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Il Foglio Rassegna Stampa
23.10.2023 Israele, una storia di odio e speranza
Analisi di David Meghnagi

Testata: Il Foglio
Data: 23 ottobre 2023
Pagina: 13
Autore: David Meghnagi
Titolo: «E l’esilio doloroso divenne un esodo»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 23/10/2023, a pag. 13, con il titolo 'E l’esilio doloroso divenne un esodo", l'analisi di David Meghnagi.

Intervista a David Meghnagi:
David Meghnagi

Ben prima che la polarizzazione dell’ostilità contro il nascente stato di Israele divenisse il collante ideologico del nazionalismo panarabo e panislamico, le manifestazioni di intolleranza e ostilità verso gli ebrei si erano susseguite lungo l’arco dell’Ottocento con tonalità crescente, e di pari passo con il processo di emancipazione cui andarono incontro le minoranze della regione. La violenza che in seguito si è abbattuta sulle comunità ebraiche del mondo arabo, con la conseguente silenziosa fuga che ne è seguita, è il risultato di un processo cominciato molto prima della nascita di Israele, che per una serie di tragiche concatenazioni storiche ha finito per fare degli ebrei il capro espiatorio di tutti i mali che affliggono il mondo arabo e islamico. La guerra di distruzione scatenata dagli eserciti arabi contro il nascente stato di Israele fu il detonatore di un processo iniziato molto prima e che aveva radici profonde. Non essendo maturata dall’interno della società araba, per una sua trasformazione positiva, l’emancipazione degli ebrei non fu mai accettata come tale. Fu largamente considerata come la violazione di un ordine gerarchico considerato immutabile, un attacco ai valori dell’umma islamica e non come un valore positivo da coltivare. Il sionismo venne dopo, fornendo una risposta alle fasce più povere e diseredate della popolazione ebraica nel mondo arabo, a cui risposero in massa trasfigurando il dolore dell’esilio in un esodo. La demonizzazione degli ebrei e di Israele ha rappresentato nel mondo arabo e islamico l’affermazione perversa di un’identità ferita alla ricerca di una grandezza perduta. Molti futuri leader del mondo arabo, da Nasser a Sadat, Saddam Hussein, Arafat hanno compiuto i loro primi passi politici nella Fratellanza musulmana, e hanno condiviso l’odio per gli ebrei e per i britannici. Fondata nel 1928 da Hassan el Banna, un insegnante egiziano, la Fratellanza musulmana contava alla fine degli anni Trenta dello scorso secolo almeno 500.000 aderenti nel solo Egitto con una rete di sostenitori in tutto il vicino oriente. Precursori di Hamas, Hezbollah e Al Qaidah, i Fratelli musulmani propugnavano, con la loro ossessione al ritorno di una civiltà islamica incontaminata, una visione totalitaria che aveva molti punti di contatto con le ideologie dei movimenti antisemiti europei. La ricostruzione del califfato abolito nel 1924 da Ataturk, dall’Indonesia al Marocco, li rendeva nemici acerrimi di qualunque tentativo di integrare i valori islamici con la tradizione liberale e democratica occidentale. In nome del panarabismo le élites cristiane del vicino oriente poterono illudersi di sfuggire allo statuto di inferiorità cui erano state condannate per secoli. Ma si trattò di una pausa che con il crollo dei regimi nazionalisti arabi e l’ascesa dell’Islam politico vide la fine della presenza cristiana nella regione. Dal 20 per cento che era alla fine dell’Ottocento nella regione, la minoranza cristiana è oggi ridotta a poco meno del 3 per cento. Nonostante l’antisemitismo ancora diffuso, e la viscerale ostilità ideologica e religiosa che ha caratterizzato per decenni le Chiese di oriente nei confronti degli ebrei, l’unico paese della regione in cui la comunità cristiana ha continuato a crescere di numero è Israele. I movimenti panarabici e panislamici si sono sanguinosamente combattuti. Forti del sostegno dell’Unione Sovietica, i regimi nasseriano e ba’athiano ricambiarono l’accusa di infedeltà del regime wahhabita saudita accusandolo di appropriarsi indebitamente delle enormi ricchezze del mondo arabo. Ma su un punto entrambi i movimenti furono per decenni convergenti e uniti: sull’idea