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Il Giornale Rassegna Stampa
27.12.2023 Con gli ufficiali della 14esima Brigata: Conflitto diabolico ma stiamo vincendo
Commento di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 27 dicembre 2023
Pagina: 12
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Con gli ufficiali della 14esima Brigata: Conflitto diabolico ma stiamo vincendo»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 27/12/2023 a pag.12 il commento di Fiamma Nirenstein con il titolo: "Con gli ufficiali della 14esima Brigata: Conflitto diabolico ma stiamo vincendo".

Fiamma Nirenstein
Fiamma Nirenstein

ha salvato Israele durante la guerra del Kippur
L'eroica 14esima Brigata salvò Israele durante la guerra del Kippur

Giallo è il colore di questa guerra. La polvere è alta anche nelle prime giornate di fango. Le nuvole nere e i bum sul nord della Striscia segnalano la battaglia. Ancora, dalle rovine partono fantasmi di missili che si avventano su Sderot. I tank, i nagmash, i namer, i veicoli corazzati sono in fila per la revisione, un numero enorme: siamo nella base di Tze’elim. Una città di tende e capanni di cemento da cui si entra e si esce a combattere. Qui incontriamo i soldati che devono fornire, in giornate di coraggio e di lutto (in due giorni ne sono caduti 18) la risposta a quella che il New York Times ha appena definito “una guerra diversa da qualsiasi altra combattuta fino ad oggi”. Da Tze Elim la si combatte nel nord, a Gaza città, a Jabalia: qui le prime fortezze del terrore sono state quasi spianate e conquistate. Eppure, i soldati continuano a essere sorpresi da agguati improvvisi, nelle trappole esplosive, ormai dall’inizio della guerra 160 sono stati uccisi. Eppure, lo spirito è alto da 70 giorni. La Striscia è costruita solo la guerra di distruzione contro Israele, vicoli, edifici, scuole, ospedali, appartamenti, un’incredibile rete di gallerie dove tutto è esplosioni e spari, e ogni abitante per paura o fede è uno shahid. Per battere Hamas, perché Israele possa esistere, da Tze Elim le unità dei miluim, le riserve, escono ogni giorno per combattere, senza tornare al lavoro, alla famiglia: Asaf, un colonnello di 51 anni, che a casa dirige un ufficio di robotica giapponese, moglie medico e tre figli, qui dirige la guerra: è il comandante delle operazioni. Tutto è nelle sue mani: sotto una tenda con tecnologia super raffinata, coordina, secondo le decisioni strategiche, esercito di terra, marina, ingegneri, informazioni, e yalom (che vuol dire “diamante” e sa fare tutto, come entrare in una galleria). Lui ordina di andare avanti, indietro, “adesso!” “Stop!”, cambiate strada, distruggete, evitate. Dal 7 di ottobre ha questo gigantesco incarico. Esce da una tenda come di malavoglia; è un eroe moderno, un patriota tecnologico carico di responsabilità e di ironia: “Io guido la guerra dall’alto” sorride. È lui che muove la Brigata 14 delle riserve, la mitica, che ha salvato Israele durante la guerra del Kippur scavalcando lo Stretto di Suez agli ordini di Sharon e che per prima è entrata a Gaza dopo le atrocità. “Da qui dirigo la guerra della fanteria, dell’artiglieria, gli dico dove andare, dove evitare, cosa fare. Faccio levare in volo i droni, per vedere bene gli obiettivi, le armi, i terroristi… se ce n’è necessità e non ci sono cittadini innocenti, muovo l’aviazione a preparare il terreno, ma la richiamo indietro se improvvisamente dei bambini appaiono sulla strada o nelle case…”. Capita spesso? “Dopo tre mesi, meno. Ma la scelta resta: non violare le leggi internazionale, salvaguardando la vita dei miei. Allontano da un obiettivo, dico di spostarsi, di aspettare, di considerare che da quella finestra possono sparare. Faccio muovere avanti al momento giusto”. Asaf si irrita: “Non è vero che il 7 siamo arrivati tardi. Tardi esprime una percezione, ma