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Il Giornale Rassegna Stampa
14.06.2018 Ernesto Che Guevara, altro che mito: razzista, omofobo, classista, in pratica un assassino
Commento di Paolo Manzo

Testata: Il Giornale
Data: 14 giugno 2018
Pagina: 17
Autore: Paolo Manzo
Titolo: «Razzista, omofobo e classista: ecco il vero 'Che' oltre l'icona»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 14/06/2018, a pag.17, con il titolo "Razzista, omofobo e classista: ecco il vero 'Che' oltre l'icona" l'analisi di Paolo Manzo.

Paolo Manzo chiarisce aspetti fondamentali della figura di Che Guevara, tanto osannato e trasformato in icona pop. Aspetti che costruiscono un'immagine molto diversa da quella - falsa - del mito. Siamo in piene ricorrenze, dai 200 anni della nascita di Karl Marx ai 90 del Che, il saluto col pugno alzato si è impadronito anche dei movimenti che un tempo lottavano per i diritti civili (donne, gay ecc.),  oggi adottano il pugno alzato. Non basta colorarlo, rimane un simbolo che dovrebbe suscitare il ricordo di una ideologia criminale.
Ecco un esempio, il manifesto scelto dal Gay Pride che si terrà a Torino questo sabato:

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Ecco l'articolo:

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Ernesto Che Guevara

San Paolo Ricorre oggi il novantennale di Ernesto Che Guevara. Nato a Rosario, Argentina, da una famiglia benestante, Guevara si laurea in medicina ma quando nel 1955 conosce Fidel e Raúl Castro in Messico, capisce subito che la sua vocazione è fare il guerrigliero, per liberare non solo Cuba dalla dittatura bensì l'intera America latina dagli Usa. Suo nemico numero uno è infatti l'imperialismo yankee che - per lui stalinista dichiarato anche dopo la destalinizzazione imposta da Kruscev - rappresentava il «male assoluto». «Ho giurato davanti a una fotografia del vecchio e compianto compagno Stalin che non avrò riposo fino a che non vedrò annientare queste piovre capitaliste», disse nel 1959, subito dopo che la Revolución trionfò all'Avana ma sono molte le sue frasi rimaste nella storia, come la celebre «sì abbiamo fucilato, fuciliamo e fino a quando necessario fucileremo ancora perché la nostra è una lotta alla morte», pronunciata nel 1964 all'ONU. Ma anche l'assai meno nota «come puoi tenere il libro di questo finocchio in ambasciata?». Già perché così, nel 1965, in visita nella sede diplomatica cubana di Algeri, Guevara si rivolse al suo ambasciatore quando vide la summa «Teatro Completo» del poeta e drammaturgo Virgilio Piñera. L'episodio, raccontato dal vincitore del Premio Cervantes Guillermo Cabrera Infante nel suo «Mi Cuba», dà un'idea dell'odio del Che verso gli omosessuali. Fu proprio Guevara ad istituire, nel 1960, il primo campo di lavori forzati a Cuba per gay, nella regione orientale di Guanahacabibes, all'entrata del quale c'era scritto «Il lavoro vi renderà uomini». E lì, come lo stesso Che spiegò nel 1962, «ci mandiamo chi ha commesso peccati contro la morale rivoluzionaria». Ovvero gay, trans e lesbiche «che non rientravano nel modello dell'uomo nuovo proposto dal Che, uno dei più convinti leader omofobici dell'epoca» scrive Emilio Bejel nel saggio «Gay Cuban Nation». Molti anche gli spunti sui lavoratori di quando il Che fu, contemporaneamente, presidente della Banca Centrale di Cuba e ministro dell'industria, tra 1959 e 1963. Su tutti due che lascerebbero di stucco i sindacalisti di oggi «compagni, non è corretto aumentare lo stipendio di chi lavora di più, ma piuttosto tagliare quelli di chi produce meno» ed il fatto che «è essenziale rimanere nelle fabbriche durante le ferie anche senza guadagnare nulla in più». Grazie all'editore Giangiacomo Feltrinelli la foto col basco del Che immortalato da Peter Korda diventa uno dei simboli di pace, un'icona dello slogan «fate l'amore, non fate la guerra» insieme a Gandhi e Madre Teresa sulle barricate del Maggio francese e nelle marce contro la guerra in Vietnam, ma la realtà è tutt'altra. Pochi sanno infatti che, a oggi, il Progetto Verità e Memoria di Archivio Cuba ha provato ben 144 omicidi commessi direttamente dal Che. Tra le sue vittime compagni di guerriglia, poliziotti uccisi di fronte ai figli, ragazzini e decine di oppositori politici fucilati nel Forte della Cabaña, fatti fuori al paredón, da Guevara in persona. È del resto lo stesso Che a mettere, nero su bianco, nella sua autobiografia Textos Políticos «l'odio come fattore di lotta, l'odio intransigente contro il nemico che spinge oltre i limiti naturali dell'uomo e lo trasforma in una, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Ancora oggi, tanti lo celebrano in Africa e negli Usa, dov'è un idolo secondo solo a Malcom X e Martin Luther King anche per il movimento che difende i diritti degli afroamericani Black Lives Matter. Pochi di loro, però, sanno del razzismo, testimoniato dai suoi «Diari della Motocicletta». Quando è in Venezuela, ad esempio, Guevara scrive che i «negri hanno mantenuto la loro purezza razionale grazie alla scarsa abitudine che hanno di farsi il bagno». Più avanti, in Brasile, comparando portoghesi e coloured, è sempre lui a scrivere «il disprezzo e la povertà li unisce nella lotta quotidiana ma il modo di affrontare la vita li separa totalmente: il negro, indolente e sognatore, spende i suoi soldi per qualsiasi sciocchezza, l'europeo ha invece una tradizione di lavoro e risparmio». Anche questo fu il Che.

 

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