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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - Il Manifesto - L'Unità - Europa Rassegna Stampa
22.11.2005 La politica israeliana vista con gli occhiali del pregiudizio
quattro quotidiani a confronto

Testata:La Repubblica - Il Manifesto - L'Unità - Europa
Autore: Sandro Viola -Zvi Shuldiner - Michele Giorgio - Leonardo Paggi - Imma Vitelli
Titolo: «Occasione storica in Palestina - Tsunami Sharon - Terremoto in Medio Oriente - Peretz, "il marocchino" che fa sperare anche il mondo arabo»
Nell’editoriale di Sandro Viola su REPUBBLICA di martedì 22 novembre il terrorismo palestinese viene definito "violenza armata". Non si tratta solo di un problema di forma, ma anche di comprensione, in quanto chi non accetta di chiamare terroristi gli autori delle stragi suicidee i loro finanziatori e sostenitori, non potrà mai comprendere la difficoltà e le esigenze del popolo israeliano.
Sandro Viola però, ha anche un problema di analisi di politica israeliana. Pur di non riconoscere al premier israeliano il merito di una politica volta alla pace , attribuisce le sue scelte all' "attaccamento al potere". Chi legge l’articolo di Repubblica penserà che il processo di pace tra israeliani e palestinesi, èvoluto da un politico israeliano che pur di rimanere "attaccato al potere", compie repentine "inversioni di marcia".
Infatti si può leggere che secondo Viola "lo sfondo politico israeliano aveva cominciato a trasformarsi la scorsa estate, quando s’era capito che esisteva ormai una maggioranza favorevole alla fine dell’occupazione dei territori". Non sarà che questo cambiamento sia dovuto al forte indebolimento delle organizzazioni terroristiche di Al Aqsa, Hamas e Jihad che, combattute dall’esercito israeliano, si sono trovate per motivi logistici a dover diminuire gli attentati terroristici? Non avrà qualche parte, nel determinare la possibilità della politica di ritiro unilaterale voluta da Sharon, l'efficacia protettiva della barriera di sicurezza?
Il giornalista, in fondo all’articolo, riconosce che il processo di pace, adesso come adesso, è tutto nelle mani della leadership palestinese, ma facciamo presente che l’ "occasione storica" i leader palestinesi l’hanno sempre avuta, dal momento della costituzione dello Stato d’Israele, poi nel periodo di occupazione giordana ed egiziana, infine durante il processo di pace, da Oslo a Camp David.

Ecco l'articolo, "Occasione storica in Palestina":

