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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Informazione Corretta Rassegna Stampa
19.12.2005 Sharon ricoverato in ospedale
editoriali a confronto

Testata:Informazione Corretta
Autore: la redazione
Titolo: «Il malore di Sharon»
Mentre stiamo scrivendo i telegiornali informano che Sharon, dall'ospedale, ha già tenuto una riunione telefonica con i suoi collaboratori.
Il sito di Ha'aretz riporta il bolletino medico: Sharon è stato colpito da un inizio di infarto cerebrale e le sue condizione sono già buone. Anche le cronache dei quotidiani di questa mattina, 19-12-05 comunque riferivano di una situazione sostanzialmente sotto controllo.

Per contro, le analisi dei commentatori politici sembravano muovere dal presupposto che la situazione di Sharon fosse molto grave.
Questa sorta di "fretta" di annunciare che le condizioni del premier israeliano sono critiche contraddistingue soprattuto l'editoriale di Igor Man pubblicato da LA STAMPA, intitolato "Il Medio Oriente appeso a un uomo" (frase ripresa dalla conclusione dell'articolo).
Va anche sottolineato che il Medio Oriente non è affatto "appeso a un uomo". Le possibilità della pace e il rischio della guerra in quella regione dipendono da molteplici fattori: il terrorismo, l'aggressività di regimi totalitari come quello iraniano, l'antisemitismo arabo e islamico.
Legarle esclusivamente alle condizioni di salute di un leader, per quanto importante, è solo un modo per dimenticare la complessità dei problemi e per attribuire ogni responsabilità a Israele.

Antonio Ferrari sul CORRIERE DELLA SERA, nell'articolo "Non ha eredi Ariel, il guerriero mutato in colomba", si concentra sulla descrizione dello scenario politico interno israeliano nel caso di un'uscita di scena o di una crisi di leadership di Sharon.
Le ipotesi di Ferrari (difficoltà del partito Kadima e conseguente incertezza dell'intero sistema partitico israeliano, appena uscito dalla generale risistemazione conseguente alla scissione del Likud) sono ragionevoli, ma a quanto pare basate su presupposti lontani dalla realtà.

Sandro Viola su LA REPUBBLICA, nell'articolo "L'ex generale che progetta la pace" sviluppa un'analisi simile a quella di Ferrari, aggiungendo una valutazione sulla probabilità, con Sharon in salute, di un governo di unità nazionale di centro-sinistra.
Correttamente Viola conclude il suo articolo ricordando, tra gli ostacoli alla pace, la recente vittoria di Hamas alle elezioni municipali palestinesi.

Di seguito, l'articolo di Igor Man:




SHARON in ospedale: la notizia fa effetto poiché il vecchio soldato a dispetto dell’epa pronunciata e dell’anagrafe sino a poche ore fa ha volteggiato sui marosi della permanente burrasca mediorientale con l’agilità intrepida d’un surfista. Che sia stato un «leggero ictus» o semplicemente un collasso da superlavoro, una cosa è certa: il roccioso «Arik», l’implacabile soldato che ha marciato sul periglioso sentiero della politica con la stessa speditezza da parà con cui ha affrontato la guerra avendo come road map il libro del Deuteronomio («... vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede»), il generale mai sconfitto che nella guerra del Kippur ha combattuto incurante delle ferite dovrà disertare. Non già il campo di battaglia ma l’altrettanto pericoloso arengo politico. Solo per qualche tempo, ma dovrà.
Sharon che perde i sensi ha sorpreso il mondo, dai palestinesi giovani che iersera, appresa la notizia del malore del premier, hanno danzato di gioia, e sparato per aria rabbiosamente, alle cancellerie occidentali e no, dagli amici ai nemici. Non si immaginava che quest’uomo entrato nel mito d’un paese biblico qual è Israele, potesse cedere allo stress. Politicamente è una brutta notizia, questa del mancamento di Sharon: per chi giura sulla sua buona fede quando assicura che dopo Gaza si faranno altri passi importanti sì da spianare la strada a una trattativa di pace «in buona e dovuta forma», ma anche per chi pensa che lo sgombero da Gaza (in ogni caso un atto di coraggio) sia da interpretare non tanto come «un gesto distensivo», un «segnale forte», bensì come una uscita di sicurezza dalla (possibile) trappola di una piccola ma usurante guerra di attrito con Hamas e tutti gli irriducibili del campo avverso; con in più lo stillicidio dei terroristi suicidi mandati al macello da spregiudicati apprendisti stregoni.
