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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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L'Unità - L'Opinione Rassegna Stampa
18.01.2008 La guerra del terrorismo contro i bambini di Sderot
e la trattativa per la liberazione di Gilad Shalit: cronache e opinioni

Testata:L'Unità - L'Opinione
Autore: Umberto De Giovannangeli - Dimitri Buffa
Titolo: «I bambini di Sderot malati di guerra - Più vicina la liberazione del soldato Shalit grazie a mediazione italiana - Shalit, mediazione all'italiana»
L' UNITA' del 18 gennaio 2008 pubblica un articolo di Umberto De Giovannangeli, sostanzialmente corretto, sui bambini di Sderot: 

Vivere da sette anni sotto il martellamento continuo dei razzi sparati dalla Striscia di Gaza. Crescere con l’angoscia di una voce femminile che ripete con cadenza meccanica: «Treva Adom, Treva Adom (allarme rosso, allarme rosso». Giocare in asili trasformati in bunker. Essere bambini a Sderot, la cittadina israeliana bersagliata quotidianamente dai missili Qassam palestinesi. Tra il 75% e il 94% dei bambini e adolescenti di età compresa tra i 4 e i 18 anni di Sderot presentano i sintomi di stress post-trauma: è quanto emerge da un rapporto del Centro israeliano per le vittime del terrorismo e della guerra; anche il 54% dei genitori soffre di SPT (Sindrome Post-Traumatica).
BAMBINI cresciuti in asili trasformati in bunker. Bambini traumatizzati da una quotidianità segnata da quella voce metallica che ripete: allarme rosso, allarme rosso. Sono i bambini di Sderot, la cittadina israeliana che da sette anni è bersagliata dai razzi Qassam sparati dalla Striscia di Gaza. L’Unità li racconta
Il rapporto sarà reso pubblico nei prossimi giorni, l’Unità ne anticipa i dati più significativi. E inquietanti. A coordinare l’équipe dei ricercatori è il direttore del Centro, Rony Berger. «Il 75% dei bambini di età scolare - dice a l’Unità il professor Berger - ha avuto gravi sintomi di ansia, di perdita di sonno e di concentrazione». Dalia Yosef, direttrice dello Sderot’s Trauma Center, sottolinea con preoccupazione che il numero dei bambini di età compresa tra 1-6 anni identificati come affetti da ansia e che necessitano di un trattamento lungo, sono in costante aumento. Dal mese di maggio, 120 bambini si sono aggiunti agli altri 305 per i quali si è rilevata la necessità di prorogare il trattamento psicologico perché affetti da traumi. È il caso di Lior, 5 anni, che ha visto il suo papà, Yorom Shimon Ben, ferito dalle schegge di un razzo Qassam che aveva colpito la casa dei loro vicini. Lior è sottoposta a una terapia a lungo termine per l’ansia. In terapia è anche Tahal, 4 anni. Quando Tahal torna a casa dall’asilo, si accuccia sotto il tavoli della cucina e lì rimane. Quando Tahal ha cominciato a comportarsi così, circa sei mesi fa, sua madre Ofra ha pensato che si trattasse di un gioco. Tuttavia dopo averla incoraggiata a parlarne Ofra si è resa conto che questo era il modo escogitato dalla figlia per controllare lo stress causato dall’allarme sicurezza all’ombra del quale Tahal ha vissuto gran parte della sua giovane vita. Tahal trasale al minimo rumore, così come fa Yaakov, suo fratello maggiore, sette anni: dallo squillo di un campanello ad uno sbattere delle porte. Se scatta la sirena d’allarme «Treva Adom», i bambini si bloccano immediatamente. Se accade di notte, corrono immediatamente nel letto della madre. Sono smarriti, impauriti, emotivamente destabilizzati. «È difficile - spiega la dottoressa Yosef - curare e prevenire lo stress post-traumatico quando non è “post”. Lavoriamo - aggiunge - con i genitori per creare un ambiente rassicurante per i loro bambini. Ma è sempre più difficile creare una situazione di “normalità” quando si convive con l’angoscia di un razzo che da un momento all’altro potrebbe distruggere la tua esistenza e quella dei tuoi cari». «Vivere con un genitore post-traumatico può essere molto difficile per un bambino», gli fa eco Ari Blum, un giovane psicologo che presta assistenza volontario a Sderot. «Questi genitori - aggiunge - cessano di essere tali, non sono in grado di prestare attenzione au figli e dimenticano come si fa anche solo a godersi il tempo trascorso insieme ai propri bambini». Perché la scansione della quotidianità a Sderot è scandita dalla paura. E dal dolore.
Una vita blindata. Un’infanzia violata. Le pareti degli asili di Sderot sono formate da enormi blocchi di cemento armati sovrapposti e dipinti di bianco, tutte le finestre hanno i vetri antiproiettile e di fronte ad ogni apertura verso l’esterno sono state costruite gate rinforzate per intercettare le schegge dei Qassam. Ogni luogo della normalità è stravolto: così i campi di basket che sono protetti da tettoie a prova di bombe. È una quotidianità che sconvolge. Destabilizza. «Molti bambini presentano sintomi di regressione: dal fare la pipì al letto al rifiuto di dormire da soli e di andare a scuola», dice la dottoressa Adriana Katz, che dirige la clinica per la salute mentale di Sderot. I bambini delle scuole di Sderot quando sentono la voce femminile ripetere con cadenza meccanica «colore rosso, colore rosso» (il codice convenuto con la popolazione per avvisare dell’arrivo imminente di razzi Qassam), si mettono a cantare forte per non avere paura aspettando con il cuore in gola che passino quei 15 secondi prima del bum. L’allarme rosso concede 15 secondi di tempo per salvarsi la vita. Quindici secondi. I maestri riuniscono velocemente i bambini, si mettono a cantare e così cercano di vincere il terrore. Ziva Korsa è la direttrice di un centro della Wizo, un asilo per novanta bambini dai sei mesi ai tre anni. «Io vorrei la pace - afferma - la quiete, vorrei che i miei figli e tutti i bimbi di Sderot fossero felici. Ma come si può fare? Io non so come si può fare. Che l’esercito torni là, a Gaza, no, non mi piacerebbe, però se la situazione continuerà a peggiorare...a me non piacerebbe l’esercito a Gaza però Sderot deve vivere...».
Ma il rimedio a questa situazione non può essere quello dell’avacuazione dei bambini di Sderot. Spiega il professor Muli Lahad, direttore del Mashabim Community Stress Prevention Center al Tel Hai Academic College: «Evacuare i bambini fino a 11-12 anni senza i loro genitori, aggrava i sintomi post-traumatici». «Quando i bambini sono lasciati soli, lontano dalla loro comunità, essi immaginano cose orribili che accadono alle loro famiglie, I bambini sono influenzati da ciò che sentono e vedono in televisione, e cresce in loro la paura, l’angoscia, il senso di perdita....», aggiunge il professor Lahad.
I bambini di Sderot. L’altra faccia della sofferenza. Da non dimenticare. Mai.

