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Corriere della Sera - Europa - Il Messaggero Rassegna Stampa
07.05.2008 Contro Israele il nuovo antisemitismo
gli editoriali di Pierluigi Battista, Victor Magiar e Giorgio Israel

Testata:Corriere della Sera - Europa - Il Messaggero
Autore: Pierluigi Battista - Victor Magiar - Giorgio Israel
Titolo: «Il trattamento speciale - Una nuova forma di anti semitismo»

Dal CORRIERE della SERA un editoriale di Pierluigi Battista

E' destino di Israele accendere sempre smodate passioni di ostilità. Spesso si deplora che sia brutalmente liquidata come antisemita qualsiasi critica alle politiche israeliane. Lo ha anche insinuato, riferendosi maldestramente al capo dello Stato, Tariq Ramadan, che ha già ricevuto una risposta esemplarmente chiara da parte del presidente Napolitano, e che invece pare non abbia nulla da obiettare al rogo delle bandiere con la stella di Davide inscenato a Torino, lugubre antefatto coreografico del boicottaggio alla Fiera del libro. Ma se non è antisemitismo, come definire allora quella sistematica dismisura di giudizio, quell'eccesso lessicale, quel sovrappiù di concitazione che assegna da sempre a Israele il ruolo di bersaglio privilegiato dell'odio collettivo?
Si può criticare Israele senza passare ipso facto
per nemici degli ebrei, ci mancherebbe. Ma non suona già un po' singolare che passi come ovvia l'espressione «criticare Israele»? Cosa diremmo di un commentatore straniero che criticasse «l'Italia», oppure lo «Stato italiano» (o francese, o tedesco, o un altro qualsiasi)? Ricorderemmo l'elementare distinzione tra Stato e governo. Obietteremmo che un conto è l'Italia intesa come Nazione democratica che non spezza la sua continuità storica malgrado il variare delle sue (provvisorie) compagini governative. Tutt'altra le specifiche e circostanziate politiche attuate da un particolare governo. Si critica il governo Berlusconi, o il governo Prodi, non lo Stato italiano. Perché allora, nel caso di Israele, questa distinzione politica e lessicale è destinata a saltare? Certo che si può criticare il governo Olmert, o il governo Begin, o il governo Barak. Ma non lo si dice mai, o quasi mai, in questo modo. Le critiche si trasferiscono invece sullo Stato israeliano in quanto tale. Un trattamento speciale. Che peraltro allude obliquamente al cuore della «specialità» di Israele: il suo precario diritto all'esistenza, il pregiudizio che delegittima alla radice Israele come il frutto di un sopruso, di una mostruosa violenza storica. Uno dei pilastri dell'antisionismo. Ma davvero l'antisionismo non ha nulla da spartire con l'antisemitismo?
