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Il Giornale Rassegna Stampa
14.10.2018 Tutti pazzi per Mao: gli intellettuali di sinistra che persero la testa per lui
Giampiero Berti legge il libro di Tesini/Zambernardi

Testata: Il Giornale
Data: 14 ottobre 2018
Pagina: 30
Autore: Giampietro Berti
Titolo: «Tutti pazzi di Mao»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 14/10/2018, a pag.30 con il titolo "Tutti pazzi di Mao", la recensione di Giampiero Berti al libro "Quel che resta di Mao, apogeo e rimozione di un mito occidentale", di Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi (ed.Le Monnier)

Fra i tanti che persero la testa, Goffredo Parise è l'unico a meritare una parziale assoluzione, la sua non era infatuazione, quanto una critica all'Occidente.  Molto utile il lavoro dei due curatori, ci ricorda quanti danni subirono i cervelli dell'intellighenza di sinistra, non solo italiana,  a causa del fanatico innamoramento del dittatore cinese. La situazione non è poi cambiata molto, ancora oggi ci sono in giro politici che governano - o stanno per governare- non diversi dall'osannato Mao Tse Tung.

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Giampiero Berti

«La vita sociale cinese si pone come il modello di un'umanità alternativa» (Umberto Eco). La Cina è una «società di uomini uguali» (Maria Antonietta Macciocchi), tanto è vero che la divisione gerarchica dei ruoli «fra lavoro manuale e lavoro intellettuale» è prossima a cadere (Dario Fo). È stato distrutto perciò «il mito della pretesa superiorità degli esperti e dei tecnici» (Charles Bettelheim). Mao, rivoluzionario «più simile a Marx che a Lenin» (Rossana Rossanda), «non vuole il potere attraverso la violenza, ma con la persuasione e l'educazione» (Alberto Moravia). Egli, «grande filosofo e saggio re guerriero» (Maria Antonietta Macciocchi), non si è limitato a servire il popolo, ma lo ha anche liberato, assumendo così «il valore di un eroe del Vecchio Testamento» (Raniero La Valle). In Cina vige un regime «di larga democrazia» (Mario Capanna), dove «ognuno dice veramente quello che pensa» (Dario Fo) perché si è affermata «una filosofia nuova» (sempre Dario Fo) e il popolo cinese si è trasformato «in un Paese di filosofi» (Alberto Jacoviello). La rivoluzione culturale cinese è «la sola rivoluzione socialista che non tragga le sue premesse dall'individualismo delle rivoluzioni borghesi dell'Occidente» (Roger Garaudy), per cui la moralità e la probità dei cinesi è superiore a quella degli occidentali perché in loro «arde una fiamma di ideale di austerità, di lavoro, di oblio di sé» (Robert Guillain). Basti pensare al confronto con Hong Kong, «dove si può comprare e vendere quello che si vuole, soprattutto l'amore, e dove le idee sono le sole che non valgono nulla: ecco, insomma, l'Occidente» (Goffredo Parise). Sono queste, e molte altre, le incredibili sciocchezze scritte da questi e da altri intellettuali di sinistra (si pensi solo a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir apologeti del maoismo) che si possono leggere nel bellissimo e divertente libro Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidentale, a cura di Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi, con un'introduzione di Gianni Belardelli (Le Monier, pagg. VII-304, euro 22). Sciocchezze e deliri, che mistificavano completamente la realtà. Vediamo. Dopo la presa del potere (1949), Mao Tse-Tung tenta la realizzazione della società comunista con un «grande balzo» diretto a produrre, in chiave terzomondista, un'«accumulazione originaria»: lo scopo è saltare l'intera fase dell'industrializzazione. Impone a milioni di contadini la collettivizzazione integrale della terra, attraverso la creazione di migliaia di comuni (circa 26mila), composte da un minimo di 10 a un massimo di 50mila abitanti. In questi piccoli lager - dove sono coinvolte oltre 700 milioni di persone - scompare ogni forma di vita individuale perché è contemplato un compiuto totalitarismo sociale, culturale ed economico (erano proibiti, per esempio, i pasti famigliari). Le comuni dovevano dimostrare la potenza della creatività popolare; a esse era affidato, non a caso, anche il compito di produrre alcuni beni di carattere industriale come l'acciaio. Si afferma la preminenza della volontà rivoluzionaria su ogni forma di sapere e la superiorità politico-ideologica su quella tecnico-scientifica. Il tentativo di realizzare la «Grande Armonia» provoca una delle carestie più spaventose della storia dell'umanità, sicuramente la più feroce carestia indotta finora conosciuta: si calcola che essa abbia causato circa 30 milioni di morti per fame. Secondo le autorevoli ricerche di Jasper Becker, Jung Chang, Jon Halliday, Daniel Sutherland, tra il 1958 e il 1961 vi fu un surplus di 30 milioni di decessi e un deficit di 31 milioni di nascite, sulle medie normali, il che significa 61 milioni di individui tra morti di fame e non nati. Senza considerare questi ultimi, restano i 30 milioni di morti per fame, ma si ipotizza che, in realtà, le vittime della carestia siano state molte di più: 43-46 milioni o addirittura di 50-60 milioni, a cui vanno aggiunti 2-3 milioni di piccoli proprietari uccisi nel corso degli anni Cinquanta per realizzare la collettivizzazione integrale della terra. Non pago di questo gigantesco fallimento, il Grande Timoniere avvia nel 1966, un'altra impresa, la cosiddetta «rivoluzione culturale», la quale innesca una delle più mostruose persecuzioni che si siano mai viste, che provoca la morte, l'umiliazione e la devastazione di milioni di esseri umani in una scala quasi inconcepibile: un gigantesco delirio collettivo durato una decina d'anni. Essa si svolge sotto il segno delle varie campagne di critica e di educazione di massa promosse dall'alto per suscitare e ottenere consensi al regime; campagne controllate attraverso la mobilitazione squadristica delle Guardie Rosse. Lo scopo è educare o rieducare chi risulta riottoso alle direttive del partito e alle idealità comuniste. Come ogni vero totalitarismo, il comunismo, essendo pervaso da una forte vocazione pedagogica, non costringe gli individui alle proprie finalità soltanto con la forza, ma pretende che la loro sottomissione diventi pubblico riconoscimento dell'errore e accettazione convinta della propria conversione al credo catechistico dell'ideologia (in questo caso il Libretto Rosso). Di qui la criminalizzazione di tutto ciò che sfugge alla logica totalitaria, manifestatasi nell'ottusa e premeditata volontà di schiacciare ogni forma di individualismo, considerato la fonte del pensare e del vivere borghese. Di questa Cina, che con i suoi milioni di morti ha dato anch'essa conferma dell'autentico Dna del comunismo, dispotismo e miseria, oggi quasi nessuno parla più.

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