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L'Unità - Il Manifesto - Il Messaggero - Europa - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
14.08.2007 Apertura di Prodi ad Hamas: il coro degli applausi
o delle giustificazioni che non convincono

Testata:L'Unità - Il Manifesto - Il Messaggero - Europa - La Stampa - La Repubblica
Autore: Umberto De Giovannageli - Rossana Rossanda - Eric Salerno - la redazione - un giornalista - Vanna Vannuccini - Sandro Viola
Titolo: «La strategia del dialogo - Un diaologo giusto - Hamas ringrazia Prodi - Hamas usa Prodi, la destra ne approfitta - Sia chiaro, il governo sta con Olmert e Abu Mazen - Hamas ringrazia Prodi - Il rischio di chiuderli nel ghetto di Gaza»

Sa pensate che Hamas sia un "movimento terrorista che avrebbe come sua unica ragione di essere la distruzione dello Stato d’Israele", siete poco seri.
Parola di Umberto De Giovannangeli sull'UNITA' del 14 agosto 2007.
U.d.g. non spiega perche Hamas non sarebbe ciò che le sue azioni, il suo statuto, le dichiarazioni dei suoi esponenti dicono che sia.
Ma cita Denis Ross,  l'ex inviato americano in Medio Oriente, secondo il quale "con Hamas, così come con Hezbollah, occorre ridefinire una nuova strategia politica che tenga conto dei caratteri peculiari di questi movimenti", la Commissione esteri del Parlamento britannico, per la quale
"il blocco dei fondi Ue all’Anp è stato «molto dannoso».", e Efraim Halevy, ex capo del Mossad, secondo il quale "«Israele deve trovare i canali per interloquire con Hamas se vuole impedire il rafforzamento nei Territori di una ideologia, e di una pratica, ancor più devastante: quella di Al Qaeda»"
La dichiarazione di Ross è estremamente vaga, non definisce la "strategia politca" che auspica.
La dichiarazione del parlamento europeo è sbagliata, pensare che Hamas dovesse essere finanziata e che così facendo la si sarebbe avviata sulla strada della moderazione è assolutamente irrealistico.
La dichiarazione di Halevy, al di là di ogni considerazione di merito, riguarda la politica israeliana. Chi oggi governa Israele, disponendo presumibilmente di maggiori informazioni rispetto a quelle in possseso di Halevy, non ritiene possibile il dialogo con Hamas. Auspicare che Israele possa in qualche modo riuscirci non significa giustificare la legittimazione pollitica  del movimento islamista da parte di altri governi.
Se vi è una possibilità che Hamas sia spinta a trattare con Israele, essa risiede nella fermezza con la quale la comunità internazionale saprà chiederele di abbandonare il terorrismo e l'ntransigenza.

Ecco l'articolo (dalla prima pagina):


