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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
12.06.2006 Le analisi strabiche di chi pensa che Israele sia responsabile dei suoi problemi
care a Sandro Viola e a Umberto De Giovannangeli

Testata:La Repubblica - L'Unità
Autore: Sandro Viola - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Il dialogo impossibile - Olmert sbaglia, noi israeliani dobbiamo aiutare Abu Mazen»

La REPUBBLICA di lunedì 12 giugno 2006 pubblica in prima pagina e a pagina 6 un articolo di Sandro Viola che riportiamo:

Una nuova, frenetica "escalation" è ormai in atto tra israeliani e palestinesi. Gli avvenimenti degli ultimi tre giorni sono stati infatti più gravi, cruenti e minacciosi della già grave e sanguinosa quotidianità a Gaza e in Cisgiordania: la strage di un´intera famiglia, compresi due bambini, falciata da un missile israeliano mentre faceva colazione sulla spiaggia, l´immediata decisione presa da Hamas di rompere la tregua delle armi che durava da sedici mesi, decine di missili lanciati nella sola giornata di ieri da Hamas e dalla Jihad sul Negev, altri raids aerei di Israele su Gaza
Da venerdì scorso i morti sono stati una ventina, i feriti chi sa quanti, la tensione è altissima: e soprattutto, non si scorgono segni d´una qualche iniziativa politica, tentativo di dialogo, che possano sfebbrare la situazione.
Del resto, nel quadro politico israelo-palestinese la parola e il concetto di dialogo sono oggi ridotti a zero. Il governo di Hamas non intende (e a torto) parlare con Israele, pronto a pagare per questo rifiuto un prezzo altissimo, la sospensione degli aiuti economici americani ed europei. Dal canto suo il capo del governo israeliano, Ehud Olmert, non vuole parlare ad Hamas, il che è comprensibile visto che il partito islamista predica la cancellazione dello Stato ebraico. Gli sforzi fatti sinora dagli emissari occidentali per rimettere in sesto una trattativa, sono falliti. E se si fanno i calcoli, si vede che tra le due parti, governi di Gerusalemme e dirigenti palestinesi, l´assenza d´un vero negoziato dura da quattro anni.
Quattro anni, non quattro mesi.
C´è tuttavia, tra Palestina e Israele, qualcuno che sarebbe disposto, anzi è prontissimo, a parlare. Con Hamas, con Ehud Olmert, con l´amministrazione Bush e con gli europei. Questo qualcuno è il presidente dell´Autorità palestinese, Mahmud Abbas o Abu Mazen che dir si voglia. Abbas è ai ferri corti con Hamas e con la Jihad, tanto che le rispettive forze di sicurezza, quelle del presidente e quelle degli islamisti, s´affrontano quasi ogni giorno nelle strade di Gaza a colpi di Kalashnikov. In specie da quando Abu Mazen ha lanciato l´idea d´un referendum col quale chiedere ai palestinesi (elettori di Hamas inclusi) se siano disposti a riconoscere Israele, e ad accettare la stipula d´un accordo di pace, nel caso che Israele si ritirasse da tutti i territori occupati nel ‘67.
In questa situazione, con i palestinesi che s´affrontano sulla questione cruciale del riconoscimento d´Israele, che cosa bisognerebbe aspettarsi dal governo israeliano? Il buon senso, la logica politica, vorrebbero che Olmert appoggiasse Abu Mazen: l´uomo del dialogo, d´una possibile futura trattativa. È quello che consigliano il Segretario di stato americano Condoleezza Rice, Tony Blair e gli altri europei, quel che caldeggiava un editoriale sul "New Yok Times" di avant´ieri, ciò che si augurano i giornali "liberal" in Israele. Sostenere il presidente dell´Autorità palestinese, farne risaltare il ruolo rispetto allo spazio marginale che Hamas occupa sulla scena internazionale, e far capire così ai palestinesi che votando il partito islamista si sono cacciati in un cul di sacco.
Eppure, non è questo che sta facendo il governo Olmert.
Esattamente come fece Sharon nei mesi dopo il ritiro da Gaza e sino all´ictus che lo ha schiantato in gennaio, il nuovo governo israeliano si mostra più propenso a mettere in ombra, diminuire politicamente, il personaggio Abu Mazen, che non a cercare di rafforzarlo nel confronto con Hamas e i Jihadisti. Più propenso a incrinarne il ruolo e l´attendibilità, che non ad indicarlo come il solo dirigente palestinese con cui Israele potrebbe un giorno negoziare.
Il disastroso risultato della politica di Sharon, della sua insistenza nel voler rendere irrilevante la figura di Abu Mazen (e quindi nessun dialogo, nessuna concessione), diventò chiaro nello scorso gennaio, quando Hamas vinse le elezioni e andò al governo.

