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Il Giornale Rassegna Stampa
31.01.2018 'Politicamente corretto'
Un estratto del libro di Jonathan Friedman

Testata: Il Giornale
Data: 31 gennaio 2018
Pagina: 24
Autore: Jonathan Friedman
Titolo: «Così il politicamente corretto controlla la società e la lingua»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 31/01/2018, a pag.24 con il titolo "Così il politicamente corretto controlla la società e la lingua", un estratto del libro di Jonathan Friedman. 

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La copertina (Meltemi ed.)

Negli Stati Uniti le politiche culturali sviluppate a partire dai primi anni '70 hanno preso forme quali il Black Power e il Red Power, per poi proliferare in un esplosivo movimento contro quella cultura occidentale un tempo egemonica, con tutti i suoi epiteti; maschio, eterosessuale, bianco, di mezza età. Nato come fenomeno interno ai campus universitari, rifletteva però trasformazioni ben più profonde nella nostra civiltà. Un fermento che in Europa occidentale fu presto affiancato dal riemergere del regionalismo etnico, dalla culturalizzazione dell'identità nazionale, dalla nascita di movimenti indigeni e dall'etnicizzazione delle minoranze immigrate. Tutto questo si è svolto nello stesso arco di tempo in gran parte del mondo dominato dall'Occidente. Il mondo accademico, così come quello delle élite culturali, si frammentò, e tra le principali élite nascenti una si autoidentificava come culturalmente radicale e postcoloniale (Dirlik, 1994). Inizialmente multiculturale, questa élite si è presto confrontata con l'apparente essenzialismo dell'identità culturale e ha ricercato per sé un obiettivo più alto e più inclusivo. Questo ha assunto la forma di un cosmopolitismo che celebrava la combinazione della diversità in fusioni ibride, nel quadro di una cittadinanza mondiale, considerata come l'unico futuro moralmente accettabile per il mondo. (...) Nella maggior parte dei Paesi occidentali questa élite è stata una tra le tante e, aggiungerei, ha avuto molte varianti interne.

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In Svezia invece, un Paese che ha un'élite eccezionalmente centralizzata, questa particolare visione «progressista» del mondo è diventata quella dominante. Qui, dove l'identità nazionale era data semplicemente per scontata, e dove lo Stato sociale socialdemocratico si basava su una fondamentale unità di valori e su una particolare cultura della rappresentatività, l'emergere di questa nuova ideologia ha costituito una rottura radicale rispetto alla precedente situazione dei rapporti sociali. In questa riconfigurazione di posizioni, lo Stato si è spostato verso una strategia che può essere facilmente riconosciuta nella Terza via europea e nel Neue Mitte, un consolidamento del potere politico che includeva una rapida crescita degli stipendi degli uomini politici, forti politiche a favore della globalizzazione e, soprattutto in Svezia, una ridefinizione dello Stato-nazione come Stato multiculturale, al punto da considerare in linea di principio i cittadini svedesi come un gruppo etnico fra i tanti. Si suggerisce talvolta che la causa di questo cambiamento sia stata la massiccia immigrazione degli anni '80 e '90, ma questa è sola una parte della storia. Al contrario, è stata la ridefinizione della società svedese da parte delle sue élite a produrre l'istituzionalizzazione dell'emigrazione come categoria sociale. In una società con elevata disoccupazione e mobilità verso il basso l'integrazione è stata un fallimento, e anche quando, per un breve periodo, l'economia ha ripreso a crescere, la segregazione ha continuato a peggiorare. Ma nell'incontrastata ideologia dominante, la Svezia era ora il mondo, culturalmente arricchita e persino creolizzata. Chiunque considerasse la situazione reale, l'aumento dei conflitti, la segregazione, la criminalità su base etnica e altri fenomeni simili, era immediatamente bollato come nemico della società, cioè dello Stato e delle sue élite.

Un punto di vista condiviso anche dagli accademici e dai giornalisti, che però in privato erano capaci di dire le cose più oltraggiose. Il capo del programma di studi etnici e dell'immigrazione di un college molto rinomato di Malmö ha sostenuto in un seminario l'importanza che i ricercatori si occupassero solo degli aspetti positivi della Svezia multiculturale, in modo da non innescare conflitti. In questo clima in cui una nuova ideologia era propagata da un élite in ascesa, era fondamentale evitare le questioni che potessero incrinare le rappresentazioni del nuovo mondo da raggiungere. La scelta era fra il tacere o il dire la cosa giusta, e l'atteggiamento prevalente era il primo, poiché non si può mai sapere veramente quanto uno sia nel «giusto». È un problema molto generale, ampiamente discusso negli Stati Uniti, pur se raramente si è cercato di elaborare una descrizione complessiva del fenomeno. Nel suo La cultura del piagnisteo (1994) Hughes scrive: «Vogliamo creare una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e le sventure svaniscano con un tuffo nelle acque dell'eufemismo. L'invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ai tempi dell'amministrazione Reagan ha deciso che, per scopi ufficiali, è disabile?» (Hughes, 1993: 35).

Sebbene negli Stati Uniti migliaia di persone siano finite in tribunale per aver detto una parola sbagliata e alcuni siano stati anche licenziati, non da ultimo nelle università, il campo all'interno del quale si esercitava il controllo linguistico era limitato a specifiche istituzioni, e solo raramente assumeva una dimensione globale. Sotto questo aspetto, la situazione svedese è diversa innanzi tutto per la mancanza di una vera opposizione intellettuale alla riforma del multiculturalismo, e successivamente per la natura centralizzata del controllo del linguaggio. Un controllo che si attua nell'immediata definizione dei trasgressori come razzisti, fascisti e nazisti, e l'estensione semantica delle proposizioni pericolose è stata straordinaria. (...) Tenterò di fare i conti con due fenomeni legati fra loro. Il primo è la natura formale, o strutturale, del politicamente corretto come forma di comunicazione e di categorizzazione. Il secondo è la trasformazione del contesto sociale che ha posto le basi per l'attuazione di questa forma di comunicazione. Questo discorso consiste nella «moralizzazione» dell'universo sociale e nella dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire.

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