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Libero - Corriere della Sera - Avvenire - Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
30.06.2006 Israele arresta otto ministri di Hamas: una reazione legittima e necessaria all'aggressione terroristica
analisi e commenti

Testata:Libero - Corriere della Sera - Avvenire - Il Giornale - Il Foglio
Autore: Angelo Pezzana - Piero Ostellino - Graziano Motta - Massimo Introvigne - la redazione
Titolo: «Israele arresta otto ministri di Hamas - L'inutile appello - Assordante silenzio internazionale - Israele, la fine delle illusioni -Così Hamas ha spodestato Abu Mazen e ricompattato il fronte palestinese contro il dialogo avviato da Olmert»

Da LIBERO del 30 giugno 2006, un editoriale di Angelo Pezzana, "Israele arresta otto ministri di Hamas".
Ecco il testo:

 Da quando i terroristi palestinesi – sono terroristi, non li chiamiamo miliziani  - sono entrati in Israele dal confine di Gaza e hanno ucciso due soldati e rapito un terzo, il diciannovenne Ghilad Shalit, da quando il diciottenne Eliahu Asheri è stato rapito mentre faceva l’autostop per rientrare a casa domenica scorsa ed immediatamente assassinato con un colpo alla testa, assistiamo ad una descrizione dei fatti che ha dell’incredibile. Invece di chiederci fino a quando Israele potrà tollerare che i suoi giovani vengano barbaramente uccisi sul suolo nazionale, invece di capire quanta prudenza guidi il governo di Ehud Olmert nella lotta contro le brigate armate di Hamas, si sprecano i titoli che ancora rivolgono il dito accusatore verso la parte sbagliata. La difesa di Israele  diventa “feroce e violenta”,  il rapimento-uccisione del giovane autostoppista viene titolata “ucciso un colono rapito da miliziani palestinesi”, e invece dell’immagine della vittima le pagine dei giornali sono piene di fotografie dei capi di Hamas. Per Eliahu Asheri niente nome nè la sua immagine di diciottenne sorridente, era un colono e basta. Israele arresta esponenti del governo di Hamas, li arresta, si badi bene, non li elimina con un colpo alla nuca, li arresta perchè sono i responsabili di quel governo terrorista che ha dichiarato guerra allo Stato ebraico,  e l’atto viene definito “crudele, spietato, eccessivo”, come lascia intendere il viceministro Ungo Intini, al quale è stata data molto abilmente da D’Alema la delega al Medio Oriente. Con uno come lui, il nostro ministro degli esteri e con lui il governo Prodi, possono star sicuri che la famigerata politica di sottomissione ai paesi arabi, che fu ilsegno distintivo di Craxi, proseguirà immutata. Non sappiamo se per scelta ideologica o per ignoranza, ma ci chiediamo come Intini, nella sua intervista di ieri sul Corriere, possa complimentarsi con la politica di Arafat e ritirare fuori tutti i luoghi comuni contro le presunte colpe di Israele. Israele deve ritirarsi dai territori, ma se si ritira da Gaza sbaglia perchè l’uscita non è stata concordata. Olmert, di fronte alla mancanza di un interlocutore – che non potrà essere il governo Hamas che non riconosce l’esistenza di Israele – ha già dichiarato che procederà alla definizione dei confini con la Cisgiordania anche unilateralmente. Questo fatto obbligherà i palestinesi a rendersi conto che si troveranno di fronte ad un fatto compiuto. Avranno uno Stato e dovranno gestirlo. Mentre in Italia il duo D’Alema-Intini, accompagnati dal coro del governo Prodi, continueranno a cantarci la canzone “Israele mai sicuro senza uno Stato palestinese”, come titolava il Corriere ieri. E’ inutile, qualunque cosa faccia Israele non la fa mai giusta. Non dovrebbe rispondere se uccidono i suoi soldati, dovrebbe accettare i ricatti ( come ha sempre fatto l’Italia e l’Europa in genere) quando dopo aver rapito un soldato lo vogliono usare come merce di scambio. Non dovrebbe nemmeno proteggere la vita dei suoi cittadini, qualunque sia la risposta che darà sarà giudicata eccessiva, priva di comprensione. Ma se Putin ordina alle sue forze speciali di andare in Iraq, cercare i terroristi ( toh, guarda, in questo caso si scrive terroristi e non miliziani) che hanno sgozzato i quattro diplomatici russi a Bagdad e di eliminarli, nessuno fiata, nessuna voce si alza dal baraccone pacifista. Dal che si deduce che quello che è lecito a Putin non è nemmeno lontanamente pensabile che valga per Israele. Infine, lasciatecelo dire sinceramente, siamo stufi dei richiami alla pace, da qualunque parte vengano. Non sappiamo più che farcene delle buone intenzioni. Abbiamo davanti ai nostri occhi un paese democratico al quale viene negato, unico al mondo !, il diritto a difendersi, il diritto di combattere, senza dover chiedere scusa, i nemici che hanno come obiettivo la sua distruzione. Pazzesco ? Nient’affatto, è questa la misura con la quale deve continuare a confrontarsi Israele.

