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Corriere della Sera-Gr 1 Rassegna Stampa
03.05.2009 Delara Dalabi impiccata in Iran, orrore e comprensioni
sono quelle, ciniche, di Farian Sabahi

Testata:Corriere della Sera-Gr 1
Autore: Angelo Panebianco.Viviana Mazza-Guido Olimpio-Vincenzo Mungo
Titolo: «La sfida crudele di un regime»
               
lettere@corriere.it
grr@rai.it

Sull'uccisione di Delara Darabi non si dovrebbe usare il verbo " giustiziare", non vi è nessuna giustizia in Iran. Riprendiamo dal CORRIERE dellaSERA l'editoriale di Angelo Panebianco,  la cronaca di Viviana Mazza, e una descrizione del carcere iraniano di Evin di Guido Olimpio, a pag.15.  Seguono le dichiarazioni di Farian Sabahi al Gr 1 del 2 maggio,ore 8, con un nostro commento.

Corriere della Sera- Angelo Panebianco: " La sfida crudele di un regime "

In Iran, una giovane pittrice, Delara Dara­bi, è stata giustiziata per omicidio dopo un processo che Amnesty In­ternational ha giudicato non equo, non rispettoso dei diritti della difesa. Am­nesty non è l’oracolo e la valutazione sui procedi­menti giudiziari che com­portano pene capitali è sempre controversa. Ma la notizia segue di poche set­timane quella sulla con­danna a otto anni «per spionaggio» alla giornali­sta americana-iraniana Ro­xana Saberi e contribuisce a ribadire la fosca reputa­zione del regime. Non più fosca di quella di altri regi­mi autoritari, naturalmen­te. Ma con la differenza che l’Iran è una grande po­tenza regionale le cui scel­te in gran parte decideran­no se ci sarà pace o guerra in Medio Oriente nei pros­simi anni.
Sfrondata dagli usuali toni retorici, la questione della violazione sistemati­ca dei diritti umani incide in due modi sui rapporti internazionali. Da un lato, radicalizza la distanza, cul­turale e psicologica, fra i re­gimi democratici e i regi­mi autoritari. Dall’altro, in caso di gravi contenziosi geo-politici, rende difficile trovare forme di risoluzio­ne pacifica delle controver­sie: nessuno può fidarsi di nessuno. Ad esempio, nel caso dell’Iran e della sua volontà di diventare una potenza nucleare, a fare pa­ura non è la bomba nuclea­re iraniana in sé. A fare pa­ura è la bomba nucleare in mano a un regime come quello degli ayatollah.
Contro l’opinione di co­loro che mettono sullo stesso piano i regimi auto­ritari e quelli democratici ricordando le magagne di questi ultimi, si può osser­vare che la differenza resta comunque netta. Non è che i primi violino i diritti umani e i secondi no. La differenza è che nel caso dei regimi autoritari la vio­lazione di quei diritti è la norma, rispecchia la quoti­dianità dei rapporti fra po­tere politico e sudditi, mentre nel caso dei regimi democratici è l’eccezione.
Quando una dura politi­ca repressiva all’interno si sposa, come in Iran, a una politica estera «rivoluzio­naria », a una proiezione aggressiva verso l’esterno (programma nucleare, ap­poggio ad Hamas e Hezbol­lah, aspirazione all’egemo­nia regionale, minacce a Israele, radicale contrappo­sizione ideologica all’Occi­dente), i margini di mano­vra per chi aspira a instau­rare un
modus vivendi con la potenza in questione di­ventano quasi nulli. Persi­no quando ci sarebbe, co­me c’è nei confronti del­­l’Iran, l’interesse a trovare un accomodamento: con­tro l’Iran sarà infatti diffici­le stabilizzare l’Iraq, trova­re soluzioni al conflitto israeliano-palestinese, con­centrare ogni sforzo nella guerra afghano-pachista­na.
Né il pugno chiuso di Bush né (finora) la mano tesa di Obama hanno pro­dotto risultati. L’Iran non dà segnali di voler norma­lizzare i suoi rapporti con il resto del mondo. Sfortu­natamente, la normalizza­zione non può esserci, e non ci sarà, senza significa­tivi cambiamenti del regi­me. Quanto meno, senza cambiamenti che segnali­no il passaggio dalla fase ri­voluzionaria (iniziata con Khomeini nel 1979 e mai terminata) a quella post-ri­voluzionaria. Il giorno in cui avvenisse quel passag­gio, l’inaugurazione di una politica estera più cauta e pragmatica potrebbe ac­compagnarsi alla decisio­ne di migliorare l’immagi­ne internazionale del regi­me. Ne conseguirebbe una minore propensione a fare uso del pugno di ferro nei confronti degli iraniani. Al momento, però, di tutto questo non c’è traccia alcu­na.