La vittoria elettorale di Hamas non fu affatto il risultato della politica di Sharon. Semmai dell'incapacità di Abu Mazen di disarmare il gruppo, della corruzione dell'Anp e della decisione della comunità internazionale di accettare la partecipazione alle elezioni palestinesi di una forza totalitaria e terrorista.
Oltre che di anni di indottrinamento propagandistico dei palestinesi, che hanno scelto semplicemente la formazione politica che sembrava perseguire con maggiore coerenza una linea di scontro con Israele che Al Fatah non ha mai cessato di promuovere


  E il risultato dell´attuale linea Olmert rischia di essere - tra la rabbia dei dipendenti dell´Autorità palestinese senza più stipendi da quasi tre mesi, e la disperazione delle famiglie per i tanti, troppi civili uccisi nelle rappresaglie israeliane - quello di volgere la contesa tra palestinesi, tra i realisti e i fondamentalisti, un´altra volta in favore di Hamas. Il tutto per avallare nuovamente la tesi Sharon, oggi passata in eredità ad Olmert, secondo cui sul versante palestinese non ci sono interlocutori credibili, non c´è nessuno con cui trattare. Ciò che americani ed europei, invece, contestano.
Olmert non parla il linguaggio, duro ma chiaro, di Sharon. Il suo è più sfumato, più ambiguo. A fine mese incontrerà infatti il presidente palestinese, e questo può apparire come l´accenno a riaprire un dialogo. Ma la sua netta ostilità al referendum proposto da Abu Mazen, dimostra ancora una volta l´intenzione di non voler riconoscere che dall´altra parte esiste un interlocutore.

L'incontro di Olmert con Abu Mazen dimostra la falsità della tesi di Viola (che il premier israeliano non voglia trattare con il presidente palestinese), mentre le critiche ad un referendum che contiene proposte inaccettabili per Israele sono perfettamente legittime e non precludono la possibilità di un dialogo
 
E dunque che se Israele si ritirerà da una porzione dei territori occupati, lo farà di sua iniziativa, decidendo quali terre evacuare e quali mantenere, senza negoziati né accordi con i palestinesi.
Ora, è vero che non tutto il contenuto del referendum è accettabile da parte israeliana: esso prevede infatti il ritorno di tutti i profughi palestinesi lì da dove partirono nel ‘48, ciò che nessun governo d´Israele potrebbe mai sottoscrivere. Ma tutte le volte che il problema fu affrontato nelle trattative precedenti, era sufficientemente chiaro (come i mediatori internazionali, gli americani per primi, sanno benissimo) che quel ritorno avrebbe un valore e una dimensione simbolici: un numero di profughi, cioè, che Israele sia in condizioni d´assorbire senza traumi.

Questa circostanza non è mai stata chiara a nessuno, eccetto  Viola, e i mediatori internazionali non hanno mai detto che i palestienesi sarebbero pronti ad accontentarsi di "cifre simboliche". Nè,  del resto, lo hanno mai dichiarato i palestinesi 

Questa è oggi la situazione. Un´"escalation" della violenza in corso, ma nessun canale aperto che serva agli antagonisti per tentare d´arrestarla. E in più, c´è il continuo aggravarsi della risposta militare israeliana. Sempre più «danni collaterali», sempre più gente inerme - e quanti bambini - che restano sul terreno durante le rappresaglie condotte dall´esercito e dall´aviazione. Segno, diceva ieri un editoriale di "Yediot Ahronot", che il laburista e pacifista Amir Peretz non è riuscito come ministro della Difesa ad imporre ai vertici militari un maggior controllo, più attente cautele.
Mentre su "Haaretz", sempre ieri, Gideon Levy denunciava il torpore della maggior parte della stampa israeliana, e degli israeliani, di fronte alle notizie di intere famiglie sterminate dagli errori dell´artiglieria o degli elicotteri lancia-missili.
Chi s´è mostrato sorpreso, turbato, alla notizia della strage di venerdì sulla spiaggia di Gaza, scriveva Levy, avrebbe dovuto sapere che tragedie simili si ripetono da troppo tempo. «Un esercito che spara missili in strade affollate e tira colpi di cannone contro una spiaggia, non può pretendere che non aveva intenzione di colpire civili innocenti».

