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Il Foglio Rassegna Stampa
08.07.2023 Come le notizie (anche false) cambiano il corso di una guerra
Analisi di Siegmund Ginzberg

Testata: Il Foglio
Data: 08 luglio 2023
Pagina: 14
Autore: Siegmund Ginzberg
Titolo: «Come le notizie (anche false) cambiano il corso di una guerra»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/07/2023, a pag. 7, l'analisi di Siegmund Ginzberg dal titolo 'Come le notizie (anche false) cambiano il corso di una guerra'.

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Siegmund Ginzberg

Fake news: Cosa sono, da dove provengono come riconoscerle. - DOGMA

Il capo non si contraddice. Gli si dice quel che lui vuole sentire dire. E qui in genere casca l’asino. Stalin, ad esempio. Disponeva di una rete formidabile di spionaggio. In casa, in Europa, a Londra e a Berlino, anche in America e in Giappone. Funzionava benissimo. Tra il gennaio e il giugno 1941, quando la Wermacht attaccò la Russia, ricevette almeno un centinaio di avvertimenti importanti, precisi, seri da fonti disseminate in tutto il mondo, trasmessi puntualmente dalla sua intelligence militare. Anche un numero maggiore secondo i documenti e le testimonianze che si sono andate via via aggiungendo, anche negli ultimi anni, arrivavano direttamente sulla sua scrivania. Era instancabile. Lavorava tutta la notte. Poi si faceva portare alla sua dacia, portandosi, come dire, il lavoro a casa. Il giorno dopo tornava al Cremlino. Annotava regolarmente a margine con il lapis o la matita blu e rossa: “Angliskaja provokacija”, o “Angliskaja dezinformacija”. La disinformazione c’era, eccome. Ma era quella abilmente confezionata dai servizi tedeschi. Stalin non era né stupido né ingenuo. La sua era una scelta meditata, razionale. Sin troppo razionale. Così come era stata razionale, furbissima, la decisione di fare il patto con Hitler per evitare che la sua Russia fosse presa a tenaglia tra Germania nazista e Giappone, con l’Occidente a godere. Era convinto che Hitler, già impegnato in una guerra con l’Inghilterra, non si sarebbe dato la zappa sui piedi aprendo un’altra guerra con l’Urss prima di avere concluso quella. Sapeva benissimo che prima o poi sarebbe successo. Ma comunque aveva bisogno di guadagnare ancora tempo, per prepararsi. Almeno fino al 1942, possibilmente fino al 1943. Quanto a logica non fa una piega. Ma presuppone che gli avversari ragionino con la stessa logica. Altrimenti è una logica che conduce alla catastrofe. Per un leader, e specie per un leader assoluto, c’è solo una cosa peggiore che non disporre di informazioni accurate: interpretare male quelle di cui dispone. Il 17 giugno 1941, appena 5 giorni prima dell’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’attacco nazista all’Urss, Stalin aveva ricevuto da Pavel Fitin, l’allora capo della sezione di intelligence estera dell’Nkgb, un rapporto in cui si diceva che tutti i preparativi per un attacco armato erano stati completati e che ce lo si poteva aspettare in qualsiasi momento. La fonte era un ufficiale dell’intelligence nel ministero della Luftwaffe di Göring. Stalin annotò a margine: “Potete dire alla vostra fonte di andare a fottere sua madre. Non è una fonte ma un dezinformator”. Il 15 giugno un telegramma urgente dell’ambasciatore sovietico a Berlino, Dekanozov avvertiva che “a questo punto [il concentramento di truppe tedesche al confine sovietico] non può più in alcun modo essere considerato una mossa dimostrativa, al fine di ottenere ulteriori concessioni”. Beria, il capo dell’Nkvd, scrisse a Stalin proponendo di richiamare a Mosca e punire questo “Dekanozov che continua a bombardarci con rapporti su pretesi preparativi da parte di Hitler per attaccare l’Urss”. “Io invece – proseguì Beria con perfetto servilismo da sicofante – ho bene a mente la tua saggia conclusione: che Hitler non ci attaccherà nel 1941”. Con altrettanto perfetto tempismo, il 21 giugno, il giorno prima dell’attacco, mandò a rinfrescarsi “nella polvere del Gulag” quattro funzionari dell’Nkvd che continuavano a passargli rapporti “insulsi” tipo questo. Alcuni disertori tedeschi che alla vigilia dell’invasione