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Il Riformista - L'Unità Rassegna Stampa
06.12.2007 National Intelligence Estimate: le reazioni israeliane
che ribadiscono il pericolo dell'atomica iraniana

Testata:Il Riformista - L'Unità
Autore: Anna Momigliano - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «E ora Israele chiede uno scudo anti-Iran - «Teheran resta una minaccia»

Dal RIFORMISTA del 6 dicembre 2007, un articolo di Anna Momigliano:

L’amministrazione americana ha le mani legate. L’attacco all’Iran, quello che forse Bush avrebbe voluto per chiudere in bellezza il proprio mandato, sembra sempre più improbabile. Certo, il presidente americano insiste a dire che tutte le opzioni sono aperte, ma la National Intelligence Estimate (il dossier degli 007 sul “programma atomico che non c’è più”) è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: senza le risorse economiche, e con una credibilità tanto ridotta, il margine di manovra è davvero minimo. Resta da chiedersi che sarà della questione iraniana, che cosa faranno gli americani, ora che l’attacco sembra un’opzione da scartare. La vera incognita, e su questo concorda la maggior parte degli osservatori, è Israele.
A Gerusalemme sono infuriati, si sentono abbandonati dagli americani, colpevoli di avere permesso che il senso di urgenza si abbassasse su una questione che per Israele è di vita o di morte. Ieri, scrive Yediot Ahronot, il ministro degli Esteri Tzipi Livni ha chiamato i suoi a raccolta, ordinando di lanciare un’offensiva diplomatica per convincere gli Usa e la comunità internazionale che l’allarme c’è, eccome. Ma se questa linea, come sembra possibile, dovesse fallire? C’è chi crede che Israele potrebbe andare avanti per la sua strada, attaccare da solo, se necessario anche contro il parere degli States. Altri credono invece che Gerusalemme stia chiedendo una contropartita agli Stati Uniti: maggiori garanzie militari difensive, uno scudo antimissile di ultima generazione, come risarcimento dell’“abbandono” sull’Iran. A guardare i fatti, ci sono alcuni elementi che fanno pensare in questa direzione. Chi si aspetta un’apertura diplomatica di Washington a Teheran potrebbe però rimanere deluso: «Con gli iraniani si può fare solamente un accordo di tutto campo», commenta il direttore di Limes Lucio Caracciolo, «non si può trattare su un dossier unico, per esempio l’Iraq». Condi Rice docet: è dal 2005 che tenta un dialogo sottotraccia sull’Iraq, e non ha ottenuto molto. «Ma questo gli americani non se lo possono permettere», prosegue Caracciolo, «per loro il problema è il regime, non la bomba, non possono legittimare Teheran come unica potenza del golfo. Del resto, non possono neanche attaccare. Adesso si sta aprendo un periodo di riflessione, ma per il momento Washington ha le spalle al muro, il dossier passerà al prossimo presidente». Per Israele, la questione è diversa: «L’Iran rappresenta un rischio talmente grande che potrebbero decidere di attaccare da soli». Se fosse l’ultima spiaggia.
Il problema è che la marcia indietro americana ha bruciato la carta di un attacco preventivo: l’aviazione israeliana, per quanto efficiente, «non è in grado di compiere uno strike aereo da solo», spiega Giampiero Giacomello, docente di Studi strategici a Bologna che in questi giorni si trova negli Usa. Infatti: «Un attacco preventivo serve solamente se si è certi di colpire tutti gli obiettivi. Gli iraniani, che non sono degli sprovveduti, si sono difesi creando un programma ampio (si parla di almeno 20-30 siti) e molto distribuito sul territorio. Se si calcola che per colpire un sito servono almeno 10 o 20 aerei, basta poco a fare il calcolo che Israele non ce la può fare senza un aiuto esterno». Ma la preoccupazione resta, e a ragione: «Israele è un paese piccolo, un attacco a sorpresa ben riuscito potrebbe raderlo al suolo». Restano due risorse: la minaccia di una ritorsione nucleare devastante nel caso l’Iran attacchi e distrugga Israele («Muoia Sansone con tutti i Filistei», scriveva Seymour Hersh proprio sull’atomica israeliana), nel contempo si può rafforzare la difesa.
Sono anni che Israele tenta di lavorare a uno scudo antimissilistico stratificato, un progetto ambizioso che doveva coinvolgere gli Usa e pure l’Italia, anche se poi il ministero della Difesa non ha sbloccato le procedure: «Immaginatevi uno scudo stellare in scala ridotta», spiega al Riformista uno degli italiani che ha seguito il progetto nelle prime fasi. Finora gli Stati Uniti sono stati parchi, in termini di fondi ma soprattutto di travaso tecnologico. Del resto, è un momento di crisi per la cooperazione tra le difese americane e israeliane: Gerusalemme non ha molto gradito che Washington sta aumentando il finanziamento delle difese di alcuni paesi arabi. Così come ora non ha gradito l’ammorbidimento sull’Iran: lo sblocco dello scudo anti-missile potrebbe aiutare a inghiottire il boccone amaro. Il ministro della Difesa Ehud Barak è già stato a Washington per battere cassa.

