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Il Giornale Rassegna Stampa
22.07.2016 Fiamma Nirenstein: 'Ecco le 12 bugie su Israele' - parte II
Svelate le menzogne più diffuse contro lo Stato ebraico

Testata: Il Giornale
Data: 22 luglio 2016
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Le 12 bugie su Israele»

Riprendiamo la seconda puntata del testo del libro di Fiamma Nirenstein dal titolo "Le 12 bugie su Israele", in allegato ieri con il GIORNALE. Pubblicheremo domani l'ultima parte, quella di ieri è alla pagina http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=253&sez=120&id=63155.

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Fiamma Nirenstein

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Bugia n. 5: gli insediamenti sono la causa principale del conflitto

Secondo questo mito, la costruzione di nuovi edifici nei Territori contesi è la principale causa della mancanza di pace, dell'ira palestinese e del fatto che Abu Mazen non vuole riprendere i colloqui con Israele. La bugia storica qui è evidente: sin dagli anni ‘20, quando si disegna chiara la prospettiva del "focolare ebraico" in Medio Oriente, già certificato dalla Dichiarazione Balfour del 1917 e dalla Conferenza di San Remo del 1920, gli attacchi terroristici cominciano a susseguirsi a ritmo sempre più frenetico a testimoniare semplicemente il rifiuto arabo a una presenza ebraica. Ricordiamo gli attacchi del 1929 a Hebron e Safed, due delle città dove, insieme a Gerusalemme e Tiberiade, c’era sempre stata una maggioranza ebraica e dove si sono compiuti dei veri e propri pogrom uccidendo un centinaio di ebrei.

Gli insediamenti nascono come presidi di difesa e come memoria di un'antica presenza ebraica su territori di dominazione giordana fino alla Guerra dei Sei Giorni. Nel tempo sono anche semplicemente diventati zone in cui la vita è meno cara e vi è una maggiore viva comunitaria. Non sorgono, come molti credono, su un ex Stato di Palestina. Esso, come abbiamo ricordato prima, non è mai esistito. A seguito della sua inaspettata vittoria della Guerra dei Sei Giorni, Israele si offrì subito di trattare per la restituzione delle nuove conquiste (Sinai e Gaza dall’Egitto e Cisgiordania dalla Giordania). Tuttavia, la Lega Araba riunitasi a Khartoum nel 1967 rilasciò la celebre risoluzione dei “Tre no” con la quale stabiliva: no alla pace, no ai negoziati e no al riconoscimento di Israele.

Qui comincia la lunga strada delle offerte di Israele di restituire i territori in cambio di pace. Una formula reiterata nel tempo. Nel novembre del 1967 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU adottò la risoluzione 242 per risolvere la diatriba sui "Territori": essa non li definisce affatto "illegali" e non detta affatto, come Arafat seguitò a ripetere e come oggi l'UE sostiene, la restituzione “di tutti i Territori", bensì il ritiro “da Territori”, e stabilisce che si deve arrivare fra le due parti a "pacifico e reciproco accordo che possa garantire alle parti di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti”. La risoluzione parla quindi di restituzione "di Territori" in modo confacente alle due parti, ovvero, le due parti devono trovare fra loro una soluzione concordata, e non imposta dall'alto. Sulla base delle dichiarazioni di Abu Mazen e degli avvenimenti degli ultimi anni, ovvero il terrorismo, l'odio e l’incitamento, considerando che da quando Gaza è stata sgomberata unilateralmente nel 2005 il lancio dei missili di Hamas contro la popolazione civile di Israele è diventato costante, è difficile pensare a ulteriori abbandoni di territori senza garanzie.

Sostenere che l’Occupazione sia la causa del conflitto, è semplicemente una descrizione maliziosa, oppure superficiale, non realistica e ingenua. Non solo: tutti i passi verso il superamento di questa condizione sono stati occasione, invece, di una crescita della violenza e del rifiuto palestinese. Per tre volte i Palestinesi hanno rifiutato decisamente le offerte di pace, territorialmente molto vaste, ricevute da Israele. Adesso da anni Abu Mazen si rifiuta di intraprendere colloqui di pace senza precondizioni (come stabilito appunto dalla Risoluzione ONU 242), e pretende invece che i confini del '67 siano considerati una conditio sine qua non. Ma Israele non li ritiene sicuri, e per ragioni storicamente ben comprensibili.

