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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa - Il Messaggero Rassegna Stampa
11.01.2008 Chi informa e chi confonde le acque sul viaggio di Bush in Medio Oriente
rassegna di quotidiani

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa - Il Messaggero
Autore: Fiamma Nirenstein - la redazione - Ennio Caretto - Francesca Paci - Davide Frattini - Eric Salerno
Titolo: «Bush: «Entro l’anno la pace in Palestina» - Le parole forti di Bush - Bush: pace e fine dell'occupazione israeliana - «Gaza collegata alla Cisgiordania Così George W. mette in crisi l'alleato» - Bush in Palestina pace entro l'anno»

Dal GIORNALE dell' 11 gennaio un articolo di Fiamma Nirenstein che spiega con precisione quale sia stata la  posizione espressa  da Bush nel suo viaggio in Israele e nei Territori palestinesi.

Il presidente americano non ha chiesto il rientro di Israele entro i confini del 67, ma anzi ha esplicitamente ipotizzato accordi che riflettano i cambiamenti avvenuti sul terreno, ovvero  "possibili scambi territoriali", nota Fiamma Nirenstein.
Inoltre, non ha 
"ha detto una parola sulla richiesta di fermare ogni costruzione soprattutto a Gerusalemme est.  ": le sue richieste a Israele circa la questione degli insediamenti riguardano gli avamposti illegali (105, con 3000 abitanti circa, secondo la cartina di Peace Now, pubblicata dal CORRIERE della SERA ).
Ha poi indicato chiaramente nello Stato palestinese la patria dei palestinesi, in Israele quella del popolo ebraico, prospettando non un «diritto al ritorno» palestinese in Israele ma una «soluzione per il problema dei profughi» attraverso «compensazioni economiche necessarie» e riconoscendo dunque Israele come Stato ebraico: ciò che Abu Mazen continua a rifiutare.
Di seguito, l'articolo:


«Alla fine del mio secondo mandato, il trattato di pace sarà pronto». Sorrisi e applausi nel salone della Mukata risistemata e abbellita, dove tante volte Arafat e i suoi uomini, ancora tutti là con Abu Mazen molto contento di accogliere Bush, hanno comunicato le loro risoluzioni ai giornalisti: stavolta, George Bush a fianco di Abu Mazen lo riscalda e fortifica con la sua presenza, e promette la pace in tempo per godersela. Ma, al di là delle cerimonie, alla fine l’atmosfera non è più la stessa. I check point, i confini del ’67, le costruzioni negli insediamenti, la sicurezza di Israele, la lotta contro Hamas. La logica di Bush non combacia con quella palestinese. La lotta al terrorismo chiede il suo tributo, e Bush glielo concede. Per esempio, a una domanda sui check point la logica americana di Bush fa scandalo: «So che gli israeliani vi fermano anche per due ore, e mi dispiace. Ma il motivo è la sicurezza. A me, non mi hanno fermato. Con la pace, i check point chiuderanno». Dignitari e giornalisti erano stupefatti. E Hamas? Bush non ha avuto pietà per Fatah: «Sta a voi e solo a voi fermarlo, o volete che questa feroce organizzazione che ha distribuito assassinii agli israeliani e disgrazie al proprio popolo, determini il vostro destino?».
Troppo americano? Forse, ma Bush ha cercato di compensare i palestinesi con la promessa del suo impegno, che vuol dire denaro e pressione su Israele, e fede in Abu Mazen: lo ha chiamato più volte «president» e non «chairman» come nel passato, mentre eguali, l’una accanto all’altra, si levavano le bandiere americana e palestinese. Molte le parole di fede nella pace («ci credo perché vedo la forza dei due leader»), le promesse a essere là a sostenere lo sforzo («con l’aiuto necessario, nell’interesse non solo dei palestinesi e degli israeliani ma di tutto il mondo»). Bush ha cercato di apparire imparziale, dando un colpo al cerchio («l’occupazione deve finire... parliamo di uno Stato con territori contigui, non di un gruviera svizzero») e uno alla botte («la sicurezza degli israeliani deve essere assicurata... potete rimanere inchiodati al passato ma questo non porterà niente di buono ai palestinesi»).
Abu Mazen ha ribadito il suo impegno a raggiungere un accordo, ha detto che la visita riflette il desiderio di pace dei palestinesi: ha sfidato l’odio di Hamas e di chi ha sparato. durante la visita. ben 20 missili su Sderot.
Alle sette, quando Bush ha incontrato i figli di Ariel Sharon e poi Bibi Netanyahu, avrebbe dovuto godere l’aurora sulla Città vecchia. Invece Gerusalemme gli ha mostrato un volto impenetrabile, candido. Bagnato. Bush così, invece di usare l’elicottero, ha dovuto viaggiare attraverso i check point di Ramallah, mentre la Sicurezza impazziva e gli abitanti della cittadina venivano bloccati in casa; ha pagato la mancata visita alla tomba di Arafat con un grande ritratto del raìs piazzato proprio dove parlava ai giornalisti; la gente per strada osannava uno strano sosia del raìs, con keffiah e divisa. Dopo la visita Bush è volato a Betlemme e ha visitato la chiesa della Mangiatoia. A sera la sorpresa, un discorso di cui i palestinesi non saranno contenti: i due Stati devono convivere l’uno accanto all’altro lo Stato palestinese patria dei palestinesi, quello d’Israele per il popolo ebraico, ovvero: nessun sogno di distruggere Israele; per la suddivisione territoriale, Bush non ha fatto riferimento ai confini del 1967: ha parlato di accordi che riflettano i cambiamenti avvenuti sul terreno, ovvero di possibili scambi territoriali. Bush inoltre non ha più parlato di «diritto al ritorno» ma di «soluzione per il problema dei profughi» e di «compensazioni economiche necessarie». Di nuovo, della sicurezza di Israele. Non ha detto una parola sulla richiesta di fermare ogni costruzione soprattutto a Gerusalemme est. Andandosene, ha detto in sostanza «fate voi, ma fatelo entro l’anno». E così comincia una nuova, terribile mischia.