«Israele deve trovare i canali per interloquire con Hamas se vuole impedire il rafforzamento nei Territori di una ideologia, e di una pratica, ancor più devastante: quella di Al Qaeda». A sostenerlo non è Romano Prodi. Ma un signore che per tutta la sua vita ha combattuto i peggiori nemici dello Stato ebraico: Efraim Halevy, ex capo del Mossad, il servizio segreto israeliano. L’isolamento di Hamas è stato «controproducente», mentre il blocco dei fondi Ue all’Anp è stato «molto dannoso». Ad affermarlo non è Romano Prodi, ma il rapporto sul Medio Oriente stilato dalla Commissione esteri del Parlamento britannico.
Un rapporto che si conclude invitando il premier Gordon Brown a «considerare urgentemente modi per impegnarsi politicamente con elementi moderati di Hamas». «Con Hamas, così come con Hezbollah, occorre ridefinire una nuova strategia politica che tenga conto dei caratteri peculiari di questi movimenti». A sostenerlo non è Romano Prodi, ma Dennis Ross, l’ex inviato speciale americano per il Medio Oriente. Halevy, Ross, i membri della Commissione esteri del Parlamento britannico: sono tutti nemici della pace, pericolosi antisionisti, quinte colonne di quella nebulosa jiahdista all’interno della quale tutto sarebbe eguale a se stesso, Al Qaeda, la Jihad Islamica, Fatah al-Islam, e Hamas e Hezbollah? Ed ora anche il premier italiano andrebbe arruolato a forza tra i sostenitori di un movimento terrorista - Hamas - che avrebbe come sua unica ragione di essere la distruzione dello Stato d’Israele, e che da questo macabro proposito trarrebbe il consenso che l’ha portato al governo dei Territori come risultante di libere elezioni? Non scherziamo, se è possibile. E non trituriamo un argomento terribilmente serio nelle sterili, e un po’ becere, polemiche politiche ferragostane. Dialogare anche con Hamas per far evolvere le sue posizioni: è quanto sostenuto da Prodi. E prima di lui anche da importanti esponenti politici israeliani e da giornali, non certo di ispirazione pacifista, come il «Jerusalem Post». Dov’è il “crimine”? Non considerare Hamas alla stessa stregua di Al Qaeda? Non ritenere che il consenso ad Hamas dimostri la trasformazione di un popolo, quello palestinese, in un esercito di “shahid”, martiri della Guerra Santa contro Israele? Romano Prodi e con lui il ministro degli Esteri Massimo D’Alema hanno operato una distinzione sostanziale tra “dialogo” e “negoziato”. Il dialogo, un dialogo critico, va tentato per cercare di imprimere una evoluzione positiva nelle posizioni di un movimento complesso, variegato al proprio interno, quale è Hamas. Un dialogo che non fa sconti sui contenuti, ma che riconosce l’esistenza di una controparte che non è liquidabile come una metastasi jihadisti da estirpare con la forza. Il negoziato è altra cosa, e non spetta certo all’Italia, come a nessun altro Paese al mondo, fare gli inviti. A negoziare, ha ribadito lo stesso Prodi, c’è, sul fronte palestinese, un solo attore: il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). E va ricordato, per amore della verità storica, che l’Abu Mazen sostenuto dal governo di centrosinistra è lo stesso leader che il passato governo di Silvio Berlusconi considerava una sbiadita fotocopia del “capo dei terroristi”: Yasser Arafat. Ma, ed ecco l’altro punto cruciale, lavorare per una evoluzione politica di Hamas aiuta o no gli sforzi di Abu Mazen? Non è solo Romano Prodi a ritenere che il dialogo critico con Hamas rafforzi la leadership moderata del presidente palestinese. Da qui l’insistenza per una iniziativa internazionale che eviti una catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza. Perché è sulla rabbia e la frustrazione che puntano i signori del Jihad per reclutare nuovi “martiri” nelle proprie fila. Così come è sostenere Abu Mazen, nei fatti e non a chiacchiere, rispondere positivamente all’appello rivolto dalle pagine de «l’Unità» all'Italia dal primo ministro palestinese, Salam Fayyad, perché si faccia promotrice in Europa e alle Nazioni Unite della messa a punto di un “Piano Marshall” per la Palestina. Mettere in campo una politica che eviti di far cadere Hamas nelle braccia di Al Qaeda: non è una petizione di principio. È molto di più. È la sfida che l’Italia intende affrontare in terra di Palestina. Come ha fatto una estate fa in Libano.

Rossana Rossanda sul MANIFESTO riesce a sostenere che Israele non ha in realtà nulla da temere, se non da se stessa (nèdal terrorismo, né dall'Iran, né dai propositi di distruggerla, ma solo dalla sua volontà di autodifesa) e che Hamas non ha "nulla  in comune coi terroristi islamici" essendo un "movimento di resistenza esclusivamente palestinese".
Ecco il testo (dalla prima pagina):