E non è inoltre molto strano che, almeno dal '67 ad oggi, non ci sia stata una volta, una sola volta in cui un qualunque governo israeliano (di destra o di sinistra, dei laburisti o del Likud) abbia meritato il consenso di chi è vigorosamente impegnato a sottolineare la distinzione tra antisemitismo e legittima «critica dello Stato di Israele»? Possibile che ogni governo israeliano commetta lo stesso errore, si macchi degli stessi crimini, affronti la questione palestinese nello stesso, catastrofico modo? E' possibile perché nella dismisura anti-israeliana è impossibile riconoscere che Israele sia una democrazia ricca di conflitti e diversità, a differenza di tutti i dispotismi da cui è circondato. Una società libera dove sono per primi gli storici israeliani a frugare negli archivi, per svelare anche le pagine meno luminose della nascita dello Stato che oggi gli incendiari torinesi delle bandiere vorrebbero impedire di celebrare. Nei libri di testo che circolano nei territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese, Israele è cancellato dalle carte geografiche e si ricalcano tutti i luoghi comuni della propaganda antisemita. Israele è invece una società pluralista, dove si scontrano idee, giornali, partiti. Perché è così difficile ammetterlo?
È questa realtà che l'eccesso polemico anti-israeliano cancella drasticamente. Il trattamento speciale riservato a Israele consente una spietata radicalità di linguaggio impossibile da usare verso qualsiasi altra Nazione. La condizione degli arabi di Israele diventa per forza di cose raccapricciante «apartheid». La barriera difensiva antiterroristica che ha fortunatamente fatto crollare il numero di attentati suicidi in Israele si trasforma nella vulgata in un terrificante «muro» di segregazione e di infamia. Avallata persino da premi Nobel come José Saramago, la grottesca equiparazione tra Gaza ed Auschwitz diventa luogo comune, immagine che acquista addirittura una sua plausibilità. La politica verso i palestinesi viene ribattezzata «pulizia etnica», come l'apocalisse in Ruanda e il furore antialbanese di Milosevic.
Non è antisemitismo? Ma come definire allora questo insieme di pregiudizi che fornisce agli intolleranti impegnati nel boicottaggio della Fiera del libro il carburante ideologico ospitato da università come quella di Torino dove, ospite Tariq Ramadan, si spacciano falsità storiche come se fossero vere e si altera alla radice l'intera vicenda dello Stato di Israele lungo un arco di sessant'anni?
Giustamente Lucia Annunziata sulla Stampa esorta chi difende Israele a non lasciarsi afferrare dallo stesso demone della faziosità esibita dai suoi nemici. Eppure la cultura democratica occidentale dovrà pur spiegare come si fa a commuoversi per
Schindler's list e contemporaneamente restare indifferenti al negazionismo minaccioso di Ahmadinejad che, cancellando il primo, auspica un secondo Olocausto degli ebrei. Come si fa a conciliare le visite solenni nei campi di sterminio con l'imbarazzato silenzio che circonda la martellante diffusione nei media arabi di serial tv ricavati dai Protocolli dei savi anziani di Sion?
È questo silenzio che incoraggia i nemici di Israele a bruciarne i vessilli. A dare per scontato che contro Israele si possa dire tutto e che persino i suoi scrittori siano maltrattati come la personificazione del Male assoluto meritevole di boicottaggio. Altro che questione di ordine pubblico.