Sia come sia, il malore del vecchio soldato complica maledettamente un quadro geopolitico a dir poco inquietante. Lo sgombero da Gaza ha provocato una pesante crisi politica, tanto pesante da costringere «Arik» a mollare il «suo» vecchio partito, il Likud, e fondarne un altro chiamato scaramanticamente Avanti. La mossa di Sharon ha preso in contropiede sia «Bibi», l’ex primo ministro tanto bravo in tv, ha messo in difficoltà l’eterno secondo vale a dire il grande visionario polacco Shimon Peres, l’uomo che diede forma documentale al programma elettorale di Rabin che nel ‘92 stravinse nel segno della pace.
Rabin ci ha dimostrato che quando un soldato vuole la pace è perché è stanco della guerra di cui conosce la faccia segreta ma soprattutto è perché gli ripugna l’idea che i figli dei figli siano attesi da un futuro da ghetto armato. Dobbiamo dunque credere a Sharon-colomba?
E’ un brutto momento: Hamas ha stravinto le elezioni locali in Cisgiordania mettendo in crisi un altro vecchio, il raìss palestinese Abu Mazen non eccessivamente stimato da Arafat. (Il vecchio fedayn lui è sul binario morto, in eterna attesa d’un Godot che risolva la difficile equazione mediorientale). A marzo, infine, il popolo israeliano andrà alle urne, nel segno dell’incertezza: il premier imprevedibile sarà forse a corto di audaci sorprese o «anitra zoppa» fuori combattimento. C’è infine il campionario di farneticazioni del nuovo presidente iraniano affamato di uranio e posseduto dall’odio per gli «infedeli». Tutto sembra appeso a un filo, più esattamente a un uomo. (Ma anche gli eroi, qualche volta, sono stanchi).
Ecco l'articolo di Antonio Ferrari:
Per qualche ora, fino a quando la direzione dell'ospedale ha assicurato che la vita del primo ministro Ariel Sharon «non è in pericolo», e che presto dovrebbe essere dimesso, Israele ha tremato, rivivendo l'incubo della notte di novembre di dieci anni fa, in cui fu assassinato Yitzhak Rabin.
Certo, stavolta non ci sono mani omicide dietro il grave malore che ha colpito il capo del governo uscente, ricoverato per una crisi circolatoria: forse un lieve ictus, di sicuro il brusco segnale che il fisico del premier, prostrato dalle responsabilità, affaticato dallo stress, appesantito da un'alimentazione disinvolta, e fiaccato dall'età (77 anni), mostra ormai qualche cedimento. Ma l'angoscia del Paese, oltre l'emozione e l'umana simpatia per il leader, è legata all'impossibilità di sostituire l'unico uomo che, con una raffica di scelte coraggiose, è stato capace di rivoluzionare, in pochi mesi, la politica israeliana.
Senza di lui la svolta, cominciata con il ritiro da Gaza nello scorso mese di agosto, e della quale ora si vedono chiaramente contorni e strategie, sarebbe difficilmente realizzabile. Anzi, irrealizzabile. Perché mai, negli ultimi decenni, Israele aveva deciso di affidare la cambiale in bianco del proprio futuro nelle mani di un uomo solo. Un capo in grado di vincere, di convincere, di osare, di compiere passi che altri forse avrebbero immaginato, ma non avrebbero osato realizzare.