Un rapporto che si conclude invitando il premier Gordon Brown a «considerare urgentemente modi per impegnarsi politicamente con elementi moderati di Hamas». «Con Hamas, così come con Hezbollah, occorre ridefinire una nuova strategia politica che tenga conto dei caratteri peculiari di questi movimenti». A sostenerlo non è Romano Prodi, ma Dennis Ross, l’ex inviato speciale americano per il Medio Oriente. Halevy, Ross, i membri della Commissione esteri del Parlamento britannico: sono tutti nemici della pace, pericolosi antisionisti, quinte colonne di quella nebulosa jiahdista all’interno della quale tutto sarebbe eguale a se stesso, Al Qaeda, la Jihad Islamica, Fatah al-Islam, e Hamas e Hezbollah? Ed ora anche il premier italiano andrebbe arruolato a forza tra i sostenitori di un movimento terrorista - Hamas - che avrebbe come sua unica ragione di essere la distruzione dello Stato d’Israele, e che da questo macabro proposito trarrebbe il consenso che l’ha portato al governo dei Territori come risultante di libere elezioni? Non scherziamo, se è possibile. E non trituriamo un argomento terribilmente serio nelle sterili, e un po’ becere, polemiche politiche ferragostane. Dialogare anche con Hamas per far evolvere le sue posizioni: è quanto sostenuto da Prodi. E prima di lui anche da importanti esponenti politici israeliani e da giornali, non certo di ispirazione pacifista, come il «Jerusalem Post». Dov’è il “crimine”? Non considerare Hamas alla stessa stregua di Al Qaeda? Non ritenere che il consenso ad Hamas dimostri la trasformazione di un popolo, quello palestinese, in un esercito di “shahid”, martiri della Guerra Santa contro Israele? Romano Prodi e con lui il ministro degli Esteri Massimo D’Alema hanno operato una distinzione sostanziale tra “dialogo” e “negoziato”. Il dialogo, un dialogo critico, va tentato per cercare di imprimere una evoluzione positiva nelle posizioni di un movimento complesso, variegato al proprio interno, quale è Hamas. Un dialogo che non fa sconti sui contenuti, ma che riconosce l’esistenza di una controparte che non è liquidabile come una metastasi jihadisti da estirpare con la forza. Il negoziato è altra cosa, e non spetta certo all’Italia, come a nessun altro Paese al mondo, fare gli inviti. A negoziare, ha ribadito lo stesso Prodi, c’è, sul fronte palestinese, un solo attore: il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). E va ricordato, per amore della verità storica, che l’Abu Mazen sostenuto dal governo di centrosinistra è lo stesso leader che il passato governo di Silvio Berlusconi considerava una sbiadita fotocopia del “capo dei terroristi”: Yasser Arafat. Ma, ed ecco l’altro punto cruciale, lavorare per una evoluzione politica di Hamas aiuta o no gli sforzi di Abu Mazen? Non è solo Romano Prodi a ritenere che il dialogo critico con Hamas rafforzi la leadership moderata del presidente palestinese. Da qui l’insistenza per una iniziativa internazionale che eviti una catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza. Perché è sulla rabbia e la frustrazione che puntano i signori del Jihad per reclutare nuovi “martiri” nelle proprie fila. Così come è sostenere Abu Mazen, nei fatti e non a chiacchiere, rispondere positivamente all’appello rivolto dalle pagine de «l’Unità» all'Italia dal primo ministro palestinese, Salam Fayyad, perché si faccia promotrice in Europa e alle Nazioni Unite della messa a punto di un “Piano Marshall” per la Palestina. Mettere in campo una politica che eviti di far cadere Hamas nelle braccia di Al Qaeda: non è una petizione di principio. È molto di più. È la sfida che l’Italia intende affrontare in terra di Palestina. Come ha fatto una estate fa in Libano.

Anche Eric Salerno sul MESSAGGERO ( Hamas ringrazia Prodi Israele siamo preoccupati, pagina 5) presenta positivamente la posizione di Prodi, descrivendo un Hamas pronta al diaolgo con la comunità internazionale e "pentita" per la presa di potere a Gaza, in contrastto con l'intransigenza di Israele e con la repressione degli islamisti ordinata da Abu Mazen in Cisgiordania, presentata come brutale.