Di seguito, l'editoriale di Piero Ostellino, "L'inutile appello", a dalla prima pagina del CORRIERe della SERA del 30 giugno 2006:

L'appello che i ministri degli Esteri del G8 riuniti a Mosca hanno rivolto a Israele «a esercitare la massima moderazione nell'attuale crisi», sembra rientrare, formalmente, nella stessa ineccepibile logica che fa dire anche a un ebreo, intelligente osservatore della politica israeliana, che «questa nuova capacità di risposta israeliana (...) non può continuare a essere — come è stato purtroppo finora — il fondamento dei rapporti del popolo ebraico-israeliano con il popolo islamico-palestinese» (Vittorio Dan Segre: «Le metamorfosi di Israele», Utet-libreria, 222 pagine, 18 euro).
Ma può anche essere interpretato, sostanzialmente, con il fatto, indiscutibile, ma assai meno moralmente accettabile, che «gli interessi delle grandi potenze per motivi strategici, energetici e geopolitici sono molto più permanenti nei confronti del mondo arabo- islamico che del mondo ebraico- israeliano» (Segre, ibidem). Se, poi, si pone mente all'ostilità crescente europea nei confronti di Israele, all'antisemitismo riemergente in pressoché tutto l'Occidente, l'appello rischia di suonare inquietante non solo agli orecchi israeliani. Aver esortato, infine, «il governo palestinese a mettere fine alla violenza terrorista e a prendere immediate misure per liberare il soldato israeliano catturato» e, allo stesso tempo, Israele a «esercitare la massima moderazione»" nella sua risposta agli attacchi missilistici che le arrivano da Gaza evacuata, rischia di connotare come sbrigativamente pilatesche, e quindi sterili, le pur lodevoli intenzioni dei ministri degli Esteri del G8.
I nodi da sciogliere «nell'infinita ricerca della pace arabo-israeliana» non sono più gli stessi di prima dalla comparsa del terrorismo internazionale e del ruolo che esso svolge nel più complesso e generale conflitto fra il fondamentalismo e il radicalismo islamico e l'Occidente giudaico-cristiano. Israele, suo malgrado, è diventato il crocevia di tale conflitto e, di conseguenza, anche il maggiore laboratorio per la creazione di mezzi di prevenzione del terrorismo. Ma è diventato anche il Paese «che ha più necessità di riformare la sue strutture politiche e militari per adeguarsi alle nuove sfide» (Segre, ibidem). Gli si può chiedere, come ha fatto finora l'Occidente — con la sola alternante eccezione degli Stati Uniti — di farlo da solo? Evidentemente no, se non si vuole che la capacità di risposta militare rimanga il solo «fondamento» dei suoi rapporti con il mondo arabo-palestinese. Israele, lasciato solo, si difende come può: con la barriera difensiva e lo sgombero unilaterale di Gaza - le due grandi intuizioni di Ariel Sharon — ma anche col ritorno dei suoi carrarmati nella Striscia e i bombardamenti verso i campi dai quali partono i missili contro le sue città.
È, dunque, nel contesto strategico e politico del conflitto fra fondamentalismo e radicalismo islamico e Occidente giudaico-cristiano che va collocata «l'infinita ricerca della pace arabo-israeliana». E il nodo da sciogliere è, al tempo stesso, chiaro, ma anche estremamente complesso. «Non si può sperare che i palestinesi siano "più realisti del re" ed accettino di riconoscere il diritto di Israele sulla "loro" terra prima che il mondo arabo-islamico accetti l'esistenza di uno Stato "straniero" in terra d'Islam» (Segre, ibidem). Più che al governo palestinese e a quello di Israele è, perciò, al mondo arabo islamico che le grandi potenze dovrebbero rivolgere le loro esortazioni e, se necessario, esercitare la loro pressione diplomatica, politica e economica. L'impressione, in circostanze come queste, è che, invece, l'Occidente abbia troppo presto dimenticato che Israele è il solo Paese membro delle Nazioni Unite del quale un altro Paese membro (l'Iran) abbia auspicato la distruzione

"Assordante silenzio internazionale" è il commento di Graziano Motta pubblicato da AVVENIRE:

