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Il Foglio Rassegna Stampa
02.02.2023 Praga, arriva il nemico di Russia e Cina, bene per l’Europa e Ucraina
Commento di Paola Peduzzi, Micol Flammini

Testata: Il Foglio
Data: 02 febbraio 2023
Pagina: 5
Autore: Paola Peduzzi, Micol Flammini
Titolo: «Sul confine conservatore dell’est con general Europa»

Riprendiamo dal FOGLIO  di oggi, 02/02/2023, a pag. 5, con il titolo 'Sul confine conservatore dell’est con general Europa', l'analisi di Paola Peduzzi, Micol Flammini.

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Paola Peduzzi

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Micol Flammini

Un ciuffo invidiatissimo, due occhi che lasciano spazio a tutto fuorché ai tentennamenti, un sorriso aperto e venato da quel pizzico di sarcasmo che sembra quasi disdicevole se accostato a un’uniforme decorata da innumerevoli mostrine, inclusa la Legion of Merit dell’esercito americano. Il tutto coronato da baffi da moschettiere e una barba perfettamente in tono con i capelli, senza capricci, disordine o imprecisioni: lodevolmente curata. I cechi, si sa, nella nostra personalissima classifica dei popoli più stilosi d’Europa occupano i primi posti, ma non avremmo mai immaginato che sarebbero stati in grado di coronare questo loro primato anche con l’elezione di un presidente degno dei ruoli principali di un film di Wes Anderson. E invece, eccolo lì, pronto per insediarsi nel castello di Praga, luogo di residenza, in realtà disabitato, di tutti i presidenti della Repubblica ceca: Petr Pavel, General Europa. I cechi lo chiamano semplicemente “il generale”, ma questo signore impeccabile di sessantuno anni ha dichiarato un amore rigoroso per l’Europa e soprattutto per l’Alleanza atlantica.
Petr Pavel, new president of the Czech Republic: Who is he and what is his  position in relation to Ukraine and Russia? - UATV
Petr Pavel, nuovo presidente, tutta la sua carriera
 

