Sull'uccisione di Delara Darabi non si dovrebbe usare il verbo " giustiziare", non vi è nessuna giustizia in Iran. Riprendiamo dal CORRIERE dellaSERA l'editoriale di Angelo Panebianco, la cronaca di Viviana Mazza, e una descrizione del carcere iraniano di Evin di Guido Olimpio, a pag.15. Seguono le dichiarazioni di Farian Sabahi al Gr 1 del 2 maggio,ore 8, con un nostro commento.
Corriere della Sera- Angelo Panebianco: " La sfida crudele di un regime "
In Iran, una giovane pittrice, Delara Darabi, è stata giustiziata per omicidio dopo un processo che Amnesty International ha giudicato non equo, non rispettoso dei diritti della difesa. Amnesty non è l’oracolo e la valutazione sui procedimenti giudiziari che comportano pene capitali è sempre controversa. Ma la notizia segue di poche settimane quella sulla condanna a otto anni «per spionaggio» alla giornalista americana-iraniana Roxana Saberi e contribuisce a ribadire la fosca reputazione del regime. Non più fosca di quella di altri regimi autoritari, naturalmente. Ma con la differenza che l’Iran è una grande potenza regionale le cui scelte in gran parte decideranno se ci sarà pace o guerra in Medio Oriente nei prossimi anni.
Sfrondata dagli usuali toni retorici, la questione della violazione sistematica dei diritti umani incide in due modi sui rapporti internazionali. Da un lato, radicalizza la distanza, culturale e psicologica, fra i regimi democratici e i regimi autoritari. Dall’altro, in caso di gravi contenziosi geo-politici, rende difficile trovare forme di risoluzione pacifica delle controversie: nessuno può fidarsi di nessuno. Ad esempio, nel caso dell’Iran e della sua volontà di diventare una potenza nucleare, a fare paura non è la bomba nucleare iraniana in sé. A fare paura è la bomba nucleare in mano a un regime come quello degli ayatollah.
Contro l’opinione di coloro che mettono sullo stesso piano i regimi autoritari e quelli democratici ricordando le magagne di questi ultimi, si può osservare che la differenza resta comunque netta. Non è che i primi violino i diritti umani e i secondi no. La differenza è che nel caso dei regimi autoritari la violazione di quei diritti è la norma, rispecchia la quotidianità dei rapporti fra potere politico e sudditi, mentre nel caso dei regimi democratici è l’eccezione.
Quando una dura politica repressiva all’interno si sposa, come in Iran, a una politica estera «rivoluzionaria », a una proiezione aggressiva verso l’esterno (programma nucleare, appoggio ad Hamas e Hezbollah, aspirazione all’egemonia regionale, minacce a Israele, radicale contrapposizione ideologica all’Occidente), i margini di manovra per chi aspira a instaurare un modus vivendi con la potenza in questione diventano quasi nulli. Persino quando ci sarebbe, come c’è nei confronti dell’Iran, l’interesse a trovare un accomodamento: contro l’Iran sarà infatti difficile stabilizzare l’Iraq, trovare soluzioni al conflitto israeliano-palestinese, concentrare ogni sforzo nella guerra afghano-pachistana.
Né il pugno chiuso di Bush né (finora) la mano tesa di Obama hanno prodotto risultati. L’Iran non dà segnali di voler normalizzare i suoi rapporti con il resto del mondo. Sfortunatamente, la normalizzazione non può esserci, e non ci sarà, senza significativi cambiamenti del regime. Quanto meno, senza cambiamenti che segnalino il passaggio dalla fase rivoluzionaria (iniziata con Khomeini nel 1979 e mai terminata) a quella post-rivoluzionaria. Il giorno in cui avvenisse quel passaggio, l’inaugurazione di una politica estera più cauta e pragmatica potrebbe accompagnarsi alla decisione di migliorare l’immagine internazionale del regime. Ne conseguirebbe una minore propensione a fare uso del pugno di ferro nei confronti degli iraniani. Al momento, però, di tutto questo non c’è traccia alcuna.
Corriere della Sera-Viviana Mazza: " Impiccata Delara, choc in Iran e nel mondo"
«Conobbi Delara tre anni fa nel carcere di Rasht — racconta via email da Teheran l’attivista e giornalista Asieh Amini —. Ho seguito molti casi di minorenni e di donne condannati a morte come lei in Iran. La prima è stata Atefeh (impiccata a 16 anni nel 2004, ndr). Delara era seduta in cortile. Era sottile, piccola. La madre insisteva che si truccasse e indossasse colori vivaci perché era depressa. Aveva una bella mantella rossa e i capelli tinti di castano scuro. Ma si vedeva lo stesso la sua tristezza. Delara era una vera artista. Stavo organizzando una mostra dei suoi quadri a Teheran per attirare l’attenzione sul suo caso. Mi ha abbracciato e mi ha sussurrato all’orecchio: 'Grazie, hai realizzato il mio sogno d’essere una famosa pittrice'. 'Ma che senso ha', ha aggiunto, 'se sono rinchiusa qui dentro?'».