Da EUROPA un articolo di Victor Magiar:

«The State of the Jews has became the Jew of the nations ». Così, durante la seconda Intifadah, scriveva Yossi Klein Halevi dalle pagine del Jerusalem Report per definire la condizione di Israele nello scenario internazionale.
Una condizione costruita nel tempo grazie a una poderosa e decennale campagna fatta di deformazione e manipolazione dei fatti, di una progressiva revisione storica, di costruzione di una vulgata e di un immaginario che ha messo insieme luoghi comuni terzomondisti, reazionari, razzisti e panarabisti.
Processo, questo, scatenato da quando negli anni ’50 l’Urss, e quella parte di sinistra a lei legata, hanno abbandonato Israele per una più conveniente alleanza con i nuovi regimi arabi. Come d’incanto Israele, fino ad allora considerato “cuneo rosso nel medioevo arabo” divenne un “avamposto dell’imperialismo americano”; così come improvvisamente divennero “progressisti” i nuovi nazionalismi arabi che in realtà avevano perseguitato partiti e leader liberali, socialisti e comunisti. Da allora, confondendo “cause nazionali” e nazionalismi, leggendo come “lotta di liberazione” qualsiasi conflitto armato nel sud del mondo, si è riusciti a legittimare qualsiasi atto ostile nei confronti di Israele, lo stato del popolo ebraico.
Non sono le politiche dei governi israeliani a essere criticati, a torto o a ragione, ma la legittimità stessa dello stato di Israele a esistere, perché la nascita di Israele sarebbe macchiata da un peccato originale: la sottrazione di terra e la mancata costituzione di uno stato per il popolo palestinese.
Questa la tesi di sempre, questa la tesi di oggi, dei contestatori della presenza di Israele persino al Salone del libro di Torino. Costoro, sbadati o incolti che siano, dimenticano che la tragedia del popolo palestinese ha origine nel “rifiuto arabo” di trovare qualsiasi soluzione negli anni Quaranta (stato binazionale o spartizione in due stati), nel tentativo arabo di risolvere la questione con le guerre e con lo sterminio degli ebrei in Medio Oriente (’47, ’48, ’49, ’67), e infine nell’occupazione da parte dei regimi arabi delle terre destinate allo stato arabo palestinese.
Anche la vicenda dei profughi (e non solo quelli palestinesi!) trova origine nelle scellerate scelte sciovinistiche del primo nazionalismo arabo.
La nascita di Israele, secondo costoro, sarebbe una iattura, o avrebbe dovuto essere miracolosamente pacifica e indolore, senza guerre e spargimenti di sangue, senza profughi: ma nessuna nazione al mondo è nata così e il miracolo, forse, si sarebbe realizzato se non fossero stati eliminati i leader arabi favorevoli al raggiungimento di un accordo.
È dalla rimozione di queste verità storiche che trovano fondamento le posizioni antisioniste o quelle pregiudizialmente anti-israeliane, quelle insomma che pongono Israele sempre sul banco degli imputati.
Ma l’antisionismo non è solo questo: è anche la negazione di un diritto che viene (almeno nominalmente) riconosciuto a qualsiasi altro popolo. È quindi una “nuova” forma di antisemitismo, che discrimina gli ebrei non più come individui, ma come nazione.
Il fenomeno, che coinvolge non fasce marginali di società ma significative personalità della politica e della cultura, è così profondo che durante la celebrazione del Giorno della Memoria dello scorso anno, il presidente Giorgio Napolitano dichiarava a chiare lettere che bisognava combattere «ogni rigurgito di antisemitismo, anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele».
Una dichiarazione netta, che spiega con chiarezza perché il presidente Napolitano abbia deciso di inaugurare lui stesso il Salone del libro: giungere a negare spazio e legittimità alla cultura di un intero popolo, negare diritto di cittadinanza a libri e persone, è già un atto, una pratica politica, di vera discriminazione.
È un trattamento, questo, che non è stato riservato alla cultura di nessun altro paese, compresi quelli più razzisti, aggressivi, dittatoriali.
Accade solo con Israele. E la cosa più triste e beffarda è che la discriminazione, che ha sempre bisogno di un paravento di menzogna, si permette anche di manipolare temi per noi sacri, come quello della pace o dei diritti dei popoli.
Chiedo dunque ai contestatori di Torino, agli intellettuali che li guidano, se non sia più consono per degli amanti della cultura, per i paladini della pace, costruire “ponti” fra le due parti in causa, Israele e mondo arabo. Chiedo loro se non sia proprio la letteratura israeliana uno dei più formidabili strumenti per permettere, per sviluppare, il dialogo e la comprensione fra i popoli del Medio Oriente. È tempo, per chi voglia dare un contributo alla pace, di assumersi la responsabilità di chiamare le cose con il loro nome: l’antisionismo è antisemitismo; gli ebrei, come nazione, sono Israele, e Israele, oggi, è l’ebreo fra le nazioni.

Da Il MESSAGGERO, un editoriale di Giorgio Israel:

