTA' DEL VATICANO — «Non c'è ancora una decisione », dicono in Vaticano a proposito del probabile incontro del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad con il Papa in occasione della sua venuta a Roma per il vertice della Fao (dal 3 al 5 giugno): l'unica cosa certa è che il presidente ha chiesto di poter vedere Benedetto XVI e che il Vaticano vorrebbe accontentarlo, ma ci sono da risolvere questioni di tempo e di forma per le quali sono in corso «trattative».
Sarebbero una decina i capi di Stato e di governo che venendo a Roma per il summit hanno chiesto di incontrare il Papa. Dicono in Vaticano che «non è possibile riceverli tutti in separate udienze nell'arco di due giorni» nè sarebbe praticabile l'accettazione di qualche richiesta mentre altre verrebbero respinte. Pare dunque che la soluzione obbligata sia un'udienza collettiva: e c'è anche un precedente proprio in zona Fao, in occasione di uno degli ultimi vertici che si sono tenuti sotto papa Wojtyla. Ma per tale soluzione occorre il gradimento dei «richiedenti» ed è in vista di questo che «si sta lavorando ». Chiaro è l'interesse ad avere buoni rapporti reciproci sia da parte di Ahmadinejad — per contrastare l'isolamento internazionale che si viene procurando con le minacce a Israele e con la politica nucleare — sia da parte della Santa Sede, che tiene d'occhio la delicata situazione delle antichissime piccole comunità cristiane che vivono laggiù.
Molti i segni di attenzione reciproca: hanno regolari relazioni diplomatiche, quando vengono a Roma i governanti di Teheran vanno regolarmente in Vaticano, insieme organizzano annualmente incontri di dialogo interreligioso. L'ultimo si è tenuto in Vaticano a fine aprile.
L'ultima venuta di un'autorità iraniana è del dicembre scorso, quando il ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki consegnò a Benedetto XVI un «messaggio» del presidente Ahmadinejad che «segnalava la necessità di ripensare le relazioni internazionali tenendo conto degli insegnamenti delle religioni rivelate».
Si può dunque immaginare che il Vaticano farà il possibile per non urtare la suscettibilità di Ahmadinejad che certo non avrà gradito il rifiuto di incontrarlo che ha ricevuto dal nostro premier Berlusconi, motivato con l'agenda «troppo fitta » sempre a motivo della presenza di tanti ospiti che verranno per il vertice. Ma pare che il presidente iraniano avrà un colloquio con il ministro degli Esteri Frattini e un incontro con un gruppo di imprenditori.
Oltre a quella di Ahmadinejad era annunciata un'altra presenza scomoda al vertice: quella del presidente venezuelano Hugo Chávez, ma ieri si è saputo — dall'ambasciata venezuelana a Roma — che Chávez non verrà. Non risulta che il presidente del Venezuela avesse chiesto di incontrare il Papa.

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