avevano attraversato le linee per avvertire dell’imminente attacco (dissero che erano coscritti, simpatizzanti della sinistra) furono fucilati in quanto “provocatori”. Il 13 giugno un telegramma da Tokyo del più famoso della spie di Stalin, Richard Sorge, aveva avvertito ancora volta, con estrema precisione: “Ripeto: 9 armate [tedesche] forti di 150 divisioni, inizieranno l’offensiva all’alba del 22 giugno”. Un messaggio dello stesso tenore era stato ricevuto già in maggio. Stalin aveva suggerito di richiamare Sorge a Mosca. Per fargli la festa. Lo aveva definito “uno stronzetto che si è sistemato a Tokyo mettendo su alcune fabbriche e bordelli privati”, e aveva chiesto di “non passargli più simile disinformazione tedesca”. Siccome il capo non sbaglia mai, a Mosca erano convinti che Sorge fosse diventato agente doppio. E’ possibile che fossero loro a denunciarlo al Kempeitai, la Gestapo giapponese. Immaginate M. che vende 007 per levarselo di torno. Prima che lo arrestassero, Sorge avrebbe fatto ancora in tempo a inviare l’informazione che avrebbe evitato a Stalin una disfatta totale. La notizia che, malgrado le pressioni naziste, i giapponesi non intendevano attaccare la Russia da Est aveva consentito ai sovietici di liberare e trasferire tempestivamente contro i tedeschi le armate stazionate al confine con la Manciuria. Furono quei 700.000 soldati freschi a rovesciare le sorti di una guerra che sembrava persa. Stalin non gliene fu riconoscente. Quando i giapponesi, prima di impiccarlo, proposero uno scambio con un loro alto ufficiale in mano sovietica, la risposta di Stalin fu: “Sorge? Non conosco nessuno con quel nome”. I despoti sono ostinati. I sicofanti anche peggio. A lungo l’ordine perentorio all’Armata rossa era stato: evitare ogni genere di movimenti militari che potessero “provocare” i tedeschi. Molti comandanti militari erano terrorizzati che un loro zelo eccessivo venisse considerato disobbedienza. Rimasero paralizzati anche a invasione già iniziata. Costò all’Urss la perdita di metà degli oltre 5 milioni di effettivi. Nel primo mese di guerra l’Armata rossa aveva perso quasi 3 milioni di soldati, il 90 per cento dei carri armati. Si ripresero per il rotto della cuffia. Che riuscissero a reclutare nel giro di un anno altri 5 milioni di soldati fu un miracolo. Era cominciata nel weekend. Stalin fu avvertito in piena notte. Gli ci volle un po’ per riprendersi. Anche il capo dei servizi militari, Fitin, era andato a passare il fine settimana in dacia. Lo svegliarono chiedendogli di tornare immediatamente a Mosca. Gli dissero che le truppe tedesche avevano attraversato la frontiera. L’uso di una parola anziché di un’altra può pena. Tutti, persino gli uomini dei servizi, avevano paura a usare la parola “guerra”. Se il capo dice che la guerra non ci sarà, e comunque non quell’anno, usare la parola “guerra” è pericoloso, può essere considerato tradimento, costare la perdita del posto, o peggio. Certe cose restano nel profondo della memoria storica. Si spiega perché per un anno e passa, e tuttora, in Russia si continua a parlare di “operazione speciale”, non di “guerra” in Ucraina. Tutto quello che volete sapere sulla vicenda, in What Stalin Knew. The Enigma of Barbarossa, di David E. Murphy (Yale University Press 2005). Meglio di qualsiasi romanzo. Ruota attorno ad una figura straordinaria, forse meno conosciuta di altre. Ivan Josifovich Proskurov, nato in Ucraina, in un villaggio nell’oblast di Zaporizhzhia, di origini ebraiche come suggerisce il cognome, era uno dei pochissimi 007 russi sopravvissuti alle epurazioni seguite alla disfatta in Spagna. Grande professionista, era uno dei pochi capaci di dire a Stalin cose che non gli andavano a genio. Da responsabile dell’intelligence militare gli aveva inviato, nel maggio del 1939 un rapporto intitolato: “I futuri piani di aggressione della Germania fascista, secondo le stime di un [loro] funzionario del Ministero degli Esteri, Kleist. Non era il momento giusto. Stalin aveva appena comunicato al suo ministro degli Esteri, Litvinov, che lo dimetteva. Maksim Litvinov era ebreo, e questo imbarazzava Stalin, che aveva già deciso di fare