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Bugia n. 6: i Palestinesi come vittime perenni

Il grande pubblico ignora che, a partire dall'accordo ad interim del 1995 e da quello di Hebron del 1997, i Palestinesi hanno acquisito una grande autonomia di gestione sul proprio presente e futuro. Le truppe israeliane sgomberarono in base a quegli accordi tutte le maggiori città palestinesi e Arafat ne prese pieno possesso. Questi sono definiti i “Territori A” e sono sotto completa giurisdizione palestinese. L'idea era proprio quella di mettere una fine agli attentati e al conflitto tramite una restituzione territoriale che disegnasse un embrione di Stato, un grande primo passo da perfezionare con accordi successivi. Tutti ricordano la "Dichiarazione di principi", nel 1993, con la famosa stretta di mano tra Rabin, Arafat e Clinton alla Casa Bianca. I nuovi accordi sarebbero rimasti in vigore per 5 anni al massimo, durante i quali sarebbe stato trattato un Stato definitivo. Invece, e di conseguenza agli accordi, scoppiò il terrorismo suicida che ha falciato più di mille vittime civili israeliane. Dopo le prime elezioni generali palestinesi del '96, l'amministrazione di Israele fu disciolta. Insomma il 98 per cento dei Palestinesi dal '96 non vive sotto occupazione, e dunque si auto regola e auto governa con le sue leggi, il suo sistema scolastico e sanitario, la sua stampa e tv. Ha dato così vita a un sistema autocratico, nonostante l'esistenza di un parlamento, la cui vita è tutta imperniata sul rifiuto di Israele, il potere di Abu Mazen è incontrollato, la classe dirigente corrotta, i bambini crescono col culto della guerra contro gli ebrei (dicono proprio sempre "ebrei" per indicare gli Israeliani). Il sogno popolare non è la pace, che invece Israele canta e dipinge in tutte le occasioni, ma la cancellazione di Israele stessa, non il perfezionamento degli accordi ma il loro superamento.

Bugia n. 7: Israele Stato razzista e di Apartheid

Sono passati quindici anni da quando la "Conferenza Mondiale dell'ONU contro il razzismo" ha inaugurato una nuova fase di antisemitismo sotto l'egida astuta della lotta al razzismo. E in questo periodo nessuna delle menzogne su Israele ha avuto più successo dell'idea di "Israele Paese di Apartheid", forse proprio per la sua natura paradossale: immaginare che lo Stato degli ebrei sia razzista è infatti proprio la cosa più odiosa e ripugnante che si possa immaginare. Tutti sanno cos'era l'Apartheid sudafricano: un sistema governato dalla nascita alla morte dei cittadini da leggi che determinavano la vita di ciascuno sulla base del colore della pelle. Niente di tutto questo accade in Israele, né è mai accaduto.

Ma l'idea di base è quella di accusare Israele dei crimini più invisi al mondo contemporaneo così da renderlo uno Stato canaglia da boicottare e alla fine da cancellare, come il Sud Africa dell'Apartheid, appunto. Sulla scorta di questa accusa, vengono ogni anno organizzate negli atenei di tutto il mondo le "Apartheid week" che ormai si svolgono anche in alcune università italiane; e su questa accusa si è costruito tutto il vasto movimento del BDS, (Boicotaggio Disinvestimento e Sanzioni) che vuole appunto ripetere per Israele la politica di delegittimazione attuata per il Sud Africa. Il BDS è un movimento estremista e violento che mira alla distruzione di Israele ed è di fatto sostenuto anche da Hamas e dalla Fratellanza Musulmana. Oltretutto è un movimento ipocrita perché, mentre boicotta sistematicamente accademici, sportivi, studiosi, rappresentanti della società si guarda bene dall'escludere dal mercato i tanti prodotti indispensabili della scienza e dell'industria israeliana nei settori medici e tecnologici.

Nel 1975 l'ONU passò la famosa quanto misteriosa risoluzione "Sionismo uguale a razzismo". Ma l'unico nesso che gli ebrei hanno con il razzismo e l'Apartheid è passivo: l'uso dei ghetti ai fini della loro segregazione seguiva criteri razziali come il tentativo della loro eliminazione fisica sistematica. In Israele non c'è traccia di razzismo né tantomeno di Apartheid, l'accusa è troppo stupida per essere presa seriamente; in Israele esiste solo quel tasso di razzismo che purtroppo alligna in qualsiasi società democratica e viene monitorato e combattuto per legge. Israele non distingue nella sua legislazione fra razze, etnie, religioni, salvo che per l'ammissione immediata alla cittadinanza israeliana, riservata solo agli ebrei, come per l'Italia agli italiani tra l’altro. Israele non impedisce a nessuno di praticare la propria religione e i propri costumi ed è l'unico Paese del Medio Oriente dove ciò accade. Basta farsi un giro alla Knesset, dove gli arabi (in tutto circa il 20% della popolazione) nell’attuale legislazione sono 17; o negli ospedali, dove il 12,5% dei medici e l'11,3 degli infermieri sono arabi; o nelle università dove gli studenti arabi sono circa il 15%. Drusi e beduini servono nell'esercito in alti gradi. Giudici arabi hanno sempre servito nella Corte Suprema e nei vari corpi giuridici e di polizia. I centri commerciali, con i loro negozi e spazi ricreativi, sono un incrocio frenetico di gente di ogni etnia o credo religioso, ebrei cristiani e musulmani, tutti insieme. Ai giochini a gettone le mamme fanno la fila coi bambini, sia che abbiano il velo islamico che la parrucca delle donne molto religiose di Israele.