Da L'UNITA', un' intervista Matan Vilnai,  vice ministro della Difesa israeliano:

«Il mondo non può accettare che l’Iran divenga una potenza nucleare. Di certo, non potrà accettarlo Israele». Un messaggio lanciato alla Comunità internazionale e, in particolare, agli Stati Uniti. «Abbiamo apprezzato le parole del presidente Bush ma resta il fatto che quel rapporto può ingenerare l’idea che la minaccia iraniana non è poi così preoccupante. Quel rapporto è già è servito al regime iraniano per cantare vittoria». A parlare è il vice ministro della Difesa israeliano, Matan Vilnai, eroe di guerra ed esponente di primo piano del partito laburista.
Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad canta vittoria dopo la pubblicazione del rapporto delle 16 agenzie di intelligence Usa. E Israele?
«Israele non può che ribadire preoccupazioni che non dovrebbero essere solo nostre. Perché un Iran fondamentalista in possesso dell’arma atomica è una minaccia per l’intero Medio Oriente. Detto questo, ritengo che su quel rapporto si stia facendo una confusione voluta, dettata da motivazioni che nulla hanno a che fare con la questione di merito…».
Su quale punto occorre a suo avviso ristabilire la corretta lettura del rapporto?
«Il punto è che non è affatto smentito, anzi è confermato che l’Iran può pervenire all’arma nucleare. È su questo che la Comunità internazionale deve riflettere ed esprimere una linea di condotta chiara».
Per Israele quale dovrebbe essere questa linea?
«Quella delle sanzioni. Coloro che leggono quel rapporto come "il pericolo non esiste", ne traggono la conseguenza che non c’è ragione per nuove e ancor più efficaci sanzioni. Per noi, è vero l’esatto opposto: la politica delle sanzioni ha mostrato la sua efficacia. Questa linea non solo non va sconfessata ma al contrario va rafforzata. Guai ad allentare la presa proprio adesso. Anche perché lo stesso rapporto non smentisce il fatto che l’Iran può raggiungere un’alta capacità tecnologica nucleare entro il 2009. È questo un punto chiave, discriminante. L’acquisizione di tecnologia nucleare rappresenta un passaggio cruciale, a partire dal quale l’Iran sarà in grado di produrre segretamente armi nucleari, senza essere sottoposto a ispezioni».
Cosa chiede Israele alla Comunità internazionale, in particolare agli Stati Uniti e all’Europa?
«Ciò che ribadiamo con forma è che un’azione coordinata e determinata è necessaria per indurire le sanzioni non scartando alcuna opzione…».
Neanche quella militare?
«Lo ripeto: nessuna opzione deve essere scartata a priori».
Resta il fatto che il rapporto del NIE ha provocato, per dirla con il titolo di un grande quotidiano di Tel Aviv, uno "shock" in Israele. Condivide questo sentimento?
«Certo che sì. Quel rapporto contraddice tutti i precedenti rapporti americani che riguardavano l’Iran. Siamo tutti nelle nebbie, ma ciò che è chiaro è che l’Iran sviluppa un programma militare nucleare di cui il 75% è nascosto e solo il restante 25% è pubblico. Basta e avanza per ritenere l’Iran una minaccia per l’intero mondo libero. Di certo, lo è per Israele».
Cosa significherebbe per Israele un alleggerimento della pressione su Teheran?
«L’Iran è una minaccia non solo per la volontà acclarata di dotarsi dell’arma atomica ma per il sostegno attivo fornito a gruppi terroristi come Hamas, Jihad islamica e agli Hezbollah libanesi. Mollare la presa significa concedere mano libera a coloro che puntano a destabilizzare il Medio Oriente facendone una immensa trincea jihadista dall’Iraq ai Territori al Libano».

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