il Patto con Hitler. La successiva occasione di scintille tra Stalin e Proskurov fu una riunione al Cremlino nell’aprile 1940, per tirare le somme della disastrosa guerra invernale contro la Finlandia. Pensavano di concluderla in quattro e quattr’otto. Furono respinti con perdite (e un colpo tremendo al prestigio dell’Armata rossa, nonché la disapprovazione di quasi tutto il resto del mondo). Una specie di prequel, con 80 anni di anticipo, al disastro dell’“Operazione speciale” in Ucraina. I verbali della riunione mostrano uno Stalin che cerca di addossare la colpa a Proskurov. Gli altri rincarano, compiacenti, le frecciate del capo. E Proskurov che gli tiene testa, punto dopo punto. Proskurov, che continuava a fare onestamente il suo mestiere, avvertendo di tutti i segnali di preparazione di un attacco tedesco all’Urss non poteva durare. La goccia che fece traboccare il vaso fu un’altra analisi corretta: che la Germania non era in grado di invadere l’Inghilterra. Contraddiceva Stalin, sicuro che Hitler avrebbe finito con l’Inghilterra prima di attaccare la Russia. Proskurov fu dimissionato e sostituito da un burocrate più accomodante. Filipp Golikov, il quale classificava sistematicamente i rapporti non secondo la loro attendibilità ma a seconda che assecondassero o meno la “genialità” di Stalin. Molto più tardi, nel 1965, avrebbe ammesso: “Piegavo l’intelligence per assecondare Stalin, perché ne avevo paura”. Fu dimissionato dopo la battaglia di Kharkov, in Ucraina, l’ultima vittoria tedesca nel conflitto. Proskurov non era già più in vita. Era stato degradato ad un incarico militare meno importante, e infine arrestato il giorno stesso dell’attacco tedesco, prima che riuscisse a raggiungere il suo nuovo comando. Fu, come altri, fucilato in segreto. Ostinato sino all’ultimo, anche sotto tortura. Una nota del protocollo di interrogatorio dice: “Proskurov rifiuta di riconoscere le sue colpe”. La riabilitazione e la proclamazione a eroe dell’Unione Sovietica furono postume. Non che le cose andassero molto meglio per le altre intelligence. Hitler era convinto di saperla più lunga della sua intelligence e dei suoi generali. Mise a tacere tutti quelli che ritenevano imprudente attaccare l’Urss. Era convinto che si sarebbe sgretolata prima dell’arrivo dell’inverno, così come Putin era convinto di prendere Kyiv (e probabilmente anche Zelensky) nel giro di pochi giorni. I successi iniziali nel blitzkrieg gli avevano montato la testa. Era accecato dai suoi pregiudizi ideologici. Si era convinto della propria infallibilità. Si proclamò capo supremo delle Forze armate, per zittire i generali che non avevano grande considerazione del genio militare di uno che non era andato oltre il grado di caporale. Bisogna dire che i generali tedeschi che ebbero il coraggio di contraddirlo furono forse meno dei colleghi sovietici. Forse lo temevano quanto e più di quanto quelli temevano Stalin. I francesi, che passavano negli anni ‘30 come i migliori e i più attrezzati, avevano le proprie gatte da pelare in politica interna. Cercando nel web mi è capitato sotto gli occhi un vecchio articolo degli anni ‘30, su Foreign Affairs, di Edouard Herriot, che aveva guidato il Cartel des Gauches, l’alleanza di radicali e socialisti contro il Bloc national delle destre. Cerca di spiegare all’audience americana perché le violente manifestazioni di protesta di Place de la Concorde del febbraio 1934, promosse dalla destra populista (37 morti e 600 feriti) non scalfiranno la democrazia francese anche se hanno fatto cadere il suo governo. C’erano due proteste, scrive, quella dell’estrema destra che ce l’ha con la Repubblica democratica e quella di chi sostiene la Repubblica ma la vuole “più pulita” e “meno corrotta”. In ogni caso la maggioranza dei Francesi vuole “prima e sopra a tutto che si mantenga l’ordine”. Sembra di sentire Macron. Il Deuxième bureau funzionava. Ma i politici ragionavano con una propria, diversa lunghezza d’onda. Rispondevano ad un’ondata di pacifismo senza se e senza ma, da sinistra ma soprattutto da destra. Marcel Déat, l’autore del celebre articolo “Mourir pour Dantzig ?” (Morire per Danzica?”), apparso il 4 