EUROPA sceglie un curioso modo di affrontare la vicenda: la negazione dell'importanza politica delle parole di Prodi, sulla base della distinzione di Sircana  tra "dialogo" e " negoziato" (Hamas usa Prodi, la destra ne approfitta e gioca un po', pagina 1)

Ecco il testo:

Applausi da Hamas, gelo da Israele.
L’invito al dialogo lanciato da Romano Prodi raccoglie la soddisfazione dell’organizzazione islamica, ma viene duramente criticato dal direttore generale del ministero degli esteri israeliano, Aaron Abramovich che lo definisce «preoccupante» perché «giustifica il timore di Israele circa una progressiva erosione nella posizione europea di chiusura a Hamas fino a quando questo non avrà riconosciuto il diritto di Israele alla sua esistenza».
Una polemica, quella su Hamas, che irrompe nella pausa estiva della politica suscitando l’indignazione dell’opposizione, che chiede al premier di riferire subito in parlamento su questo nuovo «caso internazionale ». Prodi, però, oltre al sostegno della sinistra di governo, incassa anche l’appoggio, a distanza, della commissione esteri del parlamento inglese che proprio ieri ha pubblicato un rapporto sul Medio Oriente nel quale definisce un «errore» il rifiuto della Gran Bretagna e della Ue di dialogare con Hamas.
Nel tardo pomeriggio il portavoce del premier Sircana puntualizza che Prodi ha detto che «con Hamas è necessario lasciare aperto un canale di dialogo, che è cosa ben diversa dal negoziato, portato avanti da Olmert, da Abu Mazen e dal Quartetto».

Secondo Gianni Vernetti sottosegretario agli Esteri della Margherita, intervistato dalla STAMPA la posizione del governo italiano sarebbe la stessa dell'Europa:  "prima di ogni apertura, Hamas deve riconoscere lo stato di Israele, rinunciare al terrorismo e rispettare gli accordi di pace già conclusi".
 Hamas ha dato l'interpretazione opposta: il suo portavoce ha visto nelle dichiarazioni di Prodi il successo della linea di rifiuto di qualsiasi riconoscimento di Israele.
Ecco il testo:

«Dicendo che la speranza è “che Hamas possa evolversi”, Romano Prodi ha espresso solo un auspicio. Su questo punto non ci debbono essere fraintendimenti». Per il sottosegretario agli Esteri, Gianni Vernetti (della Margherita e considerato tra i più vicini a Israele), le polemiche di questi giorni sono una forzatura e a chi accusa il centrosinistra di tenere una politica «ambigua» sul Medio Oriente risponde che «alla fine a contare sono i fatti».
E quali sarebbero questi «fatti»?
«Prodi è stato il primo leader occidentale a recarsi a Sderot, la cittadina israeliana colpita dai missili Qassam lanciati da Hamas. E il nostro sostegno al premier israeliano Olmert e al presidente palestinese Abu Mazen è pieno».
Ma non negherà che nel governo ci siano diverse sensibilità. Il ministro degli Esteri, D’Alema, aveva sostenuto la necessità di un dialogo con Hamas. Mentre Fassino è di tutt’altro avviso...
«La posizione del governo italiano è la stessa dell’Europa: prima di ogni apertura, Hamas deve riconoscere lo stato di Israele, rinunciare al terrorismo e rispettare gli accordi di pace già conclusi».
Ma la Knesset, il Parlamento israeliano, non ha apprezzato.
«La posizione di Prodi non è cambiata, l’obiettivo è quello di sempre: due popoli, due Stati. Anzi, due Stati e due democrazie, perché senza democrazia non c’è pace, come dimostra il colpo di Stato di giugno a Gaza di Hamas».
Non sarà che Prodi ha fatto quelle dichiarazioni per compiacere la sinistra radicale, notoriamente filopalestinese?
«No. Non credo».