Non era stato difficile prevedere che il ritiro da Gaza avrebbe avuto conseguenze importanti nella politica israeliana: ma nessuno s´era spinto sino ad immaginare il vasto, decisivo sommovimento di questi ultimi dieci giorni.
L´elezione del sindacalista – e sefardita – Amir Peretz alla leadership del Labor, l´uscita di Sharon dal Likud per formare un nuovo partito, la convocazione a marzo di elezioni anticipate. In meno di due settimane, quindi, la scena politica d´Israele ha mutato faccia. Un cambiamento (un «big-bang», lo hanno definito i giornali israeliani) che riflette le attese createsi nella maggioranza della società con lo sgombero da Gaza, e destinato a migliorare le prospettive del negoziato da cui dovrebbe nascere, finalmente, lo Stato di Palestina.
Cominciamo dalla rottura tra Sharon e il Likud, il partito che aveva contribuito a fondare nel 1973 e di cui è stato per sei anni (sino alle divisioni interne provocate dal suo piano di ritiro da Gaza) il leader indiscusso. Lo strappo è clamoroso, per non dire drammatico, ed ha un solo, chiarissimo significato. Sharon ha capito che restare legato al Likud e alle sue appendici, i sionisti religiosi e l´estrema destra nazionalista, non gli avrebbe consentito di portare avanti il processo di pace così com´è delineato nella «road map». In una conferenza stampa, ieri sera, lo ha detto in modo esplicito: se anche avesse vinto alla testa del suo vecchio partito le prossime elezioni, il nuovo governo si sarebbe trovato esposto ad una continua, turbolenta e logorante dissidenza interna.
Perciò ha lasciato, e andrà alle elezioni con un nuovo partito che egli definisce «centrista», nel quale dovrebbero confluire una parte del Likud (se non addirittura una metà, a sentire alcuni commentatori politici israeliani), forse una frangia della sinistra e forse il partito Shinui di Tony Lapid. Si tratta d´un azzardo, d´un gesto non abbastanza meditato? No.
Sharon conosce bene il suo paese e gli umori che vi circolano. E prevede quindi che una maggioranza elettorale non si possa raccogliere in Israele, oggi, senza un programma di trattative dirette e indirette con i palestinesi, così da approdare a un compromesso territoriale e all´arresto, sia pure non immediato e definitivo, della violenza armata.
Lo Sharon di quest´ultimo anno continua a stupire. La sua inversione di marcia è sempre più spettacolare. Prima ha smantellato - lui, il massimo architetto della colonizzazione ebraica dei territori occupati - le colonie di Gaza; poi ha fatto capire di voler sgombrare in futuro gli insediamenti più isolati della Cisgiordania; e ieri s´è sbattuta alle spalle la porta del Likud, provocando così un probabile disfacimento del partito in cui ha militato per tre decenni. Ma a guidarlo, adesso che è tramontato il sogno del Grande Israele cui aveva dedicato quasi intera la sua vita, sono il suo pragmatismo e l´attaccamento al potere. Da un lato il fallimento dell´occupazione (fallimento politico, economico e morale) è divenuto infatti evidente, dall´altro una maggioranza del paese e il governo degli Stati Uniti premono perché riparta al più presto il negoziato con i palestinesi. Deciso a guidare il prossimo governo di Gerusalemme, Sharon ha quindi scelto la rottura con le destre.
Anche perché intanto c´era stato l´ingresso sulla scena di Amir Peretz. Col suo solo emergere al vertice del Labor, il sindacalista che dirige l´Histadrut, la potente centrale sindacale israeliana, aveva già in parte terremotato il quadro politico del paese. Ex esponente del movimento pacifista, da tempo sostenitore d´un contenimento del bilancio militare a favore d´una più larga spesa sociale, Amir Peretz andrà alle elezioni sbandierando il disastro della politica di colonizzazione nei territori occupati.
Le enormi risorse finanziarie fagocitate dai coloni in questi trentott´anni, la cui conseguenza è la povertà di quasi un terzo degli israeliani. Dunque la necessità - anzi l´urgenza - d´un ritiro graduale e negoziato dai territori occupati.
Non basta. D´origine marocchina, primo ebreo sefardita alla leadership d´un grande partito come il Labor, Peretz potrebbe scollare dal Likud una parte almeno del voto sefardita, da sempre agglutinato attorno alla destra. E Sharon deve aver calcolato anche questo. Per Peretz, le probabilità di far risorgere dopo anni di declino il partito laburista, e persino l´eventualità d´una vittoria alle prossime elezioni, sarebbero state molto consistenti se lo scontro elettorale fosse avvenuto come al solito tra Likud e Labor, tra destra e sinistra. Mentre è diverso adesso che tra i due tradizionali contendenti c´è un terzo partito. Uno Sharon che dalla sera alla mattina ha preso a criticare la politica economica rigidamente liberista condotta da Likud, e per quel che riguarda il conflitto con i palestinesi ribadisce con forza l´intenzione di rimettere sui binari la «road map».
Lo sfondo politico israeliano aveva cominciato a trasformarsi la scorsa estate, quando s´era capito che esisteva ormai una maggioranza favorevole alla fine dell´occupazione dei Territori. Ma oggi è definitivamente modificato. Basta pensare, oltre a quel che s´è già detto, all´ultimo atto importante del governo in carica: l´accettazione d´una presenza internazionale al valico di Rafah, tra Gaza e l´Egitto. Una presenza che nel quadro del conflitto con i palestinesi, i governi israeliani avevano in passato sempre respinto.
Insomma: chi vorrà vincere alle prossime elezioni, dovrà promettere agli israeliani ogni sforzo possibile per approdare ad un compromesso territoriale con i palestinesi. Il che vuol dire che l´incertezza, a questo punto, non riguarda tanto la volontà di pace in Israele. Riguarda la volontà, la capacità della leadership palestinese di cogliere un´occasione storica e forse irripetibile.
IL MANIFESTO di martedì 22 novembre 2005 pubblica in prima pagina l'editoriale di Zvi Shuldiner "Tsunami Sharon".
Vi si sostiene la tesi paranoide per cui il governo Sharon colpirebbe nei terrirori i membri di organizzazioni terroristiche impegnati nell'organizzazione di attentati allo scopo di rafforzarle e provocare un' escalation, imponendo così come tema centrale della contesa elettorale la sicurezza, adiscapito dei temi sociali. Dunque, una strategia utile per sconfiggere Peretz.

