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Il Foglio Rassegna Stampa
18.12.2022 Le piazze contro le dittature
Analisi di Siegmund Ginzberg

Testata: Il Foglio
Data: 18 dicembre 2022
Pagina: 10
Autore: Siegmund Ginzberg
Titolo: «La piazza s'ingegna»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 18/12/2022, a pag.10, con il titolo "La piazza s'ingegna" l'analisi di Siegmund Ginzberg.

SIEGMUND GINZBERG -
Siegmund Ginzberg

Iran: A really simple guide to the protests - BBC News
Proteste contro il regime in Iran

Quando è proibita, la protesta si fa creativa. Di fronte alla protesta il potere ha la scelta di cedere un poco, in attesa che la situazione si calmi. O di rispondere alle buone con le cattive, alla vecchia maniera, con la clava. L’esito, in un caso come nell’altro, non è mai scontato. Non sempre però funziona la fantasia. Talvolta basta un nonnulla perché diventi incubo. Dall’Iran hanno fatto il giro del mondo le immagini delle ragazze che si tolgono il velo e lo roteano in gesto di sfida, o si tagliano una ciocca di capelli. Le abbiamo sentite cantare “Bella ciao” e “Baroye”, la canzone che elenca le ragioni della protesta (il titolo in persiano vuol dire “Perché…”). Protesta civile, quasi soave. Al manganello e alle pallottole rispondevano con un sorriso, con una risata. E’ diventato virale, e pare faccia ridere tutti a crepapelle, un video che raccoglie scene in cui un ragazzo, più raramente una ragazza, avvicina da dietro un mullah in turbante, gli molla uno scappellotto e glie lo fa volare via. Deve essere un gesto diffuso. Una delle immagini della raccolta mostra un religioso che, evidentemente per evitare che glielo facciano volare via, il turbante se l’è legato al mento con un foulard. Gli hanno risposto con le impiccagioni in pubblico. Da grandi e appariscenti gru gialle per i lavori stradali, usate come patibolo. Una grande inventiva si applica anche all’aggirare con i vpn la censura in internet. A Shanghai li abbiamo visti protestare contro le draconiane misure anti-covid agitando non il memorabile libretto rosso, ma fogli di carta bianchi. Sulla carta non li si poteva accusare di nulla. Ma il messaggio era chiarissimo. Il bianco in Cina è il colore del lutto. Un foglio bianco era anche il modo per dire: siccome ci impediscono di dire qualsiasi cosa, noi protestiamo senza dire niente. Si sono prontamente moltiplicati su WeChat, che è il Whatsapp cinese, profili in cui la foto viene sostituita da un quadratino bianco. Il senso era: non facciamo nulla di illegale, non potete accusarci di nulla. Ironia contro il più potente e attrezzato stato di polizia al mondo. Ma il potere non scherza, non fa distinzione tra ironia e protesta, non si cura di sottigliezze giuridiche che distinguono tra lecito e illecito. Anzi reagisce ancora più duramente quando si sente preso in giro. Quelli che avevano steso striscioni di protesta dai cavalcavia della capitale durante il Congresso del Pcc, o avevano osato manifestare invitando Xi Jinping a dimettersi, erano stati prontamente individuati, coi sofisticatissimi sistemi di riconoscimento facciale, ed erano stati fatti prontamente sparire dalla circolazione. Quella che già veniva definita come “la rivoluzione A4”, dal nome universale del formato della normale carta da ufficio, ha strappato qualche sorriso, acceso qualche speranza. A un certo punto si era diffusa la voce che le cartiere “in nome della sicurezza e della stabilità nazionale” sospendevano la produzione e la vendita di fogli A4. Le autorità si erano affrettate a smentire questa voce “falsa e tendenziosa”, senza rendersi conto che così si coprivano ancora più di ridicolo. Ma i regimi autoritari non sono spiritosi. Quando la scena delle proteste con il foglio bianco è diventata virale, e si è ripetuta in decine, centinaia di città in tutta la Cina, hanno cominciato a disperdere i manifestanti a manganellate. Li hanno arrestati accusandoli di adunata sediziosa. Quelli allora hanno cominciato a scrivere qualcosa sulla faccia opposta dei fogli che agitavano: “Per favore, niente adunate”. In un video si sente scandire uno slogan in cui si invoca: “Fateci i test per il covid”. Seguono grasse risate. E’ una forma di ironia che in Cina si dice “yin yang quai chi”, stranezza del yin e del yang, i simboli taoisti che si fondono e mutano nel loro contrario. In Cina il test non è un semplice fastidio. Porta dritto alla chiusura, praticamente all’incarcerazione di interi edifici o quartieri, o intere città. A