Vanna Vannuccini  su REPUBBLICA non fa una cronaca delle reazioni israeliane e palestinesi alle dichiarazioni di Prodi, ma dedica gran parte del suo articolo a riportare le parole di Mustafa Barghouti, leader del partito "Inaziativa palestinese", vicino ad Hamas, ma con un immagine di moderatismo.
Un evidente tentativo di falsare la realtà politica palestinese.

RAMALLAH - Mustafa Barghouti, capo di Al Mubadara, "Iniziativa palestinese", partito moderato che ebbe quasi il 30 per cento dei voti alle elezioni, dà ragione a Prodi. «L´Unione europea decise il blocco dei finanziamenti aspettandosi di provocare il crollo di Hamas, così come ora pensa di poter rafforzare la parte più debole, Fatah, e ignorare Hamas. Ma i risultati sono stati l´inverso. Hamas si è rafforzato ed è diventato più radicale», spiega Barghouti. «Il governo di unità nazionale era un implicito riconoscimento dello Stato di Israele da parte di Hamas. Il 70 per cento della popolazione palestinese vuole la pace, ed è contro i kamikaze, anche se ha votato per Hamas perché lo considerava meno corrotto. La strategia israelo-americana è di isolare Hamas e rafforzare Abu Mazen nella West Bank. Ma Hamas farà di tutto per sabotare questo tentativo, soprattutto se si sente messo alle strette. E chi potrà fare un accordo con Abu Mazen, finché non si sa chi abbia il controllo del territorio? Lo stesso primo ministro Fayyad ha ammesso che in questo momento Fatah non può assicurarlo». Barghouti è un medico che è stato ministro dell´Informazione nel governo di unità nazionale e si sta adoperando per tentare una riconciliazione tra Fatah e Hamas.
«Lasciare Gaza al suo destino può sembrare conveniente agli israeliani perché rinunciando a 1,3% della Palestina storica si liberano del 30 per cento dei palestinesi e non hanno più lo spauracchio di diventare minoranza il giorno che decidessero di fare un unico Stato binazionale. Ma Gaza è dentro il sistema. Quello che invece dobbiamo fare noi palestinesi , e il mondo dovrebbe aiutarci, è riorganizzare la nostra battaglia su una visione politica realistica, e su questa visione realistica competere con Hamas».
Preoccupazione invece è stata la reazione ufficiale a Gerusalemme. Il governo israeliano è stupito che si sostenga l´opportunità di un dialogo con Hamas, ha detto il direttore generale del Ministero degli esteri Abramovich. Le dichiarazioni di Prodi «confermano il timore di una erosione della chiusura europea nei confronti di Hamas». Già la decisione di boicottare Hamas fu molto controversa nella Ue. «Hamas non deve essere premiato per ciò che ha fatto a Gaza: non c´è motivo che la comunità internazionale lo premi con un negoziato», ha detto Abramovich. Ma molti commentatori in Israele dissentono. È vero che in questi giorni è ripresa tra Olmert e Abu Mazen l´attività diplomatica, incoraggiata da Bush. Ma purtroppo «la diplomazia che premia i buoni e punisce i cattivi funziona solo nei film» dice Alon Liel, ex direttore generale del Ministero degli Esteri ed ex ambasciatore in Turchia. «La conferenza internazionale proposta da Bush lascia scettici, perché gli americani vogliono invitare solo i buoni. Non ha senso lasciar fuori Hamas e la Siria. Si fa tanto clamore perché parteciperà l´Arabia Saudita, ma non è con i sauditi che si può discutere di confini nella West Bank. Alon Liel è il promotore di un´iniziativa per «dialogare con la Siria». «Bashar Assad cerca il dialogo» racconta. «Dal 2004 all´estate negoziati segreti hanno portato all´85 per cento dell´accordo. Poi i siriani hanno chiesto una presenza americana alle trattative e Washington ha detto no».
«Prodi ha parlato di lasciare aperto un canale di dialogo, non di negoziato» precisa il portavoce del governo Sircana. «Ad Hamas sono stati posti dei paletti ben precisi, quali il riconoscimento dello Stato di Israele e la fine del terrorismo». Da Gaza, Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, risponde al telefono: «Noi abbiamo accettato e accetteremo la soluzione di due Stati, con uno Stato palestinese nei confini del ‘67, ma definiamo questo come una lunga tregua durante la quale negoziare in pace gli accordi tra noi e gli israeliani. Chiederci di riconoscere Israele prima è un assurdo: non è mai successo nella storia che siano gli occupati a dare legittimità agli occupanti. Voi europei chiamate quello che è successo a Gaza un "coup militaire", ma noi abbiamo il governo e la maggioranza parlamentare. Quello che è successo è che i servizi di sicurezza di Abbas hanno commesso tanti reati contro di noi che siamo stati costretti a reagire. Ma se Abbas è pronto a riformare gli apparati di sicurezza noi siamo interessati a trovare un´intesa con Fatah».