 Il suo cursus honorum inizia in casa, suo padre Josef è stato un importante ufficiale delle Forze armate cecoslovacche, un pioniere nel campo dell’uso della tecnologia a servizio dell’intelligence, ovviamente iscritto al Partito comunista cecoslovacco, come chiunque a quel tempo ricoprisse incarichi di rilievo. Anche Petr, che voleva seguire le orme di suo padre, dovette iscriversi al Partito. Era il 1985, tre anni dopo divenne capitano. La Primavera di Praga c’era stata vent’anni prima, quando era troppo piccolo per ricordarla, la Rivoluzione di velluto ci sarebbe stata a breve. Da questo periodo di tumulti, il futuro presidente ceco uscì convintamente europeista e fedelmente atlantista, pronto ad assumere incarichi importanti nelle Forze armate in territori come la Bosnia, l’Iraq o l’Afghanistan. Nel 2015 è diventato presidente del Comitato militare della Nato e dopo aver ricoperto questa carica ha iniziato a pensare alla politica, definendosi un conservatore sociale di centrodestra. Bisogna partire da questo generale, neoeletto presidente, per osservare i cambiamenti che arrivano da est, come mutano le sfaccettature del conservatorismo e soprattutto come l’invasione dell’Ucraina ha cambiato le titubanze riguardo al vicino orientale minaccioso e inquieto, quella Russia che per le strade di Praga è un ricordo vivido con una forma ben precisa: un carro armato. L’europeista e l’eurofilo. Petr Pavel era arrivato al ballottaggio con un’altra figura nota della politica ceca, Andrej Babis, ricco imprenditore, ex premier, spesso accostato a Donald Trump: un azzardo comparativo piuttosto ingiusto. Babis ha avuto problemi con la giustizia riguardo ai suoi affari, si è messo in politica probabilmente con l’intenzione di proteggere le sue ricchezze, ma nelle elezioni che ha perso, finora due, ha riconosciuto la sconfitta, nonostante il suo partito rimanga il più apprezzato della Repubblica ceca. La scelta tra i due, il generale conservatore e l’imprenditore liberale, non sarebbe stata la scelta tra due mondi, piuttosto tra due sfumature di europeismo. Pavel rappresenta un’adesione più battagliera, l’europeismo come identità, Babis crede piuttosto che l’Europa sia l’universo giusto a cui appartenere e anche il più comodo. Ha vinto il primo, e dopo un anno di guerra della Russia contro l’Ucraina, vuol dire anche che i cechi hanno scelto l’europeismo battagliero rispetto a quello di comodo, spazzando via l’èra delle ambiguità di Milos Zeman, l’elefante della politica ceca, anche lui militante del Partito comunista che aveva creduto nella svolta di velluto, ma che negli anni della sua presidenza andava raccontando che il posto di Praga non era con Bruxelles o con Washington, piuttosto con Mosca e Pechino. Sul Cremlino si è ricreduto soltanto dopo l’inizio dell’invasione, dimostrando a tutti gli amici di Vladimir Putin che alle amicizie tossiche bisogna mettere fine, anche se un tempo si rivelavano comode. Il paradigma ceco. Piccola, strattonata tra il centro e l’est dell’Europa, la Repubblica ceca ha coltivato con Mosca rapporti cordiali fino a un’esplosione. Il 16 ottobre del 2014, un deposito di munizioni nella località di Vrbetice esplose causando la morte di due dipendenti. La polizia aveva iniziato a indagare pensando che si trattasse di un incidente ma le prove iniziarono ad accumularsi, le coincidenze a farsi fitte e portavano tutte a Mosca. C’erano strani passaporti, prestanome russi e soprattutto c’era il destinatario delle munizioni che erano state raccolte nel deposito: Emilian Gebrev, commerciante di armi bulgaro che nel 2015 sopravvisse a un tentativo di avvelenamento, e che stava rifornendo l’Ucraina, già impegnata nella guerra nell’est del paese contro i sedicenti separatisti filorussi. Le indagini rivelarono che era stato il Gru, l’intelligence militare russa, ad architettare l’esplosione, affidando il compito a due uomini dell’unità 29155. Quando emersero tutte queste prove, a capo del governo c’era Andrej Babis, che intraprese una lotta diplomatica contro la Russia talmente feroce da sembrare uno scontro tra Davide e Golia. Zeman derubricò i risultati delle indagini come sciocchezze, Babis non esitò e diede inizio alla più sonora e sbalorditiva espulsione di diplomatici russi mai effettuata in Europa. Era il momento di svolta nei rapporti con Mosca e quando la Russia invase l’Ucraina i cechi sapevano già da che parte stare. Più piccoli, meno armati e con problemi di dipendenza energetica, sono scesi in strada contro la guerra, nonostante tutto. Ci sono partiti filorussi in Repubblica ceca e lo scorso autunno hanno provato a organizzare manifestazioni contro le sanzioni, contro le politiche energetiche, dicendo: continuando così, moriremo di freddo, cosa ce ne importa dell’Ucraina. I cechi rispondevano: ce ne importa eccome, metteremo il cappotto anche in casa. Era una risposta ai partiti putiniani in