Corriere della Sera-Viviana Mazza: " Impiccata Delara, choc in Iran e nel mondo"

«Conobbi Delara tre anni fa nel carcere di Rasht — racconta via email da Teheran l’attivista e giornalista Asieh Amini —. Ho seguito molti casi di mino­renni e di donne condannati a morte come lei in Iran. La pri­ma è stata Atefeh (impiccata a 16 anni nel 2004, ndr). Delara era seduta in cortile. Era sottile, piccola. La madre insisteva che si truccasse e indossasse colori vivaci perché era depressa. Ave­va una bella mantella rossa e i capelli tinti di castano scuro. Ma si vedeva lo stesso la sua tri­stezza. Delara era una vera arti­sta. Stavo organizzando una mostra dei suoi quadri a Tehe­ran per attirare l’attenzione sul suo caso. Mi ha abbracciato e mi ha sussurrato all’orecchio: 'Grazie, hai realizzato il mio so­gno d’essere una famosa pittri­ce'. 'Ma che senso ha', ha ag­giunto, 'se sono rinchiusa qui dentro?'».
Delara Darabi è stata seppelli­ta ieri mattina a Rasht, sul Mar Caspio, dov’era nata 23 anni fa, davanti ai parenti, a centinaia di attivisti e gente comune. È stata impiccata l’altro ieri, dopo 5 anni in carcere, per un omici­dio che avrebbe commesso a 17 anni. Una violazione della Con­venzione Onu sui diritti dell’in­fanzia, ratificata dall’Iran. Dap­prima Delara si era detta colpe­vole. Poi aveva rivelato che l’as­sassino era il fidanzato 19enne che le aveva chiesto di proteg­gerlo. Ma la Corte suprema ha confermato il verdetto.
L’esecuzione è avvenuta sen­za preavviso. L’avvocato difen­sore, che per la legge iraniana deve essere informato 48 ore prima, non sapeva nulla. Alle 7 del mattino Delara ha telefona­to ai genitori, racconta Amini, che li ha visti l’altro ieri. «Mam­ma, stanno per uccidermi». La madre le passa il padre, che non ci crede: «Cercano di spaventar­ti ». L’esecuzione, fissata per il 20 aprile, era stata infatti rinvia­ta a giugno. Il capo della magi­stratura, ayatollah Shahrudi, aveva concesso due mesi per persuadere i familiari della vitti­ma a perdonare Delara e così, in base alla sharia, salvarla. Delara insiste: «Papà, vedo la forca». Un uomo le strappa la cornetta di mano: «Siete così stupidi da credere che non sarà giustizia­ta? ». I genitori corrono alla pri­gione, non li fanno entrare. Una compagna di cella di Delara li chiama: «E’ morta».
L’esecuzione è un duro colpo per attivisti come Amini in Iran, come l’avvocato Moham­med Mostafaei, che ha difeso Delara e segue una ventina di casi di minori nel braccio della morte. «Delara era molto più che una persona. Era anche un simbolo — spiega da Oslo il portavoce di
Iran Human Ri­ghts Mahmood Amiry-Moghad­dam —. Le autorità hanno volu­to mostrare chi comanda agli iraniani impegnati contro le esecuzioni di bambini». Un mo­vimento cresciuto negli ultimi tre anni, una campagna martel­lante nell’ultimo mese: martedì anche 20 nomi noti tra cui Shi­rin Ebadi e il candidato alla pre­sidenza Karroubi hanno firma­to un appello contro le esecuzio­ni dei minori. Mostafaei pro­mette che la battaglia continue­rà. L’Unione Europea ieri ha espresso una «forte condan­na ». Ma Amiry-Moghaddam av­verte: «Dall’estero è mancata la mobilitazione politica dei go­verni. Le condanne formali non bastano, sono solo parole».

Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Evin, la fabbrica delle torture "