Un altro articolo di u.d.g. riguarda la presunta mediazione italiana per la liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano sequestrato da Hamas:

IL QUOTIDIANO è degno di fede. La notizia è di quelle destinate a «far rumore». Sarebbe in corso una intensa trattativa tra israeliani e palestinesi con la mediazione italiana per giungere alla liberazione del caporale Gilad Shalit,
rapito a Gaza nel giugno del 2006. Lo rivela il giornale arabo «al-Hayat». Fonti palestinesi hanno affermato al quotidiano arabo che «grazie alla mediazione italiana, sarebbe vicino un accordo tra Hamas e Israele in base al quale è previsto uno scambio di prigionieri diviso in tre fasi». Il piano prevede la liberazione di mille prigionieri palestinesi, tra cui il leader di al-Fatah, Marwan Barghouti, e di alcuni capi di Hamas tra i quali i comandanti delle brigate Ezzedin al-Qassam. Durante la trattative le autorità israeliane si sarebbero però rifiutate di rilasciare uno dei più importanti dirigenti delle milizie di Hamas, Yahya al-Sanwar. Per giungere alla conclusione dell'accordo si attende la visita che nei prossimi giorni compirà al Cairo il capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Mashaal. La fonte aggiunge inoltre che «lo stesso Barghouti avrebbe partecipato dal carcere alle trattative, ferme da diversi mesi e di recente riprese grazie al ruolo fondamentale giocato dall'Italia, per via dei suoi buoni rapporti sia con Israele che con Hamas, costruiti da quando è andato al governo l'attuale premier Romano Prodi».
Nella prima fase dello scambio dovrebbero essere liberati 350 detenuti palestinesi, tra cui donne e bambini, in cambio della consegna di Shalit all'Egitto. La seconda fase prevede la liberazione di altri 100 detenuti palestinesi, in buona parte capi di Hamas e di altre fazioni palestinesi: tra questi ci sarebbero anche esponenti che Israele definisce «con le mani sporche di sangue ebreo». Questo secondo passaggio dovrebbe coincidere con il trasferimento di Shalit in Israele. La terza e ultima fase dovrebbe vedere la liberazione di un altro gruppo di prigionieri palestinesi, in coincidenza con il ritorno di Shalit alla sua famiglia. «Al-Hayat» rileva però che la recente escalation di violenze registrata negli ultimi giorni a Gaza - teatro di raid da parte delle forze israeliane - rischia di far saltare il piano. Fonti diplomatiche italiane, contattate da l’Unità, si sono trincerate dietro un comprensibile «no comment», mentre fonti vicine al presidente dell’Anp Abu Mazen confermano che «una trattativa è in atto e che in essa è impegnato un Paese europeo...». In questa situazione segnata dall’angoscia e dalla speranza, si segnala gesto di Noam Shalit, il padre del giovane caporale di Tsahal dal 25 giugno 2006 è in mano ad un commando dell’Intifada.
Noam Shalit, ha inviato un messaggio di condoglianze a Mahmoud Al Zahar, uno dei leader di Hamas, il cui figlio Hussam, miliziano nel movimento islamico, è stato ucciso tre giorni fa in un raid israeliano. L'invio di un «messaggio personale di condoglianze» è stato confermato da Shalit, che non ha voluto svelarne il contenuto. A Gaza Al Zahar ha, a sua volta, confermato di aver ricevuto il messaggio. Hussam è il secondo figlio di Al Zahar ucciso da Israele. Un altro figlio, Khaled, era rimasto ucciso nel 2003 in un tentativo fallito di uccidere il padre. Un portavoce di Hamas ha garantito che Gilad Shalit non è mai stato maltrattato. «L'Islam ci insegna a trattare bene i prigionieri di guerra, a tenerli in salute», ha detto il portavoce Ayman Taha. Ma dopo il «sanguinoso massacro» compiuto a Gaza dall'esercito israeliano, non ci sarà «più nessuno scambio di prigionieri che coinvolga Gilad Shalit», minaccia Meshaal. Ma lo stesso capo dell’ufficio politico di Hamas lascia aperto uno spiraglio: «Se Israele ferma i suoi raid e se coloro che sono impegnati nella mediazione agiscono in questo senso, allora le cose cambierebbero...».

