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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale Rassegna Stampa
24.10.2023 Oltre l’orrore la Shoah di Hamas
Analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 24 ottobre 2023
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Oltre l’orrore la Shoah di Hamas»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 24/10/2023 l'analisi di Fiamma Nirenstein con il titolo "Oltre l’orrore la Shoah di Hamas".

Fiamma Nirenstein, Autore presso Fondazione Luigi Einaudi
Fiamma Nirenstein

Ieri, la cronista che credeva di aver capito la storia del terrorismo e dell’antisemitismo ha dovuto girare pagina: niente è come era, il male ha una sua nuova incarnazione, che si è rivelata sabato 7 ottobre. Siamo fino al collo dentro una guerra nuova, inusitata, e se non ci difendiamo ne saremo travolti come da uno tsunami. Sull’onda infuocata dell’antisemitismo Hitler distrusse quasi tutto il mondo. Ma durante la Shoah i nazisti nascondevano lo sterminio degli ebrei, ci sono voluti anni per individuarne la dimensione e la crudeltà. I pervertiti terroristi di Hamas si sono messi sulla fronte le telecamere, hanno filmato il loro genocidio gestito con fantasia ad personam, yehud yehud, bambino per bambino, ragazza per ragazza, per poi postarlo su Tik Tok, Instagram, Facebook. Hanno documentato come davano fuoco ai bambini davanti agli occhi della madre e viceversa, come violentavano le ragazze e poi le ammazzavano, come stupravano le bambine e le vecchie in pigiama e sventravano le donne incinte, come hanno tagliato la testa a centinaia di persone e non contenti poi hanno usato le armi più taglienti per farle a pezzi e strappargli gli occhi.

Ieri, la nostra visita di vari gironi dell’inferno ha avuto la sua voragine più profonda prima di scendere al sud, nella base militare di Shura, una struttura rudimentale, all’aria aperta, in cui quello che si scorge arrivando sono file di container bianchi numerati, e alcune tende semichiuse in cui si lavora in silenzio. Entrano ed escono militari indaffarati e uno di loro, sotto il container ALLU 17024, denominato anche mecolà 10, ci spiega: “In tutti questi frigoriferi sono accumulati centinaia e centinaia di corpi ancora non identificati a causa dei roghi, delle torture, delle mutilazioni cui sono state sottoposte. Parlate piano, non fate tanto rumore”, chiede il colonnello Chaim Wisberg anche al gruppo di parlamentari europei guidati da Elmet, l’organizzazione che guida la loro missione di solidarietà e che mi ha aiutato nella visita: “Abbiamo tre modi di identificare per portare le persone a degna sepoltura riconsegnando i corpi alle famiglie disperate. Ancora tanti cercano, senza trovarli, i loro cari. Il primo modo è quello diretto, il secondo con l’esame della dentatura, il terzo col DNA. Purtroppo, il primo sistema, dato quello che i terroristi hanno fatto, non si può quasi mai praticare. I resti sono stati trovati nei posti più disparati, è stata una semina infinita di corpi ovunque, e poi amorosamente suddivisi in sacchi con numeri. Si cerca di rimettere insieme parti che Hamas ha tagliato: oltre alle teste, anche genitali, braccia, piedi, mani. I cadaveri delle donne violentate arrivano pieni di fratture ovunque. Prima di capire che un troncone era di una donna e del suo bambino insieme bruciati e seviziati, c’è voluto molto studio”. Vediamo nei container, da cui aprendoli esce il gelo a nuvole e l’odore della morte perché ormai i giorni sono passati e non si riesce a identificare tante creature, sacchi a centinaia, di tutte le dimensioni, tutti sistemati per grandezza. I volontari sono quieti e gentili, tutti in divisa. Sheryl spiega: “Cerchiamo la dignità, la memoria umana di quei poveri resti, in un orecchino da restituire alla famiglia, nelle bellissime unghie curate di qualche ragazza di cui non rimane quasi nient’altro… sistemiamo piano piano piano quel che c’è, con amore. Con ordine. I parenti che vogliono almeno seppellire i loro cari, qui entrano solo coi risultati certi del DNA”. 