L'aspetto decisivo del riconoscimento di Israele come Stato ebraico è sottolineatto dall'editoriale a pagina 3  del FOGLIO :

Con quattro sintetiche frasi, George W. Bush da Ramallah ha indicato la “soluzione di sistema” in cui inquadra il possibile rapido accordo israelo-palestinese. Parole inedite in bocca a un presidente americano: “L’occupazione israeliana iniziata nel 1967 deve cessare”. Frase forte, inequivocabile – che lascia alla trattativa il tema dei confini dello stato palestinese – con cui consolida una nuova posizione degli Stati Uniti, non più soltanto partner di Israele, ma anche aperti alle legittime aspirazioni arabe. Ha rafforzato poi questo ruolo super partes chiedendo a Israele “la fine dell’espansione degli insediamenti e la rimozione degli avamposti illegali”. Richieste non molto gradite al premier Ehud Olmert che non ha ancora rimosso – come promesso – le colonie illegali. Forte di questa nuova collocazione, Bush ha quindi chiesto ai paesi arabi di “dare una mano allo stato di Israele”, proprio sul punto più scabroso del contenzioso. No di Bush, quindi, al “diritto al ritorno”, ma “nuovi meccanismi internazionali, comprese le compensazioni, per risolvere la questione dei rifugiati”. Bush ha proposto così, in chiaro, un indennizzo ai profughi palestinesi per un ritorno che non vi sarà più. Questo perché “l’accordo di pace deve stabilire che la Palestina è la patria del popolo palestinese, come Israele è la patria degli ebrei”. Ed è proprio qui, nel riconoscimento di Israele come stato ebraico, l’aiuto chiesto da Bush ai paesi arabi, che hanno sempre rifiutato questa caratterizzazione di Israele – pur sancita dall’Onu dal 1947 – pretendendo che fosse al massimo uno stato multietnico. Il tutto nella cornice della formazione di un “fronte arabo”, pacificato nella trincea israelo-palestinese, che possa contenere le mire espansionistiche degli ayatollah: “L’Iran era una minaccia, è una minaccia, sarà una minaccia alla pace mondiale se la comunità internazionale non si unirà per impedire che si doti delle conoscenze per costruire armi nucleari”.
Laddove Bill Clinton nel 2000 si espose come mediatore dentro il negoziato – e fallì – Bush lavora invece a una soluzione “regionale”, che metta tutti gli stati arabi, non soltanto Abu Mazen, di fronte alla necessità di un accordo con Israele. Non come utopistica soluzione a tutte le crisi mediorientali, ma come presupposto indispensabile per fronteggiare un’aggressività iraniana che tutti, al Cairo, Amman, Riad e negli Emirati, percepiscono come minaccia alla loro sicurezza nazionale.