C'è una costante, una inveterata convinzione nella realtà del mondo arabo: se la parte che ha ricevuto un'offesa violenta non risponde in maniera altrettanto violenta, viene considerata debole, inetta e quindi deve colpire ancora. Come esiste la cosiddetta "legge del taglione" ebraica, quella del "dente per dente". Non sfuggono a queste considerazioni gli ultimi drammatici sviluppi nelle relazioni israelo-palestinesi. L'attacco portato dai guerriglieri di Gaza contro la postazione dell'esercito ebraico al di là della loro linea di separazione, con l'uccisione di due giovani soldati e la cattura di un terzo, non poteva non essere considerata come della massima gravità, e comportare una risposta nella logica dell'escalation. Da qui la penetrazione in forze nella Striscia di Gaza, da dove soldati e coloni si erano ritirati lo scorso settembre, nel tentativo dubbio di recuperare l'ostaggio. E, d'altra parte l'assassinio di un giovane studente di un collegio rabbinico reo solo di essere un "colono"della Cisgiordania, in una terra da entrambi rivendicata come propria. E ancora: l'attribuzione di precise responsabilità ai massimi livelli politici: interni palestinesi, con la conseguente "decapitazione" dei vertici di Hamas (deputati, ministri, sindaci) ed esterni arabi (con gli spettacolari passaggi degli aerei con la stella di Davide sul palazzo presidenziale del rais di Damasco): tutto per denunciare le palesi connivenze siriane con i fondamentalisti palestinesi di Hamas e della Jihad, libanesi dell'Hezbollah e iraniane. Alla evidente pretesa di togliere i veli dell'ipocrisia dallo scenario regionale non poteva non seguire l'inevitabile coinvolgimento della Lega Araba in una formale protesta, come se questa istituzione godesse di una reale compattezza. A smorzare le velleità dei contendenti, la loro acrimoniosa ascesi tra le volute dell'orgoglio, c'è una apparente indifferenza, anche se variegata, dei principali esponenti della comunità internazionale, la fredda perseveranza della Casa Bianca nel ribadire un sostegno pieno a Israele, a cui viene riconosciuto il sovrano diritto di difendersi; il realistico disegno del Cremino di tenersi al momento "fuori" e la discreta, ma inconsistente, vocazione dell'Unione europea nell'esortare le parti alla moderazione.

Il commento di Massimo Introvigne pubblicato dal Giornale è intitolato "Israele, la fine delle illusioni ":

«Illusioni distrutte» è il nome in codice dell'operazione nel corso della quale gruppi estremisti palestinesi hanno rapito tre israeliani, dopo averne uccisi due: un militare, un giovane colono (già ucciso), e un pensionato sessantenne. Il nome dell'operazione ne indica l'intento: distruggere l'illusione che una pace o almeno una tregua sia possibile dopo l'accordo fra Hamas e Fatah sul cosiddetto «documento dei prigionieri», preparato nelle carceri israeliane dal popolare leader di Fatah Marwan Barghouti e da un esponente di Hamas, Abdul Khaleq Natshe, che - sia pure con passaggi inaccettabili - contiene un riconoscimento implicito di Israele nei confini del 1967. L'operazione «Illusioni distrutte» - i cui ideatori e protagonisti vanno chiamati con il loro nome: assassini, terroristi e criminali - e la reazione del governo israeliano, che ha arrestato numerosi ministri e deputati di Hamas, mostrano che il dialogo non può neppure cominciare. Ma tra le «illusioni distrutte» ce ne sono anche molte dell'occidente, dell'Europa e dell'Italia. Anche se non è ancora chiaro chi ha rapito il militare - ci sono tre diverse rivendicazioni, e una è di Hamas - l'assassinio del giovane colono è stato rivendicato dai Comitati per la Resistenza Popolare, nati da una costola di Fatah, e il terzo rapimento dalle Brigate dei Martiri al-Aqsa, che di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, sono un'articolazione ufficiale. Lo schema secondo cui i nazionalisti laici di Abu Mazen sono «i buoni» e i fondamentalisti islamici di Hamas «i cattivi» nello scenario palestinese è definitivamente tramontato. Gli avvenimenti degli ultimi giorni dimostrano che Abu Mazen non conta nulla, controlla a stento il suo palazzo e che fra i suoi miliziani ci sono alcuni dei peggiori terroristi. Per quell'Europa che pensa che Abu Mazen «rappresenti» i palestinesi è davvero la fine delle illusioni. La decisione di Olmert di arrestare in massa ministri e parlamentari di Hamas è rischiosa, in quanto può far prevalere in Hamas l'ala estremista - rappresentata dal leader in esilio a Damasco Khalid Mashaal - rispetto a quella più disponibile alle trattative del leader incarcerato Nashte e del primo ministro Haniyeh. La strategia dell'ultimo Sharon era quella di dividere Hamas, negoziando in segreto con la sua ala «trattativista». Hamas è ormai troppo grande per essere abbattuta per via militare. D'altro canto, è possibile che la reazione israeliana salvi la vita di qualche ostaggio, che le milizie di Hamas sono in grado di liberare anche se non lo hanno rapito loro. Olmert ha ragione quando indica al mondo i mandanti dei rapimenti: la Siria (aerei israeliani hanno volato a lungo sul palazzo del presidente Assad a Damasco) e l'Iran. Un'altra illusione distrutta dell'occidente è che si possa risolvere il problema palestinese senza abbattere il regime siriano - gli ordini e i piani dei rapimenti sono partiti da Damasco -, e senza impostare una seria strategia di contenimento dell'aggressività iraniana, che non si limiti alle parole ma comporti anche ove necessario sanzioni economiche. Continuare a proclamare l'«amicizia» italiana verso la Siria e l'Iran, come fanno D'Alema e i suoi collaboratori, e definire la risposta di Israele «un crimine contro l'umanità» - così si sono espressi i Comunisti Italiani, parte integrante della coalizione di governo di Prodi - significa invece non avere capito che le illusioni sono finite e che la retorica anti-israeliana alimenta oggettivamente il terrorismo.