Si, è certo vero che sono molte le misure per cui soprattutto nei Territori e ai suoi ingressi la parte araba della popolazione subisce code e interrogatori in misura maggiore degli ebrei, e ne soffre molto anche perché a volte, nonostante le regole che lo proibiscono, i modi dei soldati sono prepotenti e spazientiti, stressati dal pericolo costante e dalle tante ore di grande responsabilità, questi ragazzi di 18 anni, per la salvezza di tutti i cittadini d'Israele, arabi compresi. Ne sono morti non pochi negli attacchi terroristici degli jihadisti. E chi può negare che da Hebron, da Betlemme, da Ramallah siano entrati a migliaia terroristi armati che hanno compiuto stragi? E' vero, certo, che Gaza ha le frontiere chiuse, ma basta pensare al programma genocida antisemita e antioccidentale di Hamas, sancito dalla sua stessa Carta Costitutiva e a quanto sangue ha sparso dentro e fuori la Linea Verde, per capire che il razzismo non c'entra proprio niente con le misure di difesa che Israele è costretta ad applicare.

E' anche vero che i cittadini ebrei di Israele ricevono un trattamento complessivamente migliore di quello degli arabi israeliani: per esempio la terra che originariamente appartiene allo Stato (quasi il 90 per cento, acquistata a suo tempo a caro prezzo da numerose associazioni ebraiche da proprietari arabi, cui non venne tuttavia mai espropriata, nemmeno durante la prima fase del Sionismo) non può essere commercializzata altro che fra cittadini ebrei, ma è ancora più vero che dal ‘97 esiste una legge che condanna a morte, nell'Autonomia Palestinese, qualsiasi arabo che venda terra agli ebrei. Ancora: l'idea che gli ebrei non potranno restare negli insediamenti e che lo Stato Palestinese sarà "judenrein" (l'ha detto chiaramente Abu Mazen) e che quindi questi devono restare nei limiti attuali in attesa di essere espulsi nel caso di un accordo che dia ai Palestinesi uno Stato nei confini del '67, disegna una situazione di discriminazione razziale verso gli ebrei che invece condividono lo spazio dello Stato d’Israele con la minoranza araba.

La verità è che la delegittimazione degli ebrei è diventata una grande industria, purtroppo la maggiore del mondo palestinese. Gli Israeliani vengono continuamente disegnati, rappresentati, enfatizzati secondo i soliti vecchi stereotipi, più le armi: il naso, più il mitra; i soldi, più il sangue dei bambini sulle labbra. Così fu rappresentato Ariel Sharon in una gara di vignette a Londra: nudo, in mano un grappolo di bambini che pendono sulla sua bocca insanguinata che li sgranocchia. Se gli ebrei sono così cattivi, è molto difficile capire come mai un sondaggio riportato dal Jerusalem Post del 2014 dichiarava che il 72% degli arabi israeliani vogliono vivere sotto giurisdizione israeliana e non sotto quella palestinese.

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Terroristi palestinesi

Bugia n. 8: gli Israeliani sono criminali di guerra che stanno compiendo un sistematico genocidio ai danni dei Palestinesi

L'accusa corrente parla di un genocidio programmato, che ricorda quello nazista, iniziato con l'espulsione dei Palestinesi dalla loro terra nel 1948. La base storiografica l'hanno fornita i testi dello storico Benny Morris, che però ha successivamente rivisto completamente il suo assunto, ed è arrivato, lui stesso, alla conclusione che sulla fuga di molti arabi dalle loro case non ci fu nessuna programmazione israeliana, ma una congerie di motivi legati alla guerra. L'idea di una visione genocida della costruzione di Israele è talmente assurda che se ormai non fosse così diffusa anche in Europa non meriterebbe nessuna risposta. Ma il rovesciamento dei ruoli, ovvero la trasformazione degli ebrei da vittime in carnefici, costituisce una grande giustificazione sia retroattiva che attuale all'odio antiebraico: ieri per le persecuzioni degli ebrei, oggi per la continua tortura politica cui Israele è sottoposta. Israele non ha espulso gli arabi, che allora non venivano chiamati Palestinesi, dalle loro case.