Fuorviante la presentazione della posizione di Bush da parte di Ennio Caretto sul CORRIERE della SERA.
Nelle prime righe il riassunto del discorso di Bush fatto dall'inviato negli Stati Uniti, forse inesperto di Medio Oriente  è il seguente: "Bush ha proposto che Israele ponga fine «all'occupazione del '67» della Palestina, sospenda la costruzione degli insediamenti e smantelli gli avamposti illegali, in maniera che essa possa configurarsi come uno Stato «a continuità territoriale »".

Giustamente, Francesca Paci sulla STAMPA fa notare che la televisione palestinese ha proposto fino a notte fonda " le frasi che, dal punto di vista locale, riassumono" il  discorso di Bush: le stesse scelte da Caretto (scorretto il titolo "La Palestina senza più check point", bush ne ha parlato, ma indicando la pace come condizione).
Ma a quest'ultimo, come anche ai palestinesi, si dovrebbe spiegare che Bush non ha mai sostenuto che Israele dovrà tornare entro i confini del 67.

Ha anzi detto il contrario, proponendo revisioni della linea armistiziale del 49.
Anche Caretto cita, poche righe dopo il suo esordio, queste parole di Bush, ma non spiega che cosa concretamente significhino.

Ecco l'articolo:

GERUSALEMME — Dalla Città Santa alla ricerca della pace dopo due millenni di guerre, George Bush ha ieri enunciato, con un linguaggio incredibilmente franco, la sua dottrina per la firma di un «trattato » permanente tra israeliani e palestinesi, non un'intesa di principio, entro la scadenza del suo mandato nel gennaio del 2009. In una breve dichiarazione dopo un colloquio con il presidente palestinese Abu Mazen a Ramallah in Cisgiordania e un'emotiva visita a Betlemme, Bush ha proposto che Israele ponga fine «all'occupazione del '67» della Palestina, sospenda la costruzione degli insediamenti e smantelli gli avamposti illegali, in maniera che essa possa configurarsi come uno Stato «a continuità territoriale ». Poche ore prima, alla conferenza stampa congiunta con Abu Mazen, Bush aveva detto che il futuro Stato palestinese «non dovrà essere un formaggio svizzero a buchi», uno Stato gruviera. Più tardi, il consigliere della sicurezza Stephen Hadley è andato oltre: il presidente, ha spiegato, «immagina uno Stato della Palestina, non due», chiede cioè che Gaza e la Cisgiordania siano collegate tra di loro.
Bush, tuttavia, ha appoggiato anche Israele con due proposte: di «modificare» — di fatto, ampliare — le sue frontiere del '49, e di istituire «un meccanismo internazionale che includa indennizzi» per il trasferimento dei rifugiati palestinesi nel loro Stato a venire. Riprendendo la formula della «sicurezza in cambio di territori» — la Palestina non può nascere dal terrorismo, ha ammonito — il presidente ha offerto a Israele un nuovo baratto: «Aggiustamenti di confine che tengano conto delle realtà esistenti », ossia che conglobino i più vicini e principali insediamenti israeliani in Palestina. E spostando sull'Autorità palestinese la responsabilità di provvedere ai quattro milioni di rifugiati, sia pure con aiuti esterni, lo ha sgravato di un serio problema: «La Palestina dovrà essere la casa dei palestinesi come Israele è la casa degli ebrei». Ma Bush non si è pronunciato sui due maggiori ostacoli alla «visione», come la chiama, di due Stati in pacifica convivenza: Gerusalemme che, ha ammesso, è la questione più dolorosa da risolvere; e Hamas che, ha lamentato, probabilmente non si convertirà alla pace entro un anno.
Bush aveva esposto la dottrina nel discorso del giugno del 2002, quando per la prima volta un presidente americano si era schierato per uno Stato palestinese. Ma il vigore con cui l'ha ribadita ieri, la ribalta di Gerusalemme, la sua disponibilità a mediare l'hanno resa più realistica e prammatica. Visitando Betlemme, Bush ha attribuito l'ispirazione per il suo piano «alla mia fede nell'Onnipotente ». Ma il presidente è apparso deciso sia con Abu Mazen che con il premier israeliano Ehud Olmert: ha invitato entrambi a rispettare la Road Map, il percorso negoziale; ha chiesto al primo di combattere gli estremisti e al secondo di non indebolire le forze di sicurezza palestinesi; e ha esortato i Paesi arabi a «porgere la mano» a Israele e favorire un accordo.
Paradossalmente, a scuotere Bush ha forse contribuito il brutto tempo. Costretto a rinunciare all'elicottero, il presidente ha visto dall'auto il muro eretto da Israele, i posti di blocco, e il disagio dei palestinesi. Devono scomparire, ha detto: la Palestina deve diventare una garanzia di sicurezza per gli israeliani, e i due popoli devono «dimostrare il coraggio delle scelte più difficili».
Insieme George W. Bush e il presidente palestinese Abu Mazen durante la conferenza stampa congiunta ieri a Ramallah