Da L' OPINIONE un articolo sullo stesso tema di Dimitri Buffa

Buone notizie per il caporale dell’esercito israeliano Gilat Shalit rapito in Israele ai confini con Gaza il 17 giugno del 2006: la mediazione italiana, anzi “all’italiana”, di Massimo D’Alema potrebbe finalmente portarlo fuori dalla segrete di Gaza dove qualche infame terrorista di hamas lo tiene sequestrato da quasi un anno e mezzo. Meno buone notizie per i cittadini dello stato ebraico: la mediazione “all’italiana” del ministro equivicino potrebbe tradursi nella liberazione di qualcosa come mille terroristi di hamas e fatah tra cui il noto Marwan Barghouti. Di questa vicenda ne parla con dovizia di particolari oggi il giornale egiziano 'al-Hayat'. Fonti palestinesi hanno affermato al quotidiano arabo che “grazie alla mediazione italiana, sarebbe vicino un accordo tra Hamas e Israele in base al quale e' previsto uno scambio di prigionieri diviso in tre fasi”. Il piano prevede la liberazione di mille prigionieri palestinesi, tra cui il leader di al-Fatah, Marwan Barghouti, e di alcuni capi di Hamas tra i quali i comandanti delle brigate Ezzedin al-Qassam. Durante la trattative però le autorità israeliane si sarebbero, bontà loro, rifiutate di rilasciare uno dei più importanti dirigenti delle milizie di Hamas, Yahya al-Sanwar. Per giungere alla conclusione dell'accordo si attende la visita che nei prossimi giorni compirà al Cairo il capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Mashaal. Cioè il capo dell’ala dura rifugiato in Siria che avrebbe in pratica dettato siffatte condizioni. La fonte di “al Hayat” spiega inoltre che “lo stesso Barghouti avrebbe partecipato dal carcere alle trattative, ferme da diversi mesi e di recente riprese grazie al ruolo fondamentale giocato dall'Italia, per via dei suoi buoni rapporti sia con Israele che con Hamas, costruiti da quando è andato al governo l'attuale premier Romano Prodi”. Insomma l’equivicinanza dalemiana ai terroristi sta partorendo i primi mostri diplomatici: mille terroristi liberi di tornare a uccidere inermi cittadini israeliani in cambio di un caporale pagato più di un capo di stato maggiore della difesa. Ecco i tre stadi del piano italiano: nella prima fase dello scambio dovrebbero essere liberati 350 detenuti palestinesi, tra cui donne e bambini, in cambio della consegna di Shalit all'Egitto; la seconda fase prevede la liberazione di altri 100 detenuti palestinesi, in buona parte capi di Hamas e di altre fazioni palestinesi, tra questi ci sarebbero anche esponenti che Israele definisce “con le mani sporche di sangue ebreo”, e tutto ciò dovrebbe coincidere con il trasferimento di Shalit in Israele; infine la terza e ultima fase dovrebbe vedere la liberazione di un altro gruppo di prigionieri palestinesi, in coincidenza con il ritorno di Shalit alla sua famiglia. Il giornale egiziano “al Hayat” dice pure, però, che la recente escalation di omicidi mirati da parte di Israele, in risposta al giornaliero bombardamento del confine con missili provenienti da Gaza, rischia di fare saltare tutto. Resta da porsi quindi la classica domanda: un simile male verrebbe per nuocere?

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