Nonostante siano l'Esercito e i servizi di sicurezza, non l'ufficio stampa personale di Sharon, a dire che i gruppi terroristici non aspettano nessuna azione israeliana per preparare attentati, nonostante i lanci di razzi kassam immediatamente successivi al ritiro da Gaza.
Per Shuldiner l'idea che i terroristi vogliano colpire Israele indipendentemente dalle azioni di quest'ultima è da scartare a priori.

Come continuare altrimenti a scrivere su un giornale che nega quotidianamente il diritto di Israele a difendersi dall'aggressione stragista dei gruppi palestinesi?

Ecco l'articolo:

Gli effetti del terremoto Peretz nel laburismo si moltiplicano fino a diventare un vero e proprio tsunami politico, adesso che il primo ministro Sharon decide di lasciare il Likud e annuncia che si candiderà nelle prossime elezioni a capo di un nuovo partito, «Responsabilità Nazionale». L'analisi superficiale delle diverse polemiche non deve far dimenticare una questione fondamentale ma scarsamente presa in esame in questi giorni: nelle ultime settimane le forze israeliane non hanno cessato le operazioni di repressione che provocano un'escalation permanente nei territori occupati. Quanto accade nei territori occupati si proietterà su tutta l'arena politica, è determinante nella crescita dell'instabilità della regione - che è aumentata con gli attacchi terroristi in Giordania - e potrà essere un fattore chiave per decidere i risultati delle prossime elezioni in Israele.

Dopo lunghi mesi di confronto interno nel suo partito, adesso è ufficiale: Ariel Sharon lascia il Likud che contribuì a costituire più di 30 anni fa. Di primo mattino Sharon si è recato dal presidente d'Israele per chiedere che venga applicata la legge che gli permette di sciogliere le camere e di andare al voto.

Le elezioni sarebbero previste per il marzo dell'anno prossimo e adesso cominciano le grandi manovre. Sharon si porta dietro 13 o 14 dei membri del gruppo dirigente del Likud. Il numero è critico dal punto di vista economico: se il nuovo partito ha un terzo dei seggi del Likud potrà godere di una parte proporzionale dei finanziamenti pubblici dei partiti israeliani. In caso contrario Sharon comincia con un serio problema economico.
La decisione di Sharon è più o meno chiara nelle sue motivazioni. Dall'inizio della ritirata unilaterale Sharon ha perso la maggioranza nel suo partito. Nelle primarie per decidere il candidato alle prossime elezioni nazionali, la candidatura di Netaniahu lo potrebbe portare a una sconfitta troppo dolorosa, dalla quale sarebbe difficile recuperarsi. Anche nel caso in cui Sharon trionfasse nelle elezioni interne, il nuovo gruppo dirigente non sarebbe diverso dal precedente e ogni piano politico di Sharon in politica estera lo porterebbe alla paralisi che in questi giorni affligge il Likud. L'opposizione interna, i cosiddetti «ribelli» dominano l'establishment. Oltre a ciò, un gruppo estremista di coloni, che pochi anni fa decise di entrare nel Likud, prometteva di collaborare con i nemici di Sharon per sconfiggerlo. L'avventura di Sharon è più che problematica e pericolosa per lui. Cinque ministri vi aderiscono: non si sa ancora quanti membri della Knesset, ma questo non è tutto. Sharon non ha una macchina di partito ben organizzata e si basa solo su qualcosa di assai dubbio: la grande popolarità di cui gode nella maggioranza della pubblica opinione che ha appoggiato il ritiro unilaterale da Gaza. I grandi interrogativi sono: quanti mandati vale la popolarità di cui gode o godeva Sharon. E quanto vale la sua popolarità fuori il Likud? Il Likud non è solo un partito politico, ma uno strumento di identificazione etnica e di protesta. Dal 1977 è stato quasi sempre al governo e il laburismo all'opposizione, con brevi intervalli. Questo non ha impedito al Likud di presentarsi come fautore della protesta contro i mali del sistema, mentre il laburismo continuava con la stupida posizione dello statalismo, della responsabilità nazionale.