cerca del loro momento e a Putin in cerca delle debolezze della politica ceca. Le destre, Putin, le exit. Per molto tempo Putin ha cercato di perturbare la vita politica europea aiutando l’emergere di movimenti e partiti sovranisti, contrari all’Unione europea e pronti a spezzarla. Si è a lungo parlato e indagato sull’ingerenza russa nella madre di tutte le spaccature, la Brexit, ma abbiamo imparato che gli strumenti utilizzati non sono visibili a occhio nudo, s’insinuano nei media, nelle università, nel retro degli uffici dei politici. Più a destra che a sinistra, anche se Jean-Luc Mélenchon in Francia è lì a ricordarci che le sinistre non sono affatto impermeabili al putinismo. Nell’est europeo, dove il conservatorismo si è trasformato moltissimo arrivando a creare dei blocchi di potere parecchio euroscettici, il putinismo ha fatto comunque fatica perché come abbiamo scoperto fin dal primo giorno dell’invasione in Ucraina il ricordo della ferocia sovietica e delle mire espansionistiche russe è sempre molto presente. Se non fosse per l’anomalia ungherese, potremmo dire che il muro antiputiniano ha retto: soltanto Viktor Orbán ha avuto, con disprezzo della propria stessa storia, il coraggio di dire che l’Ue è peggio dell’Unione sovietica, così come per un anno si è messo di traverso per sfibrare l’unità europea, senza riuscirci ma portandosi a casa un po’ di soldi europei e il gas russo. Altri partiti nazionalisti nell’Europa centrale hanno pagato col declino il loro putinismo: l’Övp austriaco, che perse addirittura l’occasione di stare al governo per un intrallazzo russo, o l’AfD tedesca, che ha probabilmente già raggiunto il suo picco di consensi. Il declino è antecedente alla guerra di Putin, ma il putinismo ha contribuito all’affossamento. Ogni partito e ogni destra ha la sua storia, ma nessuno come Boris Johnson, l’ex premier britannico, racconta meglio la fine della sbornia populista. Conservatore liberale, Johnson ha cavalcato la Brexit, il progetto più nazionalista di sempre, se n’è fatto testimonial, araldo, fantasioso portavoce e poi ha trascinato il suo partito nei meandri di un disastro annunciato, perdendo il posto e la faccia. Non è mai stato amico della Russia, Johnson, tutt’altro, ma ha fatto carriera con un progetto che ai putiniani è sempre piaciuto tantissimo, proprio perché mina la capacità dell’occidente di stare unito. Oggi la Brexit mostra la sua faccia vera, che è una faccia triste, e Johnson, premier pensionato, recupera e martella nella testa degli occidentali i valori che ci tengono insieme, che ci tengono vicini all’Ucraina, che ci permettono di fare whatever it takes per respingere l’assalto di Mosca, che mostrano quanto poco liberale era la voglia di andarsene da soli. Pavel contro gli autocrati. Appena eletto, il nuovo presidente ceco ha fatto due telefonate. La prima a Volodymyr Zelensky, rassicurandolo sul sostegno della Repubblica ceca al popolo ucraino. La seconda alla presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, per riaffermare quanto Praga e Taipei condividano gli stessi valori di libertà, diritti umani e democrazia e augurandosi di incontrarla presto di persona. Il ministero degli Esteri cinese ha risposto furibondo che la telefonata di Pavel costituiva “una grave interferenza negli affari interni della Cina e una palese violazione dell’impegno politico della Repubblica ceca nei confronti del principio di un’unica Cina e un segnale sbagliato alle forze separatiste” di Taiwan. E ancora: “Esortiamo la Repubblica ceca a correggere l’illecito”. Pavel non si è fatto intimidire: prendere le distanze dalla Cina era proprio quello che voleva per rimarcare anche la differenza con il suo predecessore Zeman. E con flemma ha risposto: “Capisco che la Cina abbia delle riserve sul mio colloquio con Taiwan, ma siamo un paese sovrano e facciamo ciò che riteniamo giusto. Con Taiwan condividiamo valori e importanti relazioni commerciali, il che è del tutto in linea con il nostro concetto di politica estera”. Precisione, mira, nessuna sbavatura, Pavel si è presentato alle elezioni dicendo che l’occidente avrebbe dovuto reagire con più forza all’invasione dell’Ucraina. Dal castello di Praga è pronto a spazzare via ogni ambiguità, anche con Pechino. Il castello sorge su uno dei nove colli di Praga, due in più di Roma. Domina la capitale come una figura aliena, un occhio puntato sul resto della città. Ha una vita a sé, protetta, isolata e, in questi anni con l’assente Zeman, sembrava sovrastato da una nube densa di diffidenza che lo rendeva ancora più distaccato dal resto della città. Ora pare essersi riavvicinato. I cechi hanno un talento sfacciato per le installazioni e uno dei personaggi che preferiscono è Vladimir Putin. Le vie di Praga sono irridenti, vivaci, si percepisce uno spirito frenetico e il posto più naturale i
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