Pechino, alla prestigiosa Università Tsinghua, gli studenti esibivano un messaggio ancora più criptato: una delle eleganti equazioni del matematico russo Aleksandr Friedman, che governano l’espansione dello spazio nei modelli dell’universo. Soluzione del rebus: anche in cinese il nome dello studioso sta per “Uomo libero”. Internet in Cina non è territorio dove ciascuno può dire quel che gli pare. I post e i video sospetti vengono immediatamente cancellati. Non occorre nemmeno un intervento umano. Ci pensa un algoritmo. Sono consentiti solo i messaggi che elogiano la politica del governo. E allora la protesta ha assunto la forma di una valanga di messaggi zeppi dei caratteri “bene”, “bravi”, “corretto”, e via lodando. Il potere non sa leggere, è analfabeta, come le guardie nel Boris Godunov che ha aperto la stagione alla Scala. Nel dubbio, come è successo più volte nella storia della Cina, o della Russia, o di tutti gli stati autoritari, abolisce ogni forma di scrittura o di espressione. Una risata vi seppellirà, suonava lo slogan del ’68. Associato a uno ancora più bello, comparso sui muri di Parigi nel maggio del 1968: “La fantasia al potere”. Ma vaglielo a spiegare a chi detiene il potere e non intende mollarlo a nessun costo. Sorriso e irrisione non sempre funzionano. Non sono bastate le Femen con le tette al vento a scalfire il potere di Putin, né tanto meno a convincerlo a non fare la guerra in Ucraina. L’humour dei cabarettisti ebrei, a cui ci si aggrappava persino sui treni diretti ad Auschwitz, non ha fermato l’orrore. La protesta del 2013 a piazza Taksim per salvare Gezi Park era un capolavoro di ironia e resistenza non violenta. Ma Erdogğan che l’ha repressa brutalmente è ancora lì. L’ironia poi ha anche delle controindicazioni. Non sempre viene capita. Non sono sicuro che nelle sue forme più sottili venga compresa e apprezzata da quella quasi metà della popolazione cinese che ancora non vive nelle grandi città. Non saprei dire quanto venga capita e apprezzata da chi vive in provincia o nelle immense periferie, nel profondo della Turchia di Erdogğan, o nella Russia profonda di Putin. L’altra controindicazione è che viene capita benissimo dal potere, tanto bene che lo fa sentire insicuro, lo rende furibondo, suscita reazioni spropositate. Quanto inventiva, creativa è la protesta, quanto più colpisce nel segno, tanto rozza, brutale, feroce è in genere la repressione. I regimi autoritari non vanno per il sottile quando si sentono minacciati. Hai voglia che a Teheran le ragazze protestassero senza far male a nessuno, danzando e cantando per le strade. Hai voglia che la gente rida dei religiosi, li chiami zucche vuote, faccia ironia apparentemente innocente, imbratti i ritratti dell’ayatollah supremo, si limiti a far girare filmati ironici sui social. Hai voglia che la gente non ne possa più degli aumenti del pane e degli alimentari, della prepotenza e del fanatismo dei miliziani, dei basiji e dei pasdaran che restano i soli beneficati, hanno avuto e si tengono stretti inquadramento, prebende, e orrendi appartamenti casermoni che ora deturpano la montagna che, innevata di questa stagione, dava un aspetto leggiadro persino ad un mostro grigio di cemento, traffico e cavalcavie come Teheran. A un certo punto era sembrato che il regime fosse pronto a concedere qualcosa. Avevano ventilato l’abolizione dell’obbligo del velo, lo scioglimento della “polizia morale”, una maggiore apertura alle istanze di libertà dei giovani. Cedere qualcosa, per non perdere tutto. Poi la scelta è caduta sulle impiccagioni. Anche in Cina il potere si trova dinanzi a un dilemma insolubile. La gestione del Covid è stata sin dall’inizio disastrosa. Prima avevano cercato di nasconderlo sotto il tappeto, avevano lasciato che i cinesi festeggiassero il capodanno lunare del 2020 spostandosi in massa. Come da tradizione, da un angolo all’altro del paese, andando a contagiare l’universa Cina. Poi hanno strafatto in direzione opposta, nel chiudere i buoi quando erano già scappati. “Governare un vasto paese è come cuocere dei pesciolini”, dice l’antico libro del Tao. Se il cuoco è cattivo, resteranno crudi, o saranno stracotti. Ebbene, il potere cinese è abituato a stracuocere, strafare. Anche quando lo fa a fin di bene. L’avevano fatto con la politica del figlio unico, ora si sono accorti che rischiano una crisi demografica in direzione opposta, che la popolazione cinese nei decenni a venire diminuisca e invecchi come è successo disastrosamente in Giappone e in