Ora le notizie tendono ad essere abbastanza rassicuranti. Si attenuano i timori per la salute di Sharon, ma l'angoscia non si placa, perché nessuno sa in quali condizioni il premier verrà restituito a un Paese che si fida soltanto di lui. Da quando ha deciso di abbandonare il Likud, di fondare un cartello centrista e di raccogliere tutti coloro che accettano di condividere le sue scelte, i sondaggi lo indicano come il sicuro vincitore delle prossime elezioni, che si terranno a marzo. All'inizio gli studiosi degli umori popolari avevano detto che il nuovo partito avrebbe conquistato 30-33 seggi sui 120 disponibili; due settimane fa, la prospettiva era salita al 38 per cento; negli ultimi giorni aveva superato agevolmente il 40 per cento, con un trend in costante crescita. Nonostante l'invito alla prudenza dei consiglieri del premier, è la chiara dimostrazione che soltanto il nome e la personalità del leader sono garanzia di una sicura vittoria.
Sharon, seguendo i consigli, è rimasto silenzioso. Il suo quotidiano compiacimento è stato accentuato dalla frenetica corsa a salire sul suo treno: dall'ex leader laburista Shimon Peres al vicepremier Ehud Olmert, al ministro della difesa Shaul Mofaz, a numerosi quadri del Likud che, dopo aver attaccato a testa bassa il primo ministro, contribuendo alla sua uscita dal partito, si sono resi conto che senza di lui sarebbero stati costretti all'oblio.
E' evidente che il solo a poter evitare, dopo il terremoto delle ultime settimane, una frammentazione politica, che altrimenti rischierebbe di provocare l'instabilità governativa del Paese, è Sharon.
I laburisti del neo-leader Amir Peretz sono ancora alla ricerca di un baricentro per imporsi, nonostante gli attestati di stima che giungono anche dal mondo accademico; l'ex corazzata- Likud, sfibrata da lotte intestine, sembra uno smagrito vascello alla deriva.
Alle primarie, che si terranno fra poche ore, si daranno battaglia due personaggi ambiziosi e sfiduciati dal crollo di consenso popolare: l'ex premier Benjamin Netanyahu e il ministro degli Esteri Silvan Shalom; i laici dello Shinui di Tommy Lapid non hanno la forza né il prestigio per dettare condizioni; i partiti religiosi pensano come sempre ai propri interessi, più attenti a cercare una sponda conveniente che a proporsi come soggetto politico.
E' evidente, a questo punto, che sarà fondamentale vedere e capire in quali condizioni si ripresenterà Sharon. Un leader-dimezzato da precarie condizioni di salute, quindi a rischio, avrebbe non poche difficoltà a mantenere lo straordinario impatto della sua presenza alla guida del Paese. Ecco perché Israele, lungi dal sentirsi rassicurato dalle notizie che giungono dall'ospedale, non riesce a convincersi che l'incubo è davvero svanito.
E quello di Sandro Viola:
I bollettini medici parlano d´una leggera emorragia cerebrale, e sembrano così escludere che Ariel Sharon sia in pericolo di vita.
Ma il malore che ieri sera ha colto il primo ministro ha fatto per qualche ora traballare l´intera scena politica d´Israele. E non perché Sharon sia da più di mezzo secolo, prima come militare e poi come uomo di governo, sul davanti di quella scena: ma perché dallo scorso agosto, dai giorni del ritiro israeliano da Gaza, egli ne è diventato il principale, decisivo protagonista.
Al punto che se l´accidente neurologico fosse stato più grave, tanto da portarlo alla morte, la politica israeliana sarebbe oggi travolta come da una bufera. Nel caos.
Poco meno d´un mese fa, sbattendosi alle spalle la porta del Likud e varando il suo nuovo partito, Avanti, Sharon aveva infatti rivoltato da cima a fondo i tradizionali schieramenti politici del paese. Col risultato di ridurre la destra (i resti del Likud, gli ultra-nazionalisti, i sionisti religiosi) ad una forza pressochè marginale in vista delle elezioni fissate per il prossimo marzo.
Definendo la mossa di Sharon un «big-bang», i giornali israeliani non avevano esagerato: la fondazione d´un partito di centro, che tra l´altro coincideva con l´ascesa nel vecchio Labor del sindacalista e pacifista Amir Peretz, era esattamente quel che si chiama un terremoto politico.
Quasi nulla restava più di riconoscibile, infatti, nulla di simile a quel che era stato durante gli ultimi trent´anni, nel quadro della vita parlamentare e partitica d´Israele. E questo perché la destra, come s´è detto, appariva ormai in pezzi, senza un leader credibile e quindi incapace di pesare come un tempo, al governo come all´opposizione, sui destini del paese.