Delara Darabi è stata seppellita ieri mattina a Rasht, sul Mar Caspio, dov’era nata 23 anni fa, davanti ai parenti, a centinaia di attivisti e gente comune. È stata impiccata l’altro ieri, dopo 5 anni in carcere, per un omicidio che avrebbe commesso a 17 anni. Una violazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Iran. Dapprima Delara si era detta colpevole. Poi aveva rivelato che l’assassino era il fidanzato 19enne che le aveva chiesto di proteggerlo. Ma la Corte suprema ha confermato il verdetto.
L’esecuzione è avvenuta senza preavviso. L’avvocato difensore, che per la legge iraniana deve essere informato 48 ore prima, non sapeva nulla. Alle 7 del mattino Delara ha telefonato ai genitori, racconta Amini, che li ha visti l’altro ieri. «Mamma, stanno per uccidermi». La madre le passa il padre, che non ci crede: «Cercano di spaventarti ». L’esecuzione, fissata per il 20 aprile, era stata infatti rinviata a giugno. Il capo della magistratura, ayatollah Shahrudi, aveva concesso due mesi per persuadere i familiari della vittima a perdonare Delara e così, in base alla sharia, salvarla. Delara insiste: «Papà, vedo la forca». Un uomo le strappa la cornetta di mano: «Siete così stupidi da credere che non sarà giustiziata? ». I genitori corrono alla prigione, non li fanno entrare. Una compagna di cella di Delara li chiama: «E’ morta».
L’esecuzione è un duro colpo per attivisti come Amini in Iran, come l’avvocato Mohammed Mostafaei, che ha difeso Delara e segue una ventina di casi di minori nel braccio della morte. «Delara era molto più che una persona. Era anche un simbolo — spiega da Oslo il portavoce di Iran Human Rights Mahmood Amiry-Moghaddam —. Le autorità hanno voluto mostrare chi comanda agli iraniani impegnati contro le esecuzioni di bambini». Un movimento cresciuto negli ultimi tre anni, una campagna martellante nell’ultimo mese: martedì anche 20 nomi noti tra cui Shirin Ebadi e il candidato alla presidenza Karroubi hanno firmato un appello contro le esecuzioni dei minori. Mostafaei promette che la battaglia continuerà. L’Unione Europea ieri ha espresso una «forte condanna ». Ma Amiry-Moghaddam avverte: «Dall’estero è mancata la mobilitazione politica dei governi. Le condanne formali non bastano, sono solo parole».
Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Evin, la fabbrica delle torture "
WASHINGTON — Fino a poco tempo fa sull’elenco telefonico di Teheran l’indirizzo era «Consultorio per il disordine di comportamento». In realtà il «consultorio » è la prigione di Evin. Uno dei carceri che fanno parte di un network esteso dove sono rinchiusi oppositori, dissidenti, spie e criminali comuni. Ma per «lavorarseli» meglio i mullah hanno creato «uffici» speciali gestiti direttamente dal ministero dell’Intelligence e dai pasdaran.
All’interno di Evin vi sono due sezioni particolari. La 209 e la 325. La prima – secondo fonti dell’opposizione – dispone di 90 celle di isolamento suddivise in 9 «corridoi». La seconda ha «gabbie» più piccole. I prigionieri sono tenuti molto spesso bendati, indossano divise di colore diverso da quello degli altri detenuti e in caso di problemi medici vengono portati in un ambulatorio riservato solo ai «politici».
In base alle informazioni raccolte dagli esuli, la 209 e la 325 hanno subito ristrutturazioni nel 2008. Cambiamenti eseguiti su ordine dell’ufficio del presidente Ahmadinejad. E, infatti, sono state costruite delle salette insonorizzate per le sedute di interrogatorio e altre dove si ricorre alla tortura bianca. In queste celle la luce è tenuta costantemente accesa, il detenuto così non ha alcuna possibilità di riposare. Con la privazione del sonno e l’alterazione del ritmo biologico si sfianca il prigioniero inducendolo a firmare qualsiasi confessione. Sistemi sofisticati che vengono alternati con quelli brutali. Percosse, violenze, sevizie, pressioni psicologiche usando i familiari come ostaggi. E’ nella sezione 209 che è stata picchiata a morte la fotografa irano-canadese Zahra Kazemi, arrestata proprio perché stava scattando foto all’esterno di Evin.