che per gli ebrei nel mondo arabo non c’era più posto. In un breve lasso di tempo una storia millenaria è diventata un flebile ricordo, cancellata dai libri di testi e dalla narrativa nazionale e ideologicamente demonizzata. In Libia nemmeno i cimiteri furono risparmiati. A Gerusalemme nel periodo di dominazione giordana, le pietre tombali del grande cimitero ebraico furono utilizzate per il rifacimento delle strade. In Egitto, dei settantacinque-ottantamila ebrei presenti nel 1922, una percentuale non indifferente, se si tiene conto del numero complessivo della popolazione, la popolazione ebraica si era ridotta nel 2004 a circa cento persone. Ambientando le sue opere in luoghi dove gli ebrei erano stati largamente presenti, il premio Nobel Mahfuz si astenne volutamente nei suoi romanzi da ogni riferimento. Per secoli la città di Babilonia (l’attuale Bagdad) dove fu redatto il Talmud, era stata il principale centro di irradiazione dell’ebraismo diasporico. Gli ebrei iracheni avevano attivamente partecipato allo sviluppo della cultura e della civiltà araba in ogni ambito. Dall’economia all’avvocatura, dalla finanza alla scienza, alla medicina e all’artigianato. Ma anche nei settori che toccavano più internamente l’identità collettiva: l’arte e la letteratura, la poesia e il cinema, il teatro e la musica. Salima Murad (1907-1974), una delle più note cantanti del mondo arabo, interpretò almeno cinquecento canti folkloristici che hanno allietato per decenni la vita di ogni casa araba. Ammirata e ascoltata dai suoi conterranei di ogni fede per la sua capacità di interpretazione, dopo la grande fuga non abbandonò il paese. Sposata con un famoso cantante e attore musulmano, restò in Iraq. C’è da chiedersi come abbia vissuto nel fondo della sua coscienza la perdita di un intero mondo di riferimenti. Chi sa che cosa avrà pensato quando il regime iracheno, all’indomani della guerra del 1967, impiccò alcuni dei pochi ebrei rimasti nel paese esponendone il corpo in piazza. Con la folla che inneggiava e la gente che applaudiva. Tenuti in ostaggio, vivendo nel terrore, dopo essere stati depredati, gli ebrei iracheni furono autorizzati a lasciare il paese. partire con l’obiettivo di far collassare le fragili strutture dello stato ebraico, che all’epoca contava appena seicentomila abitanti ebrei. Il furto dei beni della comunità era stato pianificato. Gli ebrei che volevano partire dovevano registrarsi entro una certa data, rinunciando alla cittadinanza irachena. I beni degli ebrei furono svenduti e musulmani e cristiani ne fecero incetta. Ma il ricavato non andò a chi svendendo i suoi beni, fuggiva per ricostruire una vita altrove. Il ricavato passò allo stato che si ripagò delle spese della guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente stato ebraico. Con la pulizia etnica si appropriarono dei beni degli ebrei, cancellando la memoria della loro presenza nel paese. Ma fecero male i loro calcoli e non ottennero l’effetto sperato di minare alle radici il nascente stato di Israele. Ma il regime iracheno, se aveva intenzione di scaricare sul nascente stato ebraico una massa di profughi con l’obiettivo di farlo implodere dall’interno, aveva fatto male i suoi calcoli. Per una eterogenesi dei fini contribuì a rafforzarne le fragili strutture. L’arrivo in Israele di 108 mila profughi ebrei dall’Iraq, in aggiunta ai venticinquemila fuggiti clandestinamente nel periodo in cui fu vietato loro di lasciare il paese, non provocò il collasso delle strutture dello stato ebraico appena nato. Al contrario rappresentarono un elemento propulsivo per la rinascita della nazione ebraica. In Iraq come in Siria, in Libia e in ogni altra parte del mondo arabo e islamico, le espulsioni e la fuga in massa furono largamente sublimate e trasfigurate. L’esilio più doloroso divenne un esodo. La realtà più dolorosa fu colorata di sogno e resa più sopportabile. Per le antiche comunità dello Yemen, perseguitate dall’Islam sin dalla sua origine, gli aerei su cui gli ebrei salivano per raggiungere Israele, dopo avere attraversato il deserto ed essere stati depredati dai predoni, erano le ali delle aquile che secondo le