Levy e Viola (che sceglie con cura le citazioni, escludendo tutte quelle che difendono le ragioni di Israele) non si pongono una semplice domanda: Israele dovrebbe forse lasciare che i terroristi, sparando dai centri abitati palestinesi, uccidano indisturbati i suoi cittadini?

Di seguito, un'altra opinione scelta con cura (da Umberto De Giovannangeli) per acccreditare come seria proposta di pace l'ambiguo referendum di Abu Mazen:

«Non condivido la sottovalutazione fatta da Olmert sul referendum indetto da Abu Mazen. L’importanza di questa decisione non sta tanto nel contenuto del piano sottoposto a referendum quanto nella sfida lanciata dal presidente dell’Anp a Hamas. Israele ha bisogno di una controparte con cui rilanciare il dialogo. Il referendum può rafforzare la leadership di Abu Mazen e ciò è anche nel nostro interesse». A sostenerlo è Yaariv Oppenheimer, già leader di «Peace Now» ed oggi parlamentare laburista.
Dopo la strage di Sudanya, Hamas ha promesso vendetta. Israele teme una nuova ondata di attacchi kamikaze. Come spezzare questa spirale di sangue?
«Con le “armi” della politica. Israele non può certo abbassare la guardia di fronte alle minacce dei gruppi terroristi ma non deve neanche restare prigioniero dell’illusione che esista una soluzione militare alla questione palestinese...».
Questo in linea di principio, ma in concreto che fare?
«Sostenere Abu Mazen. Sostenerlo nella sfida da lui lanciata ad Hamas con la decisione di sottoporre a referendum il cosiddetto “piano dei detenuti”...».
La interrompo. Il premier israeliano Ehud Olmert ha definito ininfluente il referendum...
«Non condivido questa valutazione. L’importanza del referendum non è legata al contenuto del “piano dei detenuti”, che pure contiene l’implicito riconoscimento di Israele e, soprattutto, la fine degli attacchi terroristici sul territorio israeliano. L’importanza di questa consultazione è nella determinazione del presidente palestinese di ricevere un mandato popolare per riaprire una trattativa con Israele. È nella sfida politica lanciata a Hamas. Ritengo questo passaggio cruciale perchè sono da sempre convinto che Israele ha bisogno di una controparte rappresentativa, autorevole, con cui giungere ad un compromesso. Abu Mazen può essere questo interlocutore».
Nei Territori, e non solo, è forte il dolore e la rabbia per la strage di Sudanya.
«Sono profondamente addolorato per ciò che è accaduto e al tempo stesso attendo con impazienza le conclusioni dell’inchiesta ordinata dal ministro della Difesa (il leader laburista Amir Peretz, ndr.). Non è in discussione il diritto-dovere di Israele a difendersi dai miliziani che bersagliano con un continuo lancio di razzi città israeliane, ma ciò non può in alcun modo portarci a considerare tragedie quale quella consumatasi sulla spiaggia di Sudanya come “effetti collaterali” alla lotta al terrorismo. Ogni qualvolta vengono colpiti civili inermi, dobbiamo vivere questo fatto come una nostra sconfitta, da non ripetere».
Il premier israeliano ha avviato una missione in Europa che ha al suo centro il piano di disimpegno unilaterale dalla Cisgiordania.
«Continuo a pensare che il disimpegno unilaterale è la ricaduta inevitabile del fallimento di una strategia negoziale. Un ripiego, dunque, e non la prima scelta».
Puntare ancora su Abu Mazen, è questa la sua «prima scelta»?
«Sì e non credo che nel compierla Israele danneggi i propri interessi. Semmai, è vero il contrario».
Nella sinistra israeliana, anche all’interno del Labour, c’è malumore verso il comportamento di Amir Peretz.
«Conosco molto bene Amir e so che non ha cambiato idea sulla necessità di battere tutte le strade per raggiungere un accordo di pace. L’essere ministro della Difesa comporta degli oneri alquanto pesanti ma ciò non deve far venir meno il suo impegno a far vivere nel Governo una linea dialogante, che corrisponde alla piattaforma elettorale laburista».

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