WASHINGTON — Fino a poco tempo fa sull’elenco telefonico di Teheran l’in­dirizzo era «Consultorio per il disordine di comportamento». In realtà il «consul­torio » è la prigione di Evin. Uno dei car­ceri che fanno parte di un network este­so dove sono rinchiusi oppositori, dissi­denti, spie e criminali comuni. Ma per «lavorarseli» meglio i mullah hanno cre­ato «uffici» speciali gestiti direttamente dal ministero dell’Intelligence e dai pa­sdaran.
All’interno di Evin vi sono due sezioni particolari. La 209 e la 325. La prima – secondo fonti dell’opposizione – dispo­ne di 90 celle di isolamento suddivise in 9 «corridoi». La seconda ha «gabbie» più piccole. I prigionieri sono tenuti mol­to spesso bendati, indossano divise di colore diverso da quello degli altri dete­nuti e in caso di problemi medici vengo­no portati in un ambulatorio riservato solo ai «politici».
In base alle informazioni raccolte da­gli esuli, la 209 e la 325 hanno subito ri­strutturazioni nel 2008. Cambiamenti eseguiti su ordine dell’ufficio del presi­dente Ahmadinejad. E, infatti, sono sta­te costruite delle salette insonorizzate per le sedute di interrogatorio e altre do­ve si ricorre alla tortura bianca. In que­ste celle la luce è tenuta costantemente accesa, il detenuto così non ha alcuna possibilità di riposare. Con la privazione del sonno e l’alterazione del ritmo biolo­gico si sfianca il prigioniero inducendo­lo a firmare qualsiasi confessione. Siste­mi sofisticati che vengono alternati con quelli brutali. Percosse, violenze, sevi­zie, pressioni psicologiche usando i fa­miliari come ostaggi. E’ nella sezione 209 che è stata picchiata a morte la foto­grafa irano-canadese Zahra Kazemi, arre­stata proprio perché stava scattando fo­to all’esterno di Evin.
I segreti della prigione sono ben pro­tetti dalle autorità che cercano di dimo­strare che la situazione all’interno è ac­cettabile. Nel 2007 hanno permesso la vi­sita a un gruppo di giornalisti. I reporter hanno potuto vedere solo alcune parti: ovviamente tutto era lindo, pulito, «nor­male ». Ma, nello stesso anno, i dirigenti della sicurezza hanno rifiutato l’accesso a una delegazione di deputati. Volevano ispezionare la «209», però l’intelligence non era d’accordo. Un no significativo.
Il carcere della capitale non è l’unico centro ad essere usato nella campagna di repressione. Già sotto la presidenza del riformista Khatami, i pasdaran e l’in­telligence hanno moltiplicato i luoghi di detenzione in strutture segrete. E con lo­ro avrebbero collaborato i miliziani Basji e l’organizzazione Hezbollah (da non confondere con il movimento liba­nese). Spesso si tratta di una serie di ap­partamenti o di casermette trasformate in quelle che i servizi segreti chiamano «buchi neri». La loro presenza è stata scoperta dai dissidenti dopo la detenzio­ne di alcuni loro compagni.
In un rapporto diffuso nel marzo di quest’anno a Washington si segnalano, ad esempio, la «prigione 59» all’interno della base militare di Vali E Asr o quella di Khatam Ul Anbiya, realizzata in una zona residenziale. Nello stesso dossier sono indicate le gravi violazioni com­messe nel braccio femminile del carcere di Rasht, lo stesso dove è stata impicca­ta la pittrice Delara Derabi.

Gr 1, 2 maggio, ore 8- Vincenzo Mungo intervista Farian Sabahi:

Particolarmente ciniche e ripugnanti le dichiarazioni di Farian Sabahi, giornalista specializzata nella difesa d'ufficio del regime criminale iraniano. Ecco quanto ha dichiarato ieri 2 maggio al Gr 1 delle ore 8 nell'intervista di Vincenzo Mungo:

Dopo una presentazione sostanzialmente corretta di tutta la vicenda,
Vincenzo Mungo, caposervizio alla redazione esteri del giornale radio RAI
intervista Farian Sabahi. Di seguito l'intervista.

Farian Sabahi: per il codice penale iraniano una femmina diventa maggiorenne
a 9 anni e un maschio a 15, quindi Daberi è stata giudicata come se avesse
commesso il reato da maggiorenne. C'è poi un altro problema, cioè che per il
sistema giuridico iraniano, in caso di omicidio, può concedere la grazia
soltanto la famiglia della persona uccisa, che può esigere un risarcimento
in denaro oppure esigere l'applicazione della legge del taglione, cioè una
vita per una vita.
Vincenzo Mungo: Daberi non era minorenne per la legge iraniana ma lo era per
la convenzione internazionale che Teheran aveva firmato.
Farian Sabahi: si, certo, anziché limitarsi a criticare aspramente l'Iran
per questa condanna a morte, forse sarebbe però più opportuno trovare un
modo per avvicinare il sistema giuridico della repubblica islamica al
diritto internazionale. Potrebbe essere materia di scambio, per esempio, se
il ministro degli esteri Frattini decidesse di andare in Iran.
Vincenzo Mungo: i giudici della corte suprema avevano deciso alcune
settimane fa di sospendere l'esecuzione della condanna per due mesi. Perché
questo ripensamento?
Farian Sabahi: l'impressione è che l'esecuzione della Daberi sia stata
affrettata per evitare che la comunità internazionale facesse troppo rumore
come successo in altri casi.

Farian Sabahi scriveva sulla STAMPA, fino a quando è stata allontanata per avere manipolato un'intervista allo scrittore israeliano A.B.Yehoshua (anche allora l'argomento era proprio l'Iran). A poi iniziato la collaborazione con il CORRIERE della SERA ( due articoli), dove a scrivere con il suo stesso stile sull'Iran provvede già Sergio Romano. Due è meglio di one, come diceva una pubblicità, soprattutto considerando le credenziali professionali della Sabahi, un appoggio per entrare al Corriere non poteva mancarle. Ci auguriamo che il direttore De Bortoli ci pensi a lungo prima di ospitarne gli articoli sulle pagine del giornale che dirige. Per questo chiediamo ai nostri lettori di scrivere al direttore del CORRIERE della SERA per chiedergli se condivide la linea della Sabahi sullo Stato dei mullah.

Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera e al Gr 1, cliccare sulle e-mail sottostanti.

lettere@corriere.it;grr@rai.it


 
 

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