Sandro Viola firma un editoriale nel quale  dà la colpa a Israele del successo di Hamas. Perché in passato avrebbe sostenuto troppo poco Abu Mazen e oggi lo sosterrebbe troppo.
Si tratta di illazioni inverificabili, e che sembrano confutarsi da sole.
Tuttavia, a dispetto del cedimento all'impulso di accusare Israele per qualsiasi cosa accada in Medio Oriente, l'articolo di Viola contiene un raro frammento di lucidità. Con Hamas, puntualizza il commentatore, non certo annoverabile tra i fanatici filo-israeliani, si potrà trattare solo dopo il riconoscimento di Israele.

Ecco l'articolo:

La prima osservazione da fare su quanto Romano Prodi ha detto l´altro giorno sull´opportunità d´aprire il dialogo con Hamas, è un´osservazione di metodo. C´è nel governo italiano, infatti, la tendenza a parlare delle questioni internazionali con la stessa imperterrita disinvoltura, la stessa mancanza di coordinamento con cui i ministri s´ergono ogni giorno a dire la loro, la loro soltanto, senza mai preoccuparsi della confusione e cacofonia che ne derivano. Il governo ha un suo portavoce ufficiale, il signor Silvio Sircana, ma è come se non l´avesse.
Mastella e Di Pietro, Diliberto, Mussi e Giordano, Parisi e D´Alema esternano senza posa le loro riserve sull´operato del governo, suscitando sconcerti e soprassalti – quando non si tratta di bufere – all´interno della coalizione. I tanti richiami all´ordine non hanno mai avuto effetto, e il ruolo del signor Sircana s´è andato facendo sempre più virtuale, nominale, decorativo. Con la questione palestinese, la critica, pericolosa spaccatura Fatah-Hamas, succede più o meno lo stesso. Oggi parla Fassino, domani D´Alema, dopodomani uno di Rifondazione, e il giorno dopo Prodi. Il ministro degli Esteri D´Alema, uno che per il suo ufficio dovrebbe sapere meglio d´altri quando, come e dove parlare, aveva sostenuto la necessità di contatti con Hamas proprio lo stesso giorno in cui entrava in carica come negoziatore dell´Unione europea per il Medio Oriente, Tony Blair. Non tre giorni prima, non tre giorni dopo, in modo da evitare l´impressione d´una interferenza nel lavoro del negoziatore incaricato. No, lo stesso giorno. E infatti sembra che Blair e i suoi fossero rimasti sbalorditi dalla sortita del nostro ministro degli Esteri.
Ma espressa la riserva sul metodo, e passando alla sostanza delle parole di Prodi, è vero che con Hamas bisognerebbe, se e quando sarà possibile farlo, tentare un´apertura di dialogo. Del resto, si tratta di un´opinione diffusa. In modo più formale, politicamente meno arruffato di quanto non avvenga a Roma, la Commissione affari esteri del Parlamento inglese ha infatti pubblicato ieri un documento in cui si parla dei rischi che possono venire dall´isolamento degli islamisti di Hamas. E inoltre si sottolinea l´errore commesso dall´Unione europea nei mesi scorsi, quando ancora esisteva il governo di coalizione Hamas-Fatah, nel rifiutare una completa ripresa degli aiuti economici all´Autorità nazionale palestinese.
Il che coincide poi con quel che si legge da tempo sulla stampa "liberal" israeliana, vale a dire la pericolosità dell´illusione nutrita dal governo Olmert di poter chiudere Hamas nel ghetto di Gaza, aspettando che la fame e magari le epidemie inducano alla resa il partito islamico. E coincide anche con quanto sostiene Amos Oz, una delle voci più prestigiose ed autorevoli della società israeliana, riecheggiando una famosa frase di Rabin: è con gli avversari, che bisogna parlare.