qui un esercito intero si è mosso a fronte di un caos inaspettato coi carri armati, gli aerei, siamo arrivati nel minor tempo possibile. In difesa. E quando finalmente siamo andati all’attacco… tutto ha funzionato”. Ma le tante perdite, la guerra lenta, Sinwar latita… “Stiamo vincendo la guerra più difficile: i risultati sono sempre maggiori, molte gallerie scoperte, i rifugi dei terroristi conosciuti, i covi di armi rivelati e distrutti. Ogni giorno ne sappiamo di più, facciamo passi importanti. Se lei aspetta che Sinwar esca a mani alzate, non so, ma penso che senta i nostri tank sopra la testa. Calma, Tempo. Di questo abbiamo bisogno. Combattiamo bene. Lasciateci fare. Tempo. Distruggeremo il nemico di tutti”. Tornato da poco da un’operazione, il maggiore Yehuda, ingegnere industriale, 43 anni, della 14 brigata, anche lui da 70 giorni quasi non ha visto moglie e quattro figli. Ha combattuto prima kibbutz per kibbutz contro i terroristi. È stato anche lui settimane senza levarsi le scarpe? “Ci si fa l’abitudine”, magro alto, l’ingegnere è sorridente. È soddisfatto di sé e dei suoi compagni, che ci girano intorno anche loro appena tornati e già pronti a rientrare. “Nei primi giorni di guerra una quantità di volontari si è precipitata da noi carica di pentole dolci e cioccolata… non facevamo che mangiare”. La notte si riposa sempre pronti a uscire in 15 in una tenda. Dei compagni perduti Yehuda non vuole parlare: “troppo fresco”. “Deve capire che siamo tutti comunque decisi a combattere fino alla vittoria: quattro giorni prima del 7 ottobre con moglie e figli, siamo venuti a fare “biking” a Be’eri. Se venivamo quattro giorni dopo, saremmo stati macellati”. “Io sono un Kasha” spiega il maggiore, ed è una cosa seria “In prima fila camminano alcuni soldati aprendo la strada, poi subito dopo, a piedi, arrivo io”. Yehuda cammina solo sulle rovine delle strade sventrate, deve indicare al tank che segue dove è nascosto il pericolo da abbattere e l’obiettivo da combattere. Ha paura? “Dopo, semmai. Là stai ben concentrato su che cosa fare” Ci sono finestre in cui si nascondono i cecchini, bocche delle gallerie da cui ci si può aspettare di tutto, porte, vicoli: “Devo scovare i terroristi, evitare i civili, scovare i covi da cui si possono sparare i proiettili anti tank e decidere di colpire. Vado avanti piano. Certo, se sparassimo sulla gente faremmo prima. Ma cerchiamo di non colpire innocenti”. Però da tutto il mondo si dice che lo facciate “Purtroppo può capitare. Ma è la struttura stessa di questa guerra che è preparata in modo diabolico: la mia unità ha appena trovato sotto due letti dei bambini missili RPG, capirei che li tenessero in casa, ma non nella camera dei bambini”. Yehuda non incontra molti gazani: invitata coi volantini a scendere al sud, in genere la gente l’ha fatto “E se vediamo individui in movimento o sono terroristi o loro amici”. Yehuda da vent’anni viene nelle riserve con un amico, Dror, la sua sicurezza, l’incarnazione della solidarietà che qui si respira fra i soldati: “Mentre cammino ci parliamo con gli auricolari: mi avverte di ogni rischio, gli chiedo di proteggermi su un fianco, di dirmi cosa c’è qua, là, ed è sempre con me. Il mio angelo personale. Mi fido di lui ad occhi chiusi. Se sospetto una trappola, subito agisce”. È amicizia consolidata dalla sensazione di stare facendo qualcosa di indispensabile, la respiri fra i soldati che sono là, e solo là vogliono essere. Te lo ripetono, si scocciano quando chiedi se hanno nostalgia, o paura… certo, e allora? Salviamo il Paese, siamo noi il muro di difesa. Lasciateci fare. Sanno qualcosa che nessun’altro sa. Responsabilità, eroismo? “Il mio sogno? Entrare in un palazzo e trovare la sorpresa di un gruppo di rapiti, vivi! Abbracciarli, difenderli, riportarli a casa”.

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