I segreti della prigione sono ben protetti dalle autorità che cercano di dimostrare che la situazione all’interno è accettabile. Nel 2007 hanno permesso la visita a un gruppo di giornalisti. I reporter hanno potuto vedere solo alcune parti: ovviamente tutto era lindo, pulito, «normale ». Ma, nello stesso anno, i dirigenti della sicurezza hanno rifiutato l’accesso a una delegazione di deputati. Volevano ispezionare la «209», però l’intelligence non era d’accordo. Un no significativo.
Il carcere della capitale non è l’unico centro ad essere usato nella campagna di repressione. Già sotto la presidenza del riformista Khatami, i pasdaran e l’intelligence hanno moltiplicato i luoghi di detenzione in strutture segrete. E con loro avrebbero collaborato i miliziani Basji e l’organizzazione Hezbollah (da non confondere con il movimento libanese). Spesso si tratta di una serie di appartamenti o di casermette trasformate in quelle che i servizi segreti chiamano «buchi neri». La loro presenza è stata scoperta dai dissidenti dopo la detenzione di alcuni loro compagni.
In un rapporto diffuso nel marzo di quest’anno a Washington si segnalano, ad esempio, la «prigione 59» all’interno della base militare di Vali E Asr o quella di Khatam Ul Anbiya, realizzata in una zona residenziale. Nello stesso dossier sono indicate le gravi violazioni commesse nel braccio femminile del carcere di Rasht, lo stesso dove è stata impiccata la pittrice Delara Derabi.
Gr 1, 2 maggio, ore 8- Vincenzo Mungo intervista Farian Sabahi:
Particolarmente ciniche e ripugnanti le dichiarazioni di Farian Sabahi, giornalista specializzata nella difesa d'ufficio del regime criminale iraniano. Ecco quanto ha dichiarato ieri 2 maggio al Gr 1 delle ore 8 nell'intervista di Vincenzo Mungo:
Dopo una presentazione sostanzialmente corretta di tutta la vicenda,
Vincenzo Mungo, caposervizio alla redazione esteri del giornale radio RAI
intervista Farian Sabahi. Di seguito l'intervista.
Farian Sabahi: per il codice penale iraniano una femmina diventa maggiorenne
a 9 anni e un maschio a 15, quindi Daberi è stata giudicata come se avesse
commesso il reato da maggiorenne. C'è poi un altro problema, cioè che per il
sistema giuridico iraniano, in caso di omicidio, può concedere la grazia
soltanto la famiglia della persona uccisa, che può esigere un risarcimento
in denaro oppure esigere l'applicazione della legge del taglione, cioè una
vita per una vita.
Vincenzo Mungo: Daberi non era minorenne per la legge iraniana ma lo era per
la convenzione internazionale che Teheran aveva firmato.
Farian Sabahi: si, certo, anziché limitarsi a criticare aspramente l'Iran
per questa condanna a morte, forse sarebbe però più opportuno trovare un
modo per avvicinare il sistema giuridico della repubblica islamica al
diritto internazionale. Potrebbe essere materia di scambio, per esempio, se
il ministro degli esteri Frattini decidesse di andare in Iran.
Vincenzo Mungo: i giudici della corte suprema avevano deciso alcune
settimane fa di sospendere l'esecuzione della condanna per due mesi. Perché
questo ripensamento?
Farian Sabahi: l'impressione è che l'esecuzione della Daberi sia stata
affrettata per evitare che la comunità internazionale facesse troppo rumore
come successo in altri casi.
Farian Sabahi scriveva sulla STAMPA, fino a quando è stata allontanata per avere manipolato un'intervista allo scrittore israeliano A.B.Yehoshua (anche allora l'argomento era proprio l'Iran). A poi iniziato la collaborazione con il CORRIERE della SERA ( due articoli), dove a scrivere con il suo stesso stile sull'Iran provvede già Sergio Romano. Due è meglio di one, come diceva una pubblicità, soprattutto considerando le credenziali professionali della Sabahi, un appoggio per entrare al Corriere non poteva mancarle. Ci auguriamo che il direttore De Bortoli ci pensi a lungo prima di ospitarne gli articoli sulle pagine del giornale che dirige. Per questo chiediamo ai nostri lettori di scrivere al direttore del CORRIERE della SERA per chiedergli se condivide la linea della Sabahi sullo Stato dei mullah.
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