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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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L'Unità - Il Riformista - Il Foglio Rassegna Stampa
12.12.2007 Dossier Iran
la strategia dell'appeasement e quella del cambio di regime

Testata:L'Unità - Il Riformista - Il Foglio
Autore: Vincenzo Vasile - la redazione - David Frum
Titolo: «Napolitano a Bush: non è più tempo di agire da soli - Iran, bravo Napolitano - Soluzione politica»
L'"unilateralismo", cioè la determinazione degli Stati Uniti a rispondere alle minacce anche senza il consenso della comunità internazionale, è finito.
Il National Intelligence Estimate sui progetti nucleari iraniani pone fine all'ipotesi di un intervento militare contro il regime degli ayatollah, che comunque non è mai stato un serio pericolo. E' il trionfo della politica estera dalemiana, che il presidente della Repubblica Napolitano sarebbe andato a spiegare direttamente a Bush.

E l'interpretazione proposta da L'UNITA' e dal RIFORMISTA.

Di seguito, da pagina 15 dell' UNITA' :


L’ALBERO DI NATALE, addobbato con le aquile statunitensi, sovrasta la scena che si svolge nello studio ovale della Casa Bianca. George W. Bush ha appena finito l’ennesima filippica contro il Paese più «dangerous» (pericoloso) dell’ultima lista di Stati canaglia sfornata da questa amministrazione, però smentita dai rapporti dell’intelligence Usa. E tocca a Giorgio Napolitano, primo capo di Stato europeo a varcare questa soglia dopo le scomode rivelazioni della Cia, il compito di rispondere in chiave «multilaterale» all’affondo del presidente americano. Cioè replicare con tutte le diplomazie del caso che in parole povere gli Usa in Iran come altrove nel mondo non possono fare da soli: «L’Italia e l’Europa vogliono assumersi le loro responsabilità per mantenere la pace e la stabilità, per promuovere la democrazia». Il presidente italiano preferisce parlare in generale di un comune impegno a combattere la «proliferazione delle armi di distruzione di massa e nucleari», correggendo l’interprete che ha saltato qualche passaggio, nella sua traduzione istantanea, destinata soprattutto ai giornalisti italiani (il nostro presidente e Bush hanno infatti colloquiato in inglese).
Massimo D’Alema, presente al colloquio, e poi in un faccia a faccia con Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato, coglierà proprio in questo scambio di battute tra i due presidenti un nuovo clima positivo improntato al «rispetto» reciproco. Dopo la lunga e drammatica stagione dell’unilateralismo Usa, sull’Iran sarà infatti il Consiglio di sicurezza, vale a dire alla «sede multilaterale per eccellenza», che tocca proprio al ministro degli Esteri italiano presiedere tra qualche giorno, decidere su quale corsia del doppio binario delle sanzioni e del negoziato incamminarsi. «E il presidente Bush ha chiesto la nostra collaborazione giusto in quella sede». Insomma: «L’unilateralismo non è all’ordine del giorno. E gli stessi Usa sono sensibili alla posizione italiana e europea».
D’Alema non si risparmia una battuta: d’altra parte, è stata proprio la Cia a dire al mondo che l’Iran la bomba non la sta facendo. E a chi gli chiede se la preoccupazione italiana sia in qualche modo minore rispetto a quella mostrata da Bush, D’Alema ribatte che semmai dopo le rivelazioni dei servizi Usa sono gli americani ad avere una posizione più «sfumata». Napolitano insiste con forza durante i colloqui sulle relazioni Ue-Usa: ora l’Unione europea, in vista dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è un interlocutore più credibile degli Usa. E così gli europei possono e debbono fare la loro parte in una politica di sicurezza internazionale e contro il terrorismo che deve essere innanzitutto «efficace» e non solo «declamatoria».
Sul Kosovo, altro punto bollente, si può fare - nonostante le differenze di impostazione - un discorso analogo sul riguardo e l’attenzione riscontrati alla Casa Bianca per il ruolo che l’Italia e l’Europa stanno svolgendo. Ci sono diverse posizioni? «Se tutti ripetessero le stesse frasi non saremmo stati a discutere per due ore», nota D’Alema, ma l’importante è che il confronto avvenga in un clima per molti versi nuovo improntato al rispetto reciproco e all’attenzione degli Usa per le posizioni italiane ed europee.
Il giro d’orizzonte internazionale è completato dal Medio Oriente, e qui la delegazione italiana ha manifestato apprezzamento per gli sforzi degli Usa volti a rilanciare il processo di pace Israele-Palestina.
Napolitano, del resto, ha informato anche Bush del dialogo positivo avviato sulle riforme per dare stabilità al sistema politico nazionale. In verità, osserva D’Alema, non c’è poi chissà quale percezione di instabilità del nostro Paese sull’altra sponda dell’Oceano: del resto nel frattempo la politica statunitense, proprio in queste ore, attraversa una fase turbolenta.
Il clima è stato positivo e rilassato, secondo i resoconti di chi era presente. Con un gesto di ospitalità piccolo ma significativo al pranzo ufficiale, quasi tutto improntato all’Italian style, con ravioli e mozzarella.