Per la strada, verso sud, ogni cespuglio parla, racconta la mostruosa sorpresa del sabato 7, L’esercito è ormai schierato lungo il confine sud, ci avvertono mentre siamo diretti a Kfar Aza che l’esercito ha proibito quell’obiettivo perché c’è una sospetta incursione terrorista; facciamo un giro largo per arrivare a Be’eri, la maggiore vittima della mattanza, che confina con Re’im, il kibbutz a fianco del quale si è svolta la festa dell’eccidio, quella in cui sono stati ammazzati almeno 260 ragazzi che ballavano, e da cui ne sono stati rapiti una buona parte dei 222 rapiti, e alla cui folla appartengono un gruppo degli scomparsi, fra i 100 e i 200. Numeri enormi. A Re’im, la grande tenda bianca stracciata, le masserizie, gli stracci, il nero dell’erba bruciata dagli spari e dalle battaglie è una belva in agguato: i fossi erano, ci dicono i militari, pieni di ragazzi uccisi. L’erba su cui sono fuggiti invano ha il colore del tradimento, e il giallo è più giallo, il nero del bruciato definitivo. A Be’eri il comandante Golan, un campione di umanità che in Turchia ha salvato 19 persone dopo l’ultimo terremoto, un esempio tipico dell’umanità di quei kibbutz tutti umanitari, liberali, amici degli arabi, ci mostra con parole ancora stupefatte, interrogative, le case bruciate con le famiglie intere chiuse dentro, esplose fino a mandare in briciole i tetti stessi, racconta che ha trovato il corpo carbonizzato di un suo poliziotto d ha raccolto il telefono anche contro la prassi perché la scritta sullo schermo diceva “amore mio”, e ha detto alla moglie dell’ucciso che il suo caro non c’era più. “Non volevo che aspettasse settimane l’identificazione”.

Le trincee in cui avevano tentato di nascondersi i fuggitivi della festa sono diventate fosse comuni; giovedì un membro del congresso americano ha trovato insieme a lui ancora un corpo in mezzo a quella pazzesca confusione di pietre pallottole, armi e pickup abbandonati da Hamas. Mentre parliamo si spara forte intorno. Non ti preoccupare, dice, sono spari nostri. Eitan Dana, il capo operazioni locale, restituisce il senso della bella Israele che ha lottato come un leone sorpreso e ferito: il suo migliore amico, comandante Elhanan e suo fratello, con la jeep sparando all’impazzata avanti e indietro ha salvato decine di persone, e poi è stato ucciso. È   solo un esempio: la gente si è sacrificata senza risparmio, ha difeso col suo corpo famiglia e sconosciuti, correndo sempre in aiuto, dando la vita. Una grossa jeep armata dei terroristi ha intorno di tutto, chiavi, medicinali vari, pallottole speciali, si dice anche droghe, e cittadini di Gaza che ancora oggi, si afferma, tengono nelle loro case private gli ostaggi. Ecco, per loro batte il cuore di Israele: un gruppo di genitori e di figli e nipoti dignitoso, calmo, con le foto strette al petto dei loro ragazzi, dei loro nonni, ci incontrano per chiedere che si faccia tutto, qualunque cosa, per mettere la liberazione dei loro cari al primo posto. Ci raccontano il loro dolore impossibile Keren disperata, stretta al petto la foto della sua Mia che abbiamo visto ferita in tv, Shelly Shem Tov che come ultima notizia di suo figlio 22enne Omer ha l’immagine del rapimento sul pickup e poi più niente; Dalit prega per la zia, lo zio, il cugino, tutta la famiglia Katzir rapita, la figlia del 79enne Haim Peri dice “Presto. Non abbiamo tempo!”.

Prima di lasciare Be’eri, in un asilo nido letteralmente inondato di sangue, rosso, un lago fra i balocchi, ho chiesto il permesso di raccogliere un foglio con uno di cuori di plastilina che fanno i bambini. Il comandante mi ha detto “lo tenga come pegno, l’hanno prossimo qui sarà di nuovo pieno di bambini che restituiranno la vita a questo kibbutz, alla scuola, a quel bambino”. Per questo però, bisogna sconfiggere i mostri.      

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