maggio su l’Œuvre, giusto qualche settimana prima dell’attacco di Hitler alla Polonia con la scusa di riprendersi il corridoio per l’enclave di Danzica, da socialista poi divenne nazista. L’opinione pubblica era ancora scossa dall’immane massacro consumatosi nelle trincee della Prima guerra mondiale. Ripudiava l’idea di qualsiasi guerra. Churchill aveva ottimi servizi di intelligence. Professionisti di grandissima levatura. Giustamente celebrati nei romanzi del Novecento, da autori che avevano anche il vantaggio di conoscere bene l’ambiente, i meccanismi e i personaggi, perché erano stati del mestiere: da Graham Greene, che i romanzi di spionaggio aveva cominciato a scriverli sin dagli anni Trenta, al disincantato agente Ashenden di Somerset Maugham, al James Bond di Ian Fleming, allo Smiley di John Le Carré (e ai suoi più maltrattati personaggi di epoca post-guerra fredda). Anche prima del 1936, e poi fino al 1939 avevano conoscenza dettagliata dei piani di riarmo tedeschi. Ma i diversi servizi lavoravano in cagnesco, ciascuno tirava l’acqua al proprio mulino. Foreign Office e Ministero dell’Aviazione erano ai ferri corti, litigavano per spartirsi i fondi. Insomma anche i servizi britannici avevano le loro debolezze. Non avevano visto arrivare Hitler. Poi avevano capito bene, dal 1936 in poi, dove sarebbe andata a parare. Ma non riuscirono a convincere i loro committenti politici che la loro strategia e le loro illusioni di appeasement di Hitler non potevano funzionare. Churchill non sapeva che i vertici dei suoi servizi erano stati infiltrati da agenti al servizio di Mosca, reclutati nelle stesse grandi università dove l’MI-5 continua a reclutare il suo personale. Peggio: non sapeva che proprio i “Cambridge Five” avrebbero frustrato i suoi tentativi di convincere Stalin che le sue proposte di alleanza contro il comune nemico Hitler erano sincere, non una trappola. Forse senza rendersene conto, fornirono a Mosca elementi per sostenere le paranoie pregiudiziali di Stalin. John Cairncross, il quinto dei “Cambridge five”, quello che era riuscito a restare attivo, anche dopo che gli altri erano stati scoperti, fino alla fine degli anni ‘60, aveva fornito informazioni secondo le quali il governo britannico aveva deciso di creare tensioni tra Germania e Russia, e che, a questo fine, gli agenti britannici diffondevano voci su un’aggressione imminente all’Urss. Kim Philby che era assurto ai vertici della sezione di controspionaggio del Mi-6, confermava, rafforzando in Stalin la convinzione che gli avvertimenti di Churchill avevano un secondo fine. Si era poi riscattato anticipandogli – anche lui – i piani dell’Operazione Barbarossa. Ma era tardi. Non gli credettero, sospettarono che facesse il doppio gioco. Anche perché gli diceva che in quel momento non c’erano spie britanniche attive in Russia. Era assolutamente vero. Ma alla luce dei loro preconcetti gli pareva incredibile. A differenza degli altri, l’americano Roosevelt si era trovato privo di servizi di intelligence. Aveva rimediato reclutando amici e conoscenti, non professionisti ma gente facoltosa, con agganci e conoscenze in giro per il mondo. I biografi sostengono che a lungo la sua intelligence si era fondata sul contributo amatoriale di un centinaio di “privati” che avevano costantemente libero accesso al suo ufficio alla Casa Bianca. Tra questi, molti giornalisti, da Dorothy Thompson, la prima ad intervistare Hitler cancelliere (aveva sbagliato di grosso, scrisse che sarebbe durato poco) a Edgar Snow (che di ritorno dalla Cina gli parlava bene di Mao e male di Chiang Kai-shek,e poi di ritorno dalla Russia gli portava le avances di amicizia di Litvinov. Solo in extremis Roosevelt decise di affidarsi ad un avvocato cattolico di origine irlandese, con il quale aveva condiviso i banchi dell’università alla Columbia, perché mettesse in piedi l’Office of Strategic Studies (Oss), l’antesignano della Cia. William Donovan era un entusiasta, pieno di buona volontà, era al di sopra delle lotte sorde e degli sgambetti tra di loro dei servizi militari, marina contro aviazione e così via. Trascinato dall’entusiasmo ebbe qualche pessima idea, tipo