profezie di Isaia avrebbe ricondotto i resti un’intera nazione alla Terra dei padri. Un sogno secolare alimentato dalla speranza tenuta in vita attraverso le generazioni e che fu la vera forza nei tempi bui della persecuzione. Gli ebrei di Libia dopo sanguinosi pogrom (prima c’erano state le leggi razziste fasciste), salendo sulle navi che li avrebbero portati in Israele, intonarono la Cantica dell’esodo. La fuga degli ebrei iracheni si ammantò dei nobili nomi di Ezra e Nehemia e del racconto biblico del ritorno di Israele dopo i settant’anni dell’esilio in Babilonia. L’arrivo in massa degli ebrei dal mondo arabo in Israele fu una risorsa preziosa e irrinunciabile, perché il progetto di ricostruzione nazionale ebraica non andasse perso nei flutti della storia. L’ebraismo europeo era stato annientato. Con la loro risposta, la capacità di sopportare la vita nelle tende e nelle baracche come un sacrificio necessario per rinascere, gli ebrei dell’oriente islamico salvarono il futuro del paese. L’Yshuv contava nel 1948 appena seicentomila abitanti. Una buona parte era arrivata dall’Europa negli anni Trenta, prima del blocco dell’immigrazione ebraica voluto dalla Gran Bretagna con il Libro Bianco del ‘39. Alle centinaia di migliaia di ebrei sopravvissuti al nazismo, che languivano i campi di raccolta europei in attesa di un luogo ospitale che li accogliesse, si aggiunsero dopo l’aggressione degli eserciti della Lega araba al nascente stato di Israele oltre settecentomila ebrei fuggiti dai paesi arabi che, in mezzo a enormi difficoltà, ricostruirono le loro vite spezzate. Nel corso della guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba, Israele perse l’uno per cento della popolazione. Una percentuale pari ai caduti italiani della Prima guerra mondiale. Pochi anni prima c’era stata l’ecatombe nazista. Guidato dalla speranza in un futuro diverso il paese si riprese e creò una democrazia che resistette all’urto di altre guerre. Nel corso della guerra circa settecentomila palestinesi lasciarono le case. In un contesto non avvelenato dall’odio ideologico e religioso, il dramma poteva essere composto. Attraverso gesti di riparazione reciproca era possibile comporre politicamente un dramma. Non diversamene da quanto accaduto fra India e Pakistan e altre tragiche realtà del dopoguerra, i problemi potevano essere politicamente affrontati e superati. Ma per i regimi arabi, la ferita doveva restare per sempre aperta. A differenza di quanto avvenne per i profughi palestinesi, gli ebrei che fuggivano dal mondo arabo furono considerati una benedizione, una motivazione in più per resistere all’impatto di una guerra in cui era in gioco la sopravvivenza. Guidata da un sogno secolare di riscatto, nell’arco di un decennio la popolazione ebraica del paese triplicò di numero, passando da seicentomila a un milione e ottocentomila abitanti. La crescita esponenziale dell’ostilità antiebraica in ambito islamico è stata il risultato di una saldatura fra pregiudizi religiosi più antichi, imperniati su uno statuto religioso e politico di inferiorità delle minoranze religiose sottomesse e tollerate all’interno dell’umma islamica, con una lettura teologica e politica portata avanti dal radicalismo islamico, imperniata sull’idea di uno scontro radicale con la civiltà occidentale e con la conseguente demonizzazione degli ebrei e di Israele in un unicum indifferenziato. Ponendo l’accento su un richiamo religioso positivamente inteso, gli “Accordi di Abramo”, rappresentano un fatto nuovo con importanti implicazioni simboliche da non sottovalutare. Di là degli aspetti geopolitici, che hanno fatto da sfondo al recente avvicinamento tra il mondo sunnita e lo stato di Israele, gli accordi presentano una dimensione simbolica di natura religiosa che li differenzia, per molti aspetti, dagli accordi siglati in precedenza da Israele con gli altri stati arabi della regione. Ed è anche per questo che gli accordi sono stati presi di mira da tutti coloro che per un motivo o per un altro sono ostili ad una composizione politica e religiosa dei conflitti che lacerano la regione.

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