Per tutti quegli ebrei orientali che si sono visti emarginati dalla società israeliana, discriminati e sfruttati, il Likud era la vendetta, l'identità salvata, il rifugio. Improvvisamente Peretz rompe lo schema. Parla in un modo che rompe con gli schemi classici, attacca il sistema, smentisce tutte le responsabilità al riguardo, non è più un laburista «classico e responsabile» come Peres e i suoi ministri. Peretz è uno dei pochi politici che osano dire quel che pensano. Sì, è necessario prepararsi per tutte le manovre che lo porteranno ad essere «più moderato», ma è necessario segnalare che ha agitato le acque in modo drammatico. Senza paura, con coraggio ha presentato idee diverse dalle consegne classiche prive di contenuto che devono caratterizzare un leader che voglia conquistare il mitico «centro». Peretz arriva in un momento in cui sono molte le vittime della politica economica e sociale di Netaniahu. Peretz lo dice già chiaramente: Sharon era il primo ministro responsabile della politica economica del ministro delle Finanze, e denuncia il 20% di israeliani sotto la soglia di povertà mentre l'economia cresce e i ricchi diventano più ricchi. Peretz ha rivoluzionato il dialogo politico, dimostrando, in dieci giorni, che non sarà facile farlo cadere vittima dei tranelli con cui cercavano di paralizzarlo nel suo stesso partito. Ma qual è la forza del programma di Peretz?

Sharon l'ha spiegato nelle ultime ore: il suo nuovo partito porterà Israele alla Road Map in modo responsabile, mentre si combatterà senza indugi il terrore. Ovvero, il programma di Sharon - e questo sarà sicuramente il programma di Netaniahu o di chi trionferà nel Likud- sarà il programma della sicurezza, del terrore, del processo politico. La questione economica e sociale sulla quale si basa Peretz non sarà necessariamente la questione centrale. Non è questione retorica o di tattica propagandistica. Sharon e il suo governo hanno iniziato una politica di esecuzioni mirate e di repressione poco dopo il ritiro da Gaza, che ha portato a una seria escalation nei territori occupati. La politica del governo israeliano ha rafforzato Hamas e non Abu Mazen e questo non è stato frutto del caso.

La continuazione di questa linea significherà più sangue, terrore e repressione e le vendette a catena faranno crescere la necessità di discutere di pace e sicurezza, lasciando da parte la povertà e l'economia che aiuterebbero Peretz. Sharon si basa su questa tattica per danneggiarlo e pensa che questa sia la ricetta migliore per restituire agli elettori il loro bisogno essenziale: un generale con grande esperienza che li tiri fuori dal pantano e piloti la barca nazionale nelle difficili acque della guerra. Uno dei grandi interrogativi che riguardano Peretz è se saprà rispondere a questa sfida con una voce chiara e convincente che porti il paese a un altro tipo di discussione diversa da quella portata avanti per molti anni. Ma vaticinare che cosa sta per accadere è di fatto rischioso, anzi stupido.
Se qualcuno avesse dei dubbi sul fatto che IL MANIFESTO neghi 2quotidianamente il diritto di Israele a difendersi dall'aggressione stragista dei gruppi palestinesi?", potrebbe facilmente toglierseli leggendo la conclusione dell'articolo di Michele Giorgio, " "Forza Sharon" scuote Israele", a pagina 4:

Il varco, ha spiegato ieri il generale italiano Pietro Pistolese, che guida la missione di osservatori Ue incaricata di monitorare i movimenti di persone merci al confine. «Inizialmente sarà aperto solo per poche ore, indicativamente quattro, poi, in base a quello che constateremo sul campo, l'orario verrà prolungato con l'obiettivo di arrivare a un'apertura di 24 ore su 24. Apriremo Rafah solo quando riterremo che le condizioni di sicurezza e la preparazione dei palestinesi sono adeguate allo scopo». Un "buon inizio", non c'e' dubbio.
Secondo il cronista del MANIFESTO, dunque, si "inizia male" se non si apre Rafah immediatamente, infischiandosene totalmente della sicurezza degli israeliani e delle loro vite.

L'UNITA' pubblica in prima pagina e a pagina 26 un articolo di Leonardo Paggi, "Terremoto in Medio Oriente" che interpreta la trasformazione in corso della politica israeliana come il risultato di un contrasto tra politica di sicurezza e politica sociale.