Di seguito l'analisi pubblicato in  prima pagina dal FOGLIO spiega : "Così Hamas ha spodestato Abu Mazen e ricompattato il fronte palestinese contro il dialogo avviato da Olmert"


Roma. L’esercito israeliano è fermo nella parte sud della Striscia di Gaza da martedì notte; ieri i soldati erano pronti a entrare anche al nord. Ci si aspettava un’avanzata, ma i carri armati sono rimasti fermi per ordine del premier Ehud Olmert. Il ministro della Difesa israeliano, Amir Peretz, che aveva autorizzato la terza fase dell’operazione “Pioggia d’estate”, ha rivelato che si potrebbe andare incontro, nelle prossime ore, a inaspettate svolte diplomatiche. Stati Uniti, Francia, Egitto, Vaticano mediano per trovare una soluzione per il rilascio del soldato ventenne sequestrato dai palestinesi nell’azione in cui sono stati uccisi altri due militari di Tsahal. Il “settler” rapito domenica, Eliahu Asheri è stato trovato morto in Cisgiordania, ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Fatah, partito di Abu Mazen, ha accusato Hamas di essere responsabile per aver imposto ai palestinesi l’azione israeliana. L’arresto dei tank, avvenuto ieri, sotto pressione del mediatore egiziano, ha fatto pensare all’ipotesi di una via negoziale. I bombardamenti sono andati avanti nella notte tra mercoledì e giovedì, e durante la giornata di ieri, anche vicino alla città di Gaza, raccontano fonti del Foglio. Non ci sono state vittime. Gli obiettivi dell’esercito sono stati ponti, una centrale elettrica, infrastrutture terroristiche e zone disabitate della Striscia. Nelle ultime ore gli aerei israeliani hanno lanciato volantini per chiedere alla popolazione palestinese di evacuare le aree in cui i militari stanno preparando attacchi, soprattutto le zone da cui partono i razzi Qassam palestinesi che da mesi colpiscono in territorio israeliano. Israele ha aperto un altro fronte, in Cisgiordania, con l’arresto, nella notte tra mercoledì e giovedì, di 64 deputati di Hamas, e una ventina di esponenti del gruppo.
I ministri degli Esteri del G8 da Mosca hanno criticato l’azione, soltanto gli Stati Uniti hanno ricordato il diritto d’Israele a difendersi. Il G8 ha inoltre chiesto ai palestinesi l’immediata liberazione del soldato e a Israele di esercitare il massimo della moderazione. La richiesta arriva dall’intera comunità internazionale, che sta già ipotizzando un’aggravarsi della crisi umanitaria in seguito all’azione militare. Negli ultimi giorni i vertici di Hamas hanno fatto incetta di finanziamenti esteri, entrati in modo illegale nei Territori palestinesi e raccolti grazie all’aiuto di paesi come Iran e Siria. Ora Hamas spera di sfruttare la situazione di crisi per ottenere un’apertura da parte della comunità internazionale, che finora ha rifiutato di dare aiuti diretti al governo a guida del movimento islamista messo al bando in Europa e Stati Uniti. I primi segnali di un possibile allentamento della linea dura si sono già visti ieri nelle dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema.