Di seguito riportiamo la cartina degli insediamenti israeliani pubblicata dal CORRIERE.
La fonte, avverte la didascalia, è Peace Now. Organizzazione pacifista israeliana, della quale tutto si potrà dire, nel bene o nel male, ma non che sia imparziale sulla questione degli insediamenti, ai quali è fortemente avversa.
Come mai, dunque, è stata scelta una fonte simile ?  




Il corrispondente del CORRIERE da Israele, di grande esperienza e competenza, è Davide Frattini.
Sua è l'interessante intervista allo storico Michael Oren:

GERUSALEMME — Nel libro ricorda il viaggio di Herman Melville, appassionato lettore delle Mille e una notte, partito per il Medio Oriente «con uno spazzolino e un solo cambio di vestiti». Per Michael Oren, delle parole chiave del titolo — Potere, Fede e Fantasia — l'autore di Moby Dick incarna l'ultima. George W. Bush ha invece esibito il potere e oggi la fede, quando si fermerà alla Montagna delle Beatitudini, nel nord di Israele. Niente fantasia o almeno non sorprese, nella prima visita da presidente. «Il discorso di Bush ha rappresentato il più succinto e preciso riassunto della sua dottrina per porre termine al conflitto israelo-palestinese» spiega Oren che ai rapporti tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente ha dedicato 773 pagine.
Lo storico non considera l'appello alla fine dell'occupazione la parte più forte. Ricorda che il presidente aveva già usato le stesse parole, anche più dure, nel giugno del 2002. «Per Israele gli aspetti più controversi sono il numero di volte che Bush ha citato la necessità di creare uno Stato palestinese che abbia contiguità. Con un legame territoriale tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, qualunque possano essere i timori dei governi israeliani per la sicurezza ». Oren elenca i punti della dottrina che il leader americano ha ripetuto: «La Road Map resta centrale e va rilanciata, sostegno all'economia palestinese, un apprezzamento per il piano di pace arabo e un appello ai Paesi arabi perché diano il via libera alle relazioni con Israele, negoziati sulle questioni fondamentali ».
Bush ha nominato i confini del 1949. «La linea armistiziale è mobi-le, non è una frontiera sacra come quella del 1967. Resta l'idea che ci possano essere aggiustamenti o scambi territoriali». Lo storico è analista allo Shalem Center, un centro sponzorizzato dalla destra americana. E' convinto che tra i candidati alla presidenza negli Stati Uniti solo Rudolph Giuliani potrebbe allontanarsi dalla linea definita dall'amministrazione Bush. «I consiglieri di Giuliani per il Medio Oriente sono dei falchi, con posizioni intransigenti ». Un futuro accordo tra israeliani e palestinesi finirà comunque per occupare l'agenda del prossimo presidente. «Entro la fine di quest'anno, come promesso da Bush, è forse possibile raggiungere un'intesa. Ma per realizzarla ci vorrà molto più tempo».
Oren non è d'accordo con Ben Caspit, prima firma del quotidiano
Maariv. «Si fa chiamare il leader del mondo libero — scrive Caspit — e al mondo libero non resta che fare il conto alla rovescia per i giorni che resterà al potere. Parla di un accordo nei prossimi mesi, non si sa se piangere o ridere. Sfortunatamente, il capo dell'ala militare di Hamas è molto più influente di lui da Gaza e Marwan Barghouti dalla prigione». Dice lo storico: «Se la situazione in Iraq si stabilizza e vengono poste le basi per la nascita di uno Stato palestinese, il bilancio della sua presidenza sarà diverso».

Eric Salerno sul MESSAGGERO trasforma la sua cronaca in un'arringa contro Israele. Il capo d'imputazione questa volta è costituito dai check point. Non si fa cenno a ciò che li rende necessari: il terrorismo, che non esita a utilizzare anche le ambulanze per portare la morte tra gli israeliani.

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