Gli studi in proposito dimostrano che al contrario il fondatore dello Stato di Israele David Ben Gurion aveva un parere opposto, e sperava dall'inizio in una pacifica convivenza con la minoranza araba: "Non vogliamo e non abbiamo bisogno di estromettere gli arabi. Qui c'è posto per tutti e due i popoli". Fu il rifiuto arabo della risoluzione ONU di Spartizione nel 1947, accettata invece dalla leadership ebraica, a spingere cinque Paesi a mandare i loro eserciti a scalzare gli ebrei da queste terre. E fu semmai Azzam Pasha, il primo capo della Lega Araba, a enunciare un programma di pulizia etnica: "Questa sarà una guerra di sterminio, un memorabile massacro pari a quelli mongolo o delle crociate". E' noto che i Palestinesi se ne andarono in gran parte dalle loro case sulla spinta dell’invito arabo (diffuso per radio dalla Siria) a sgomberare per consentire alle truppe che avanzavano una rapida vittoria, che avrebbe poi riportato a casa i fuggitivi sulla punta dei fucili. A Haifa, da cui si svolse il maggiore sgombero, l'Histadrut, ovvero il sindacato ebraico, la maggiore colonna portante del sionismo, pregò gli arabi di restare, ma senza risultato. Un po' la paura naturale del conflitto, un po' l'invito arabo, e alcuni episodi sanguinosi tipici di una guerra per la vita e per la morte che però, occorre ricordarlo, gli ebrei non avrebbero mai voluto combattere tanto che accettarono la partizione, spostarono dalle loro case quelli che poi sarebbero diventati i profughi palestinesi.

I calcoli più attendibili ne definiscono il numero a circa 550mila. Bisogna ricordare che negli stessi anni dai Paesi arabi venivano cacciati 800mila ebrei che si riallocarono definitivamente per la maggior parte in Israele. Invece i profughi palestinesi, moltiplicati nel numero, seguitano a rivendicare il diritto al ritorno dei loro discendenti. Questa è un'altra particolarità molto discutibile: gli esuli palestinesi sono gli unici al mondo considerati tali ormai alla quarta generazione, in quanto la loro condizione di rifugiato viene tramandata di generazione in generazione; le loro vite sono sussidiate dall'UNRWA, un'organizzazione dell'ONU nata esclusivamente per occuparsi del benessere dei profughi palestinesi). Se davvero Israele avesse voluto cancellare i Palestinesi, avrebbe fatto proprio un lavoro da incompetente. A Gaza, certamente il luogo più caldo dello scontro fra Israele e Palestinesi, in cui si svolgono periodiche guerre sanguinose, nel luglio del 1994 vivevano 731mila abitanti; oggi ci vivono 1 milione e 800,000 palestinesi. In generale i Territori hanno avuto una crescita della popolazione palestinese da 1milione e centomila persone circa nel 1950 a 4 milioni e mezzo di oggi. Dunque, Israele non ha operato nessun genocidio, anzi. I genocidi nella storia hanno caratteristiche simili fra di loro: si tratta di uccidere la popolazione, ma anche di affamarla, di privarla delle cure mediche, di rendergli la vita impossibile sotto il profilo delle libertà civili. Ora, secondo l'Human Development Report dell'ONU lo sviluppo dei Palestinesi nelle aree gestita dall'ANP ha, quanto ad aspettativa di vita e tutto ciò che vi è legato, ovvero scolarizzazione, sanità, nutrizione, uno standard medio simile a quello di Paesi arabi medio-elevati.

Con i suoi 75 anni di aspettativa di vita, sta sopra l'Oman e l'Arabia Saudita (74,8) e poco sotto il Bahrain (78,6). Israele non è responsabile direttamente dello sviluppo palestinese, ma non lo ostacola e anzi si impegna nelle sue infrastrutture, dall'elettricità a internet. Non è raro che i tecnici che ispezionano e accomodano le infrastrutture vengano aggrediti e anche uccisi. Ed è invece capitato sovente che personaggi anche molto problematici, come la figlia tredicenne di Ismail Haniyeh, il capo di Hamas, o la moglie di Abu Mazen o soprattutto i bambini di Gaza, anche in periodo di guerra, siano stati ricoverati negli ospedali israeliani gratuitamente al bisogno (la figlia di Haniyeh è stata curata in un ospedale di Tel Aviv poche settimane dopo la fine del conflitto dell’estate 2014). Durante la seconda Intifada, Arieh Eldad, allora dermatologo di fama, più avanti parlamentare della Knesset per un partito di destra, quando gli portarono in ospedale un giovane terrorista malamente ustionato a causa di un attacco, impose di tenerlo in cura con continui trapianti di pelle per un lungo periodo. Quando l'amministrazione dell'ospedale gli chiese di concludere le cure, Eldad ne trasportò il letto nell'ufficio del direttore, e minacciò un sit in. Israele non limita le sue cure ai palestinesi: mentre cerca di lavarsi più possibile le mani dal conflitto siriano, tuttavia trasporta e cura innumerevoli feriti che raggiungono il confine nord sulle Alture del Golan.

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