Una contrasto che non esiste nella realtà: nessun welfare state può essere utile a chi muore in un attentato terroristico. In altri termini, la sicurezza dalla violenza omicida è, in Israele come ovunque, l'ovvia precondizione di qualsiasi poltica economica e sociale, sia essa di impronta liberale o sioialdemocratica.

Ecco il testo:

«È l’esplosione di un vulcano: non ho mai visto nulla di così significativo». Con queste parole Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità palestinese, ha commentato la decisione di Sharon di abbandonare il Likud. In realtà che il sistema politico israeliano fosse nella sua configurazione attuale del tutto inadeguato a conseguire l’obbiettivo storico di una definizione certa dei confini dello Stato è apparso chiaro fin dal compimento del ritiro da Gaza con la spaccatura che si era determinata all’interno del principale partito di governo. La mossa di Sharon, del resto, è strettamente consequenziale a un altro evento politico non meno innovativo.
Ossia la vittoria nelle primarie laburiste di un uomo come Peretz, ex leader dell'Hisdatrut, ebreo sefardita nato in Marocco, dunque non proveniente dalle gerarchie militari, dunque non appartenente alla ristretta oligarchia azkenazita, il quale nel discorso pronunciato al comitato centrale del partito che ha deciso l'uscita dal governo ha affermato: «La costituzione di uno stato di Palestina non è solo un interesse palestinese ma prima di tutto di Israele». La mossa di Sharon, di cui da tempo si parlava, sta dunque a significare la volontà di rispondere a questa forte novità rilanciando in avanti, sullo stesso terreno di quella politica del disingagement da lui stesso adottata unilateralmente. Del resto la decisione di passare il Rubicone con la creazione di un nuovo partito chiamato «Responsabilità nazionale» appare, già ora, tutt'altro che un salto nel buio. Sharon ha già conseguito in queste ore l'appoggio di 14 deputati sui 40 che costituiscono la rappresentanza del Likud alla Knesset, ossia di quel terzo degli eletti del partito che gli consentirà di accedere ai finanziamenti pubblici per la campagna elettorale. Le prime stime realistiche danno inoltre al nuovo partito un seguito di circa 28 deputati e qualunque possa essere l'insistenza sulla sua futura collocazione di centro sarà difficile far dimenticare all'opinione pubblica israeliana che si tratta di una nuova formazione politica nata per portare avanti la ricerca di un superamento dello scontro frontale con la minoranza palestinese. Si delinea, nella prospettiva, la possibilità di un nuovo governo di coalizione tra Sharon e un partito laburista finalmente rivitalizzato, in presenza di una destra oltranzista a questo punto profondamente disorientata e divisa al suo interno (la leadership di Nethanyau è già contestata da più parti), oltre che tendenzialmente spinta ai margini del nuovo equilibrio politico israeliano.
Difficile dunque sottovalutare la portata di quello che sta accadendo in questi giorni nella politica israeliana. Si tratta della rottura, ormai difficilmente reversibile, per quanto incerti possano ancora essere gli sviluppi futuri, di quella lunga stagnazione politica che si è determinata nel corso della seconda Intifada, corrispettivamente alla scelta di conferire una priorità incontrastata al problema della sicurezza militare. E tuttavia il terremoto politico di questi giorni rappresenta anche un primo punto di arrivo di un mutamento molecolare di lungo periodo che interessa simultaneamente sia la situazione interna in Israele che i più complessivi equilibri politici del Medioriente.