quando, subito dopo Pearl Harbour, propose di invadere immediatamente il Giappone con 15.000 commando e poi di bombardare le riserve d’acqua del Giappone con feci umane. Su queste cose F.D.R. riusciva a tenerlo a freno. Meno sulla sua incompetenza amministrativa. L’Oss non riuscì ad avere agenti sul campo in Germania prima del 1944. Prima di allora tutto quello che gli alleati sapevano proveniva dalle intercettazioni dei messaggi criptati, decifrati all’insaputa dei tedeschi e dei giapponesi grazie alla marina britannica che era riuscita a mettere le mani su uno degli apparecchi per la cifratura elettromeccanica Enigma. Roosevelt ascoltava con curiosità e attenzione tutti i suoi interlocutori, non pretendeva che gli dicessero solo cose che confermassero quanto già aveva deciso. C’è chi l’ha definito un “buco nero intergalattico”, che assorbiva avidamente ogni genere di informazione, dai professionisti come dagli amici e commensali occasionali, senza però lasciar trapelare nulla di che uso intendeva farne. Non era un’anima candida. Sapeva gestire anche la disinformazione. “Sono perfettamente pronto a sviare e dire cose non vere se ci fossero di aiuto a vincere la guerra”, disse nel 1942 al suo segretario al Tesoro Henry Morgenthau. Roosevelt aveva un problema politico. Un sondaggio Gallup fatto appena un mese prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, con la guerra in corso in Europa già da un paio d’anni, rivelava che solo il 17 per cento dell’opinione pubblica era favorevole ad un intervento Usa a fianco dell’Inghilterra. Erano “pacifisti” e isolazionisti a oltranza non solo gli “amici” di Hitler, ma tutti i nemici del suo New Deal, tutte le destre, quasi tutti i grandi giornali, tutte le stazioni radio indipendenti, a cominciare dalla Cbs che ospitava il seguitissimo programma ultraconservatore e antisemita del reverendo Charles E. Coughlin. Nel dicembre 1941 quando ci fu l’attacco a Pearl Harbour gli americani erano già in grado di decifrare i messaggi giapponesi. Di tanto in tanto viene risollevato l’interrogativo sul se e quanto Roosevelt sapeva e su quanto invece si era perso negli ingranaggi della burocrazia e delle frizioni tra i diversi servizi. L’unica cosa certa è che all’indomani Roosevelt fu rapidissimo ad approfittarne e procedere a pieno regime in una guerra che solo fino a pochi giorni prima l’opinione pubblica e il Congresso Usa non gli avrebbero fatto passare. Hitler dal canto gli diede una mano dichiarando anche lui, quattro giorni dopo, guerra agli Stati Uniti. Mi è capitato di conoscere e frequentare diversi presidenti Usa. Mi colpiva la “signorilità” di George Bush padre, che di intelligence e di come capire gli altri se ne intendeva: era stato a capo della Cia e primo ambasciatore a Pechino. Suo figlio meno. Si era fatto convincere dagli ideologi neocon, piuttosto che dalla sua intelligence. Tra le parole famose, a proposito del suo incontro con Putin: “L’ho guardato negli occhi, ho scrutato la sua anima, e trovo l’uomo diretto e affidabile”. Putin, i lettori l’avranno capito, è quello che più mi ricorda Stalin. Lo stile con cui Biden gestisce le oltre 18 diverse agenzie in cui si articola l’intelligence Usa mi ricorda piuttosto quello di Roosevelt. Il suo capolavoro: rivelare al mondo che sapeva della decisione di Putin di invadere l’Ucraina. La cosa ancora da capire: accusare Xi Jinping di essere un “dittatore” che non sa perché qualcuno dei suoi ha mandato un pallone a spiare gli Usa, e, al tempo stesso, ammettere che il pallone abbattuto non era in grado di ritrasmettere le sue informazioni in Cina. Con la tecnologia si vengono a sapere cose che un tempo nemmeno si poteva immaginare. Ma per venire a conoscenza delle intenzioni di Putin ci voleva qualcuno che stesse con lui al Cremlino. Per capire le intenzioni della Cina non basterebbe nemmeno questo. Il vero interrogativo non è quanti uomini, missili, droni, satelliti hanno ma quanto, e soprattutto che cosa sanno gli uni degli altri. Che pieghino le informazioni alle loro scelte politiche forse è inevitabile. Ma bisogna sperare che almeno siano accurate.

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