Non è una giaculatoria premettere che l’omicidio di Verona per una sigaretta rifiutata è un incubo atroce, un orrido delitto che descrive la drammatica crisi educativa del paese, l’incapacità di formare giovani guidati da principi morali e la cui esistenza sia sorretta da scopi e interessi. È il segnale inquietante di una società incapace di educare i propri figli, che li abbandona al vuoto e alla tentazione di riempirlo con la violenza. Ha ragione Massimo Cacciari quando dice che ciò è frutto di una cultura latente che non è né di destra né di sinistra o, per meglio dire, sia di estrema destra che di estrema sinistra.
Proprio per questo trovo inappropriato lo scandalo con cui è stata accolta la considerazione del Presidente della Camera Gianfranco Fini secondo cui quel che accade alla Fiera del Libro di Torino è peggio ancora dei fatti di Verona. L’affermazione di Fini è legittima e comunque degna di una riflessione pacata e razionale perché le vicende di Torino mettono allo scoperto la stessa radice che è alla base del dramma di Verona: qui abbiamo visto gli effetti della cattiva educazione, a Torino vediamo la cattiva educazione all’opera.
A Torino si sta diffondendo l’idea che è legittimo boicottare i libri e la cultura. È un’idea efferata, mai applicata in alcuna altra circostanza, salvo che nelle dittature totalitarie. Persino ai tempi dello stalinismo era ritenuto essenziale mantenere rapporti scientifici e culturali con l’Unione Sovietica, anche attraverso canali istituzionali, applicando il principio che la trasmissione della cultura promuove la libertà. Invece qui si invita a boicottare persino la presenza di scrittori pacifisti che non hanno alcuna difficoltà a esprimere le loro opinioni in un paese, Israele, in cui vige una completa libertà di espressione. L’Università di Torino sta ospitando un convegno fazioso nell’ambito del quale l’intellettuale islamico Tariq Ramadan ha espresso propositi intimidatori nei confronti del Capo dello Stato, costringendo il Quirinale a una ferma replica e a ribadire l’ovvio, e cioè che il Presidente Napolitano non ha tacciato di antisemitismo chi critica Israele. Difatti, il problema è la negazione del diritto di Israele all’esistenza e la legittimazione di chi predica la sua distruzione. Questo è il veleno che viene sparso a piene mani a Torino. Dice il rettore Pellizzetti: «Guai a innescare censure che neghino preventivamente il diritto di parola a questo o a quello perché quella fessura può spalancarsi e diventare intolleranza». Ma quella fessura si è già spalancata, perché qui viene messo in discussione un solo diritto di parola: quello di Israele in quanto paese ospite d’onore della Fiera. L’Università dovrebbe essere un «luogo privilegiato di confronto». Ma non lo è. Ci si spieghi altrimenti perché nessun diplomatico israeliano abbia mai potuto parlare liberamente in un’università italiana. E perché mai nelle università italiane si possano tenere quanti incontri si vogliano dedicati alle ragioni palestinesi e difficilissimo tenerne per ascoltare quelle israeliane. Pertanto, l’intolleranza e il principio che l’intimidazione violenta paga hanno già trasmesso la loro lugubre lezione.
Non si può dire che la partecipazione di Israele alla Fiera del libro di Parigi non abbia posto problemi. Tuttavia, le foto parigine mostrano pennoni su cui le bandiere di Israele sventolavano accanto a quelle francesi. Nulla del genere in una Torino intimorita, in cui le autorità dispongono un divieto di assembramento che colpisce soltanto coloro che desiderano festeggiare lo stato ospite della Fiera. Per esibire una bandiera israeliana occorrerà fare il trucco di acquistare un giornale (Il Riformista) che ne rivestirà le sue copie. Non è sommamente inquietante lo spettacolo di istituzioni statali e culturali tremebonde di fronte all’intolleranza?
E non basta perché le bandiere israeliane – altro che sventolare sui pennoni! – vengono bruciate in piazza. Il sindaco Chiamparino parla di “cinque” aderenti a centri sociali che hanno bruciato bandiere senza che nessuno dei trentamila al corteo del Primo Maggio se ne accorgesse. Le foto mostrano qualcosa di più e proprio al centro di Piazza San Carlo. E poi, perché mai ci sono sempre quei “cinque” ai margini del corteo? Perché non se ne sentono estranei? Perché non vengono espulsi con indignazione, e c’è sempre una folla di “curiosi” che assiste senza indignazione all’olocausto di bandiere? E perché a questi fatti “marginali” e, in generale, al tristissimo clima che abbiamo descritto viene riservata una frazione minima dell’indignazione riservata alla dichiarazione del Presidente Fini? La quale può essere opinabile per qualcuno ma di certo è più riflessiva e pertinente di quella di chi paventa dietro i fatti di Verona il ritorno di un clima di violenza politica e di insicurezza per i cittadini. Come se fino ad oggi avessimo vissuto nel migliore dei mondi possibili e come se quel che accade a Torino non fosse da ascrivere a una violenza politica che sta lì da un pezzo e non “ritorna” perché è mutato il contesto politico.
Il nostro paese non ha bisogno di un’eterna campagna elettorale, bensì di concordia su alcune questioni di base: il ripristino della convivenza civile, il rispetto delle leggi e dell’autorità dello stato, la riaffermazione del valore della cultura e del libero confronto; ha bisogno di bandire la predicazione della violenza nell’educazione dei giovani. La Fiera del libro di Torino è un banco di prova. Per ora i risultati sono a dir poco inquietanti.

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