In effetti la sicurezza militare è entrata in un contrasto sempre più aperto con la sicurezza sociale. La destra israeliana si è progressivamente adeguata al modello che ha dominato negli ultimi vent'anni la destra europea e americana, coniugando strettamente scelte aggressive sul terreno della politica estera con orientamenti nettamente liberisti sul terreno della politica economica. Si è proceduto così al progressivo smantellamento di un solido sistema di sicurezza sociale posto in essere nel corso della lunga esperienza di governo del partito laburista, per questo aspetto sostanzialmente affine alla tradizione e alla esperienza della socialdemocrazia europea. Il milione di russi a cui lo stato di Israele ha aperto incondizionatamente le porte nello sforzo continuo di garantire una preminenza ebraica nella composizione demografica del paese ha poi contribuito a rendere sempre più intrattabili i problemi della sperequazione sociale. Per quanto paradossale possa apparire si sta andando oggi verso una campagna elettorale nel corso della quale, per la prima volta dopo molti anni, saranno i problemi della vita interna del paese ad avere un peso determinante. Peserà in particolare in modo decisivo sul risultato finale le scelte compiute dagli strati sociali più svantaggiati del paese. E non è certo un caso che in questa direzione comincino a volgersi anche i toni della campagna politica del Likud che si è fino ad oggi avvalso dei consensi provenienti dagli strati più bassi della piramide sociale.
Sarebbe tuttavia miope non vedere anche come dietro il terremoto che investe il sistema politico israeliano ci siano nello stesso tempo motivi profondi che interessano gli equilibri politici del medioriente. La politica di guerra preventiva adottata dall’amministrazione Bush certamente è valsa a scompaginare gli equilibri politici vigenti nella maggioranza degli stati arabi. Il rovesciamento di Saddam ha rappresentato un campanello di allarme per tutte le rendite di posizione createsi sulla base di una ripetizione ossessiva di un credo islamico sempre più inficiato dal fondamentalismo. E tuttavia è diventata nello stesso tempo di pubblico dominio la estrema debolezza di una politica estera affidata esclusivamente all'uso delle armi. Con un Bush al 37% dei consensi, e una opinione pubblica americana che chiede ormai apertamente un disimpegno rapido dall'Iraq, quale prospettiva può esserci per quella politica di sicurezza senza trattative diplomatiche a cui la destra israeliana ha legato tutte le sue fortune? Oggi il nuovo sembra avanzare faticosamente e dolorosamente in Medioriente passando attraverso le sconfitte delle posizioni che si sono a lungo combattute frontalmente.
Per questo non è escluso che le prossime elezioni in Israele possano dare un contributo di qualche rilievo alla riapertura nel Mediterraneo di un dialogo tra le culture, le tradizioni, le religioni, i diversi interessi economici e sociali. Senza di ciò la stessa prospettiva di sviluppo di una cittadinanza europea (lo stanno a dimostrare eloquentemente i tumulti che hanno scosso la Francia) è destinata a segnare il passo.
EUROPA pubblica a pagina 3 l'articolo di Imma Vitelli "Peretz, "il marocchino" che fa sperare anche il mondo arabo", dal quale, sulla base di alcuni editoriali apparsi sulla stampa libanese, dunque in un contesto molto particolare, sia per la tradizionale presenza di una stampa relativamente libera sia per i recenti moto democratici e anti-occupazione militare siriana, emerge un'immagne del mondo arabo entusiasta per l'emergere di un leader "sefardita" come Peres e speranzoso che il conflitto israelo-palestinese possa finalmente essere risolto.