Da pagina 2 del RIFORMISTA :

Sono due i richiami più forti e di grande, autorevole sostanza che spiccano nelle parole che ieri il presidente della Repubblica ha pronunciato alla Casa Bianca davanti a George W. Bush. Il primo riguarda la pericolosa situazione che si sta determinando sulla questione iraniana. A fronte di un presidente americano quanto mai deciso a sottolineare, ancora una volta, la pericolosità dell’Iran in materia di nucleare, Napolitano per nulla intimorito ha ribadito a testa alta, pur riconoscendo agli Stati Uniti il loro ruolo decisivo nel processo di pace post-Annapolis, che gli americani non possono pensare di fare tutto da soli sulla sicurezza internazionale.
Insomma, un no alto e chiaro all’unilateralità di Washington: «L’Italia e l’Europa vogliono assumersi le loro responsabilità per mantenere la pace e la stabilità, come per promuovere la democrazia. Noi non possiamo chiedere agli Stati Uniti di assumersi l’incarico di preoccuparsi della sicurezza internazionale perché questo è un dovere di tutti e l’Unione europea deve essere all’altezza di questo compito». Poi, nello studio ovale già decorato con gli addobbi natalizi, compreso un albero alto due metri e mezzo, il capo dello Stato ha speso parole importanti anche sul ruolo dell’Italia, tenendo presente il contesto che si determinerà dal nuovo trattato dell’Ue: «L’Italia è presente in tutte le aree di crisi del mondo e fra pochi giorni un generale italiano assumerà il comando della regione di Kabul. In Iraq, l’Italia ha fatto la sua parte nell’aiutare la stabilizzazione e nel dare il suo contributo ai programmi Nato di formazione della democrazia. Come è innegabile il miglioramento della situazione dal punto di vista della sicurezza in quel paese».
Non è solo un doveroso omaggio ai nostri militari, ma è qualcosa di più. Il Quirinale, in una situazione confusa in cui anche la politica estera potrà entrare nella verifica prossima ventura, ricorda con efficacia e fermezza gli impegni del nostro paese a livello internazionale, che non sono impegni di guerra. Anzi. Tenerli a mente sarà un esercizio utile per chi vorrà fare ammuina.

Dal FOGLIO un articolo di David Frum  che riporta alla realtà della minaccia rappresentata dal regime iraniano. E al principio morale della difesa della libertà,  anche per i popoli del Medio Oriente. 