Provocazioni e finte aperture
Negli ultimi tempi la strategia politico-militare di Hamas si è delineata con chiarezza: alle provocazioni verso Israele, capaci di ricompattare il fronte interno – come i tentati attacchi al di fuori dei Territori e il continuo lancio di razzi Qassam – si sono susseguite cosmetiche aperture, mirate invece a edulcorare la posizione rigida assunta nei confronti dell’organizzazione dalla comuntà internazionale. Il culmine delle provocazioni è arrivato con il sequestro del soldato, una dichiarazione di guerra a Israele.
Poco dopo, Abu Mazen e Hamas hanno annunciato di aver raggiunto un accordo sul documento dei prigioneri palestinesi, un testo che implicitamente conterrebbe il riconoscimento d’Israele, ipotesi prontamente smentita dal gruppo islamico. L’intesa cancella il referendum che Abu Mazen aveva imposto e fissato per il 26 luglio. Hamas ha delegittimato così le velleità di controllo del rais, togliendogli l’arma del referendum. Mohammed Yaghi, del quotidiano al Ayyam, ha definto quella di Hamas la “strategia del vago” per mettere in trappola il rais. Senza il referendum, il presidente dell’Anp si trova privo di armi nella lotta di potere che vede protagoniste le fazioni. Da aprile, più di venti palestinesi sono rimasti uccisi in scontri intestini. La leadership dell’Anp è frazionata, ma i conflitti interni sembrano allentarsi soltanto contro le iniziative israeliane, come in queste ore.
La tattica di Hamas è chiara. Con l’attacco e poi il sequestro del soldato e l’inevitabile risposta militare di Gerusalemme, il gruppo ha ricompattato contro Israele il fronte interno palestinese, ha costretto il rais, che soltanto pochi giorni fa faceva colazione a Petra, in Giordania, con Olmert, a condannare Israele per l’operazione militare. Hamas ha anche ottenuto l’arresto, per ora temporaneo, del progetto del primo ministro israeliano di ritiro dalla Cisgiordania e ha vinto la battaglia mediatica: la comunità internazionale, infatti, accusa Israele di aggravare, attraverso l’azione militare, la crisi umanitaria. Il gruppo ha anche dimostrato la debolezza del rais su cui tutti puntavano: Abu Mazen non è in grado di restituire a Israele il soldato rapito.

Alla ricerca di un partner
Israele si è ritirato dalla Striscia di Gaza meno di un anno fa, sotto la guida dell’ex premier Ariel Sharon. Senza un partner con cui negoziare. Nei mesi immediatamente successivi i razzi Qassam non hanno smesso di colpire il territorio israeliano, da Gaza, ci sono stati attacchi suicidi contro civili e alle elezioni palestinesi ha vinto Hamas. Nonostante tutto, Olmert ha detto che non rinuncerà a un secondo piano di ritiro da parte della Cisgiordania. Ha dichiarato che l’operazione in corso non ha come obiettivo la rioccupazione della Striscia, ma la liberazione dell’ostaggio e l’annientamento delle postazioni di lancio di razzi. Il disimpegno da Gaza era stato deciso da Sharon, che denunciava la mancanza di un partner palestinese con cui poter tornare a negoziati di pace, dopo il “no” palestinese di Camp David e lo scoppio della seconda Intifada. In seguito al fallimento del processo di pace, gli attacchi suicidi contro Israele non sono mai diminuiti, se non dopo l’operazione israeliana “Muro di difesa” e la costruzione della barriera. Yasser Arafat cessò a Camp David di essere un interlocutore e un partner credibile. Il suo successore, Abu Mazen, appoggiato dalla comunità internazionale, lo è stato, a tempi alterni. Oggi le cancellerie occidentali e alcuni paesi arabi – Egitto e Giordania in testa – chiedono a Olmert di considerare ancora il rais un partner possibile. Il premier israeliano, però, non può far altro che seguire la strategia adottata dal suo predecessore. Proprio domenica il governo avrebbe dovuto procedere con l’evacuazione di alcuni insediamenti abusivi. Lo sgombero per ora è rinviato. La comunità internazionale ha chiesto di tentare anche la via negoziale. Non con Hamas, ma con Abu Mazen. Olmert, dopo un viaggio negli Stati Uniti e un tour europeo, ha incontrato il rais palestinese poche ore prima del rapimento del soldato israeliano, a Petra. Avevano fissato la data per un secondo incontro. Poi, un commando formato da tre gruppi, tra cui il braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedine al Qassam, ha ucciso due militari israeliani e rapito il loro commilitone.

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