Se l'idea di una Siria ansiosa di vedere uno Stato palestinese convivere con Israele è ridicola ( perché allora non cessa di finanziare il terrorismo?), quella di stati e opinioni pubbliche arabi felici per la fine della discriminazione ai danni degli ebrei orientali in Israele ha qualcosa di oltraggiioso.

Da un lato perché sono proprio alcuni dei paesi citati dalla Vitelli ad aver cacciato gli ebrei che vi abitavano.
Dall'altro perché ancor oggi in alcuni paesi arabi (pensiamo al regno saudita) sopravvivono discriminazioni legali ai danni di minoranze religiose ed etiniche che mai sono comparse in Israele, paese nel quale tutti i cittadini hanno sempre goduto di eguaglianza dei diritti.

Ecco il testo:

Che differenza un nuovo leader fa. Lo tsunami Amir Peretz aveva appena ribaltato i pronostici e soffiato al grande vecchio Simon Peres la leadership del Partito laburista israeliano, che un vento nuovo prendeva a soffiare sulle pagine degli editoriali dei giornali arabi. Il nome del sindacalista di Sderot significa "svolta" in ebraico, notava un osservatore degli Emirati, che proseguiva entusiasmandosi alle future prospettive di pace aperte da uomo, non tutti lo sanno, che nelle ore di relax coltiva rose.
I meno lirici, con pari trasporto, andavano al sodo: l’uomo nuovo della politica israeliana è pacifista, ebreo sefardita, per di più nato in Marocco. Un sogno, in pratica.
Peretz viene infatti da quella parte del paese generalmente definita "la seconda Israele", ebrei le cui radici sono piantate nel mondo musulmano. Cinquanta anni dopo il loro sbarco nella terra promessa, i mizrachim vivono ancora in condizioni miserabili dentro case popolari in centri urbani che lo sviluppo non ha toccato.
«Credo che l’entusiasmo dipenda dal fatto che Amir Peretz sia di origine marocchina», spiega a Europa Michael Young, analista del quotidiano libanese Daily Star, per cui cura la sezione opinioni ed editoriali. «A differenza della classe ashkenazita, l’elite politica di origine europea, i sefarditi conoscono bene la cultura e i costumi sociali degli arabi per averli condivisi. Tradizionalmente, inoltre, essi sono rimasti ai margini della società israeliana. Sanno che cosa significa sentirsi cittadini di seconda classe, un sentimento non dissimile da quello sperimentato dai palestinesi ».
Il fatto che sia di umili origini è un altro punto a favore di Peretz, assieme alla sua carriera di sindacalista: «Diciamocelo: dieci anni dopo la morte di Yitzhak Rabin, il nuovo leader del Partito laburista incarna la più grande speranza di pace con i palestinesi », sono le parole dello storico Habib Malik dell’Università Libanese Americana di Biblos. «Egli sa bene, per averlo sperimentato sulla sua pelle, che alla fine del conflitto si arriva solo attraverso il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, in Israele ma anche nei Territori ».
È la prima volta, dal collasso del processo di pace e di Camp David cinque anni fa, che non si respirava una simile benevolenza negli ambienti dell’intellighenzia araba.
E certo aiuta che il fatto che il volto nuovo del Labour sia un signore che da almeno vent’anni si batte per uno stato palestinese, schierato da sempre contro l’unilateralismo di Ariel Sharon e per di più determinato a riportare Israele sul "sentiero di Oslo", in un paese in cui gli architetti degli accordi del ‘93 sono generalmente definiti come «criminali ».
Ad alimentare l’entusiasmo è stato inoltre il suo discorso alla manifestazione per il decennale della morte di Rabin, sabato scorso. Peretz ha parlato della necessità di «una road map morale, la cui stella polare sia il rispetto per la dignità umana». Infiammando il popolo di sinistra, ha detto di avere anche lui un sogno, proprio come Martin Luther King: «Che i bambini palestinesi e israeliani possano un giorno giocare insieme e costruire un futuro comune ».
Parole che sono un balsamo per i regimi arabi, ormai impazienti di liberarsi dell’annoso problema palestinese.
Un paese importante come l’Arabia Saudita, per assicurarsi il recente ingresso nell’Organizzazione mondiale per il commercio, ha dovuto abolire il boicottaggio delle merci israeliane, un gesto impopolare a Riyadh in assenza di uno stato palestinese. La Tunisia ha appena accolto il ministro degli esteri dello stato ebraico Silvan Shalom, per non parlare delle ricche monarchie del Golfo come il Kuwait e il Qatar in prima fila nello sforzo di normalizzare i rapporti con Tel Aviv all’indomani del ritiro dalla Striscia di Gaza.
E perfino l’arcinemico siriano, tecnicamente in stato di guerra con lo stato ebraico per l’irrisolta questione del Golan, nonché assediato da una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che minaccia di decapitarlo, ha trovato il tempo e sentito il bisogno di esprimere sentimenti di soddisfazione per «il cambiamento positivo sulla scena politica israeliana», rappresentato dall’ascesa del marocchino Peretz.
Ma ad esprimere il sentimento più comune è stato forse il giornale dell’analista Young, il Daily Star, con un editoriale dal titolo: «L’invidia degli arabi». Più che tessere le lodi del nuovo leader del Labour, il foglio di Beirut si è entusiasmato perché gli israeliani, beati loro, i capi dei partiti li cambiano, e spesso. «Il popolo israeliano avrà la possibilità, fra pochi mesi, di scegliere tra il premier Ariel Sharon e un totale sconosciuto come Amir Peretz, possibilità che oltre duecento milioni di arabi non hanno. I pochi sciocchi che non apprezzano il divino diritto dei raìs a passare il trono a figli e discendenti languiscono in prigione o spariscono tout court. Oh, Israele, dov’è il nostro seggio elettorale?»
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