Non più in condizioni, cioè, di mettersi di traverso ad ogni tentativo di vero dialogo con la parte palestinese. Non più capace di perorare come necessaria alla sicurezza d´Israele, e perciò irrinunciabile, l´occupazione della Cisgiordania.
E´ vero, le intenzioni di Sharon riguardo ai rapporti con i palestinesi sono tutt´altro che chiare. Ed è vero che la fisionomia del suo nuovo partito (trasformatosi nelle ultime due settimane in un «band-wagon» su cui tutti, da destra, dal centro e da sinistra, cercano di salire) non dà per ora la minima assicurazione sulla linea politica che verrà adottata all´indomani del voto di marzo. Ma resta che Ariel Sharon s´è clamorosamente staccato dalla destra, dall´estrema destra e dai nazional-religiosi. Lui che ne era stato per cinque anni il leader indiscusso, se li è adesso lasciati dietro, nelle peste. E questa rottura non può essere senza significato. In essa non può non esserci quel che s´era già intravisto con lo sgombero di Gaza: vale a dire il disegno d´un nuovo tentativo, d´un nuovo sforzo per giungere prima o poi al compromesso territoriale con i palestinesi. Appunto, quel che Sharon non avrebbe potuto fare se fosse rimasto alla guida del Likud.
Del resto, le sue dichiarazioni e slogan dell´ultimo mese sono sufficientemente coerenti. Il nuovo partito non baserà la campagna elettorale sul tema della sicurezza (per tanto tempo il tema della destra e suo personale), ma sul risanamento sociale e sull´attuazione della «road map», il solo piano di pace ancora in piedi. E questo avendo di fianco sulla scena Amir Peretz, il nuovo leader del Labor: il quale è portatore d´un programma di larga spesa sociale, convinto che le risorse consumate nel mantenimento delle colonie vadano invece trasferite in aiuti alle fasce più disagiate della società, e dunque pronto a chiudere il lungo capitolo dell´occupazione.
Certo, la storia del conflitto israelo-palestinese ha insegnato che gli ottimismi finiscono sempre per partorire cocenti delusioni. Ma quando si vedono i sondaggi di questi giorni: la valanga di consensi per il nuovo partito di Sharon e l´impennata, dopo anni di declino, dei laburisti, ecco che la prospettiva d´una coalizione di centro-sinistra decisa ad affrontare in modo costruttivo la questione palestinese si profila corposa, credibile. E si può quindi immaginare l´ansia che deve aver percorso la maggioranza degli israeliani, ieri sera, alla notizia del ricovero di Sharon in ospedale. Perché la maggioranza degli israeliani segnala ormai da molti mesi una volontà di finirla con l´occupazione e, appena possibile, col secolare conflitto che li oppone ai palestinesi. Ben sapendo che l´unico uomo politico d´Israele oggi capace di realizzare questo programma, è l´ex campione della destra, l´ex idolo del fronte oltranzista: Ariel Sharon.
Saranno ottime notizie, perciò, quelle che confermeranno nei prossimi giorni una ripresa del primo ministro israeliano. Ma intanto le notizie che giungono dal versante palestinese sono invece molto inquietanti. Alle elezioni municipali a Gaza e in Cisgiordania, gli integralisti di Hamas continuano a mietere successi. Fatah, il partito del presidente dell´Autorità palestinese, il moderato Abu Mazen, sembra ogni giorno di più con le spalle al muro. Così che le elezioni per il Parlamento, previste per il 24 gennaio, rischiano di certificare - se non una maggioranza - un peso inaspettato e minaccioso degli integralisti contrari ad ogni definitivo accordo con Israele. Al punto che qualcuno già parla d´un rinvio della convocazione elettorale.
Questo è il conflitto israelo-palestinese. Un susseguirsi di spiragli e chiusure, un´altalena di buoni e cattivi auspici. Ma rinunciare all´attesa d´una sua composizione, alla speranza della pace, non è possibile. Né politicamente, né moralmente.
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