Le nuove stime dei servizi segreti sull’Iran non cambiano nulla e allo stesso tempo cambiano tutto. La scorsa settimana l’amministrazione Bush ha reso note ampie parti dell’ultima National Intelligence Estimate sul programma nucleare iraniano. La conclusione raggiunta è la seguente: l’Iran ha interrotto il suo programma di armamento nucleare nel 2003. Secondo il Nie, tuttavia, rimangono ancora molte ragioni per essere preoccupati. L’Iran potrebbe rimettere in funzione il programma in qualsiasi momento. Inoltre, si continuano attività di arricchimento dell’uranio fino a livelli che potrebbero servire come carburante per la costruzione di un ordigno atomico. Comunque, il Nie si è spinto troppo oltre nel suo tentativo di placare l’atmosfera di minaccia suscitata dalla prospettiva di un Iran dotato di bombe atomiche. Il problema del nucleare iraniano rimane, anche se può non essere di urgenza immediata. Alcuni hanno posto in dubbio il valore delle valutazioni del Nie. Lo spionaggio, naturalmente, è un’arte molto imperfetta. Le agenzie di intelligence spesso hanno pregiudizi istituzionali. La Cia, in particolare, ha condotto un’insurrezione prolungata contro l’amministrazione Bush lasciando trapelare una serie di notizie negative nei momenti più opportuni. Ma il Nie non è un prodotto della Cia. Il Nie rappresenta l’opinione consensuale delle sedici agenzie nazionali di intelligence. I dati presenti in questo rapporto sembrano fare grande affidamento sulle informazioni fornite da Ali Reza Asgari, il viceministro della Difesa iraniano fuggito in esilio negli Stati Uniti nel febbraio 2007. Sarebbe davvero poco saggio e addirittura irresponsabile considerare questo rapporto come l’opera di seccati oppositori politici interni. Il Nie costituisce un fatto politico fondamentale che renderà impossibile all’amministrazione Bush lanciare un attacco contro gli impianti nucleari iraniani. Ora, in un certo senso, questo non cambia nulla. Lasciando da parte la retorica delle parole, l’amministrazione Bush (come io stesso ripeto ormai da diciotto mesi) non ha mai avuto alcuna vera intenzione di attaccare gli impianti nucleari iraniani. Il nuovo rapporto dell’intelligence non fa quindi che rendere politicamente impossibile qualcosa che non sarebbe comunque mai accaduto. Ciononostante, il Nie cambia tutto. Finché il mondo continuava a credere che gli Usa potessero lanciare un attacco contro l’Iran, nessuno dava molto peso al fatto che l’amministrazione non ha quasi mai messo in campo una seria politica non militare per affrontare il problema della Repubblica islamica. Ma ora che l’opzione militare è stata levata dal tavolo, il mondo si accorge improvvisamente che su questo tavolo non c’è praticamente nient’altro. Per colmare questo vuoto sono fioccate migliaia di proposte politiche. Però, ben poche di queste proposte contengono una chiara visione di ciò che l’occidente deve ottenere in Iran.
Il problema non sta nelle armi del regime iraniano ma nello stesso regime. Anche senza armi atomiche, l’Iran sostiene il terrorismo in tutto il mondo. Tra il 1992 e il 1996 ha scatenato una violenta offensiva terroristica, compiendo attentati che hanno provocato la morte di circa duecento persone in Argentina, Germania e in una base americana in Arabia Saudita. La campagna terroristica è stata interrotta dopo il 1996 e ripresa nel 2001, questa volta scegliendo come obiettivi prima Israele e poi l’Iraq e l’Afghanistan. L’idea che con questo regime si possa arrivare a un qualche genere di accordo appare del tutto irrealistica. L’obiettivo occidentale deve essere piuttosto quello di aprire una breccia fra il regime iraniano e la sua disaffezionata popolazione, come aveva fatto l’amministrazione Reagan allo scopo di isolare e screditare i regimi comunisti dell’est europeo negli anni Ottanta. Questo significa rassicurare la popolazione iraniana sul fatto che gli Stati Uniti non intendono in alcun modo attaccarla, esercitando allo stesso tempo forti pressioni economiche sul regime e sostenendo i movimenti politici dissidenti. Malgrado l’aumento dei prezzi petroliferi, il regime iraniano si trova in grave difficoltà sul piano economico (e questa potrebbe essere una delle principali ragioni per cui ha sospeso il proprio costoso programma di sviluppo nucleare). I salari sono ristagnanti, l’inflazione sta crescendo, la disoccupazione aumenta e mancano scorte di benzina. Gli investitori stranieri evitano di impegnarsi in Iran non soltanto a causa delle sanzioni economiche ma anche perché il paese non offre un ambiente sicuro e affidabile. Con il petrolio a cento dollari al barile, il regime iraniano può probabilmente permettersi di comprarsi un sufficiente sostegno per continuare a sopravvivere. Ma, una volta risultato chiaro che gli Usa non hanno alcuna intenzione di intraprendere una guerra contro l’Iran, questo prezzo dovrebbe scendere. Con il petrolio a 60, 50, 40 dollari al barile, anche il regime diventa meno stabile, la popolazione sempre più agitata e le prospettive di un cambiamento sempre più concrete. Il cambiamento dovrebbe essere l’obiettivo primario della politica americana. La pressione economica e la propaganda devono essere i suoi metodi. Un “grande accordo” è il binario morto che bisogna evitare. E la guerra dev’essere vista per quello che sempre è: il segno di un fallimento politico anziché una tattica da seguire per l’incapacità di immaginare soluzioni migliori.

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