Dunque, un tentativo di dialogare con Hamas andrebbe fatto. La situazione com´è adesso in Palestina appare infatti precaria, aperta più a nuove convulsioni che ad un fruttuoso negoziato di pace. L´appoggio degli Stati Uniti e del governo israeliano al presidente dell´Autorità palestinese, Mahmud Abbas, è venuto – questo è il punto – troppo tardi. In quanto leader della corrente più moderata del nazionalismo palestinese, Abbas andava sostenuto già nel 2005, al momento del ritiro israeliano da Gaza. Ma Sharon non volle riconoscergli alcun ruolo e rappresentatività, sicché il ritiro avvenne come decisione "unilaterale" d´Israele e non come lo snodo d´una trattativa con i palestinesi. Più o meno lo stesso, nonostante un paio d´incontri privi di vero contenuto concessi da Olmert dopo l´uscita di scena di Sharon, è stato l´atteggiamento del governo israeliano sino a quando a Gaza non è scoppiata la faida tra Hamas e Fatah.
E le conseguenze le vediamo oggi. Cacciato da Gaza, ma improvvisamente e vistosamente sostenuto dagli americani e da Israele, Mahmud Abbas appare suo malgrado, agli occhi d´una gran parte del suo popolo, come un alleato di coloro che i palestinesi considerano i responsabili della storica ingiustizia subita con i quarant´anni dell´occupazione israeliana: vale a dire Israele e gli Stati Uniti. Di colpo, infatti, sono venuti ad Abbas le armi e i finanziamenti che gli erano stati negati sino a ieri, Di colpo, si sono susseguiti gli incontri tra lui e Olmert. Di colpo s´è cominciato a parlare d´una conferenza sulla questione israelo-palestinese da tenere in America il prossimo autunno.
Non è pertanto difficile immaginare, sullo sfondo delle frustrazioni ed umiliazioni del nazionalismo palestinese, l´impressione che può dare a Gaza – ma anche in Cisgiordania – questo subitaneo, affannoso avvicinamento ad Abbas e a Fatah dei suoi ex avversari. L´effetto che può fare l´accusa di collaborazionismo lanciata da Hamas, visto che in Cisgiordania la caccia agli estremisti islamici viene condotta dalle milizie di Fatah con l´assistenza dei servizi d´informazione israeliani. Insomma, l´abbraccio israelo-americano al presidente dell´Autorità palestinese rischia di rivelarsi disastroso.
Sì, un dialogo con Hamas – nonostante la sua vocazione terroristica – sarebbe necessario. Ma non prima che Hamas abbia fatto un passo, un suo primo passo, verso il dialogo. Questo deve essere chiaro. Deve essere detto a chiare lettere, ciò che non risulta invece nelle dichiarazioni dei politici italiani. E´ da Hamas che deve venire il segnale d´una sua disponibilità a trattare. Perché Hamas non riconosce l´esistenza d´Israele, non intende rinunciare alla violenza, e non accetta gli accordi intervenuti tra israeliani e palestinesi da Oslo in poi. Così, se dialogo ci dev´essere è dagli islamisti barricati a Gaza che dovrà venire un´apertura. Un´attenuazione della loro intransigenza. Altrimenti, intavolare una qualsiasi trattativa sarebbe come assecondarne l´estremismo. Chiarito questo, si vede bene come gli auspici di dialogo pronunciati dai governanti italiani nei loro luoghi di vacanza siano in buona parte incongrui, e comunque prematuri.

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