Europa. Hai voglia venire ora a dirgli, ai cinesi, che di figli ne possono fare tre, o anche di più se gli pare. Nessuno è mai riuscito a far fare figli a bastonate. Quando il pesciolino è stracotto non c’è verso di rimediare. Avevano imposto con estremo rigore la politica del “zero Covid”. Ma erano rimasti indietro nelle vaccinazioni. Anche perché il loro vaccino non funzionava, e non hanno voluto o non sono riusciti a farsi dare la formula dei vaccini occidentali, che invece funzionavano. Aggiungi il fatto che la gente non si fidava del vaccino nazionale, e la frittata è bell’e fatta. Puoi convincere la gente a fare qualcosa a bastonate. Più difficile è convincerla a credere ciecamente in quel che un governo che ha sempre mentito. Quindi: o saltare quella finestra o mangiare quella minestra, o perseverare in una politica di chiusura estremamente impopolare, oppure aprire e rassegnarsi a qualche milione di morti in più, soprattutto tra deboli e anziani. La via di mezzo è ancora peggio: a quanto pare ogni regione (ciascuna delle dimensioni di uno stato europeo) fa ormai di testa propria, alcune aprono, altre chiudono anche di più. La ricetta sicura per il disastro. Talvolta sembra che basti un soffio a far cadere un regime marcio. Spesso è l’inizio di un cedimento da parte del regime, una piccola crepa quasi invisibile nella diga di cemento, una concessione anche minima alla protesta a renderla inarrestabile, a trasformarla in valanga. E questo purtroppo lo sanno bene anche i dittatori. Nel 1989 il muro di Berlino era crollato nel giro di una notte, il più attrezzato servizio di vigilanza e repressione al mondo, la famigerata Stasi, si era rivelato del tutto impotente dopo che il governo aveva annunciato l’apertura delle frontiere, cioè che da quel momento in poi i cittadini della Ddr, la durissima Germania dell’est, avrebbero potuto recarsi dove gli pareva. Succede sempre così. Se gli dai un dito di democrazia, ti prendono il braccio. Da qui il terrore, da parte del potere assoluto, dei piccoli gesti, anche delle ironie innocenti. In Cina nel 1989 era bastato che il ritratto di Mao appeso sulla porta Tiananmen venisse bersagliato da lanci di uova perché un leader allora considerato riformatore decidesse di sgombrare la piazza con i carri armati. Deng Xiaoping aveva le idee chiare: aveva affossato la dittatura di Mao, aveva detto ai cinesi: arricchitevi! Caldeggiava l’apertura economica che avrebbe fatto della Cina una potenza assoluta nei decenni successivi. Favoriva le riforme, tranne una: la riforma della politica, una democrazia pluralista. Per lui era inaccettabile rinunciare al potere assoluto del partito unico. Aveva incoraggiato e gestito un cambio di imperatore. Non poteva accettare un cambio di dinastia. Quel che stava succedendo in Unione sovietica sembrava dargli ragione. La Cina usciva da un decennio di caos tragico, in cui a comandare sembrava fosse la piazza. Dico sembrava perché durante tutta la rivoluzione culturale in realtà la piazza era manovrata dall’alto, era lo strumento di lotte di potere al vertice. Nessuno voleva che tornassero la violenza e il caos delle guardie rosse. E’ un argomento ricorrente, anche nella crisi attuale. In Iran, dieci anni prima, lo Scià aveva ordinato di sparare sulla folla. Non si sa quante persone abbiano ammazzato in piazza Jaleh nel settembre 1978. Io non ero stato ancora inviato in Iran. Ma qualche settimana dopo ho visto le nuove fosse a perdita d’occhio scavate nei nuovi campi del grande cimitero di Teheran. E circolavano – allora con qualche compiacimento, che avrebbe dovuto insospettirmi – migliaia di foto polaroid con cadaveri e arti amputati accatastati nei corridoi degli ospedali. Qualche collega mi ha raccontato che nemmeno i giornalisti s’erano accorti della strage. Non c’erano i telefonini. Poteva succedere che un regime ammazzasse migliaia di persone a un estremo della città, e i giornalisti che stavano all’estremo opposto non se ne accorgessero. Recentemente mi è capitato di sfogliare le vignette di Ardeshir Mohasses, il più grande disegnatore satirico iraniano, conservate e pubblicate dalla Library of Congress di Washington. Sono raffinati disegni a penna, dedicati agli spasmi finali del regime dello Scià. In copertina c’è un aereo in volo radente, con soldati in elmetto, una mitragliatrice ancora fumante. A terra un gruppo di fedeli proni in preghiera, tutti però bucherellati da fori di proiettili da cui sprizza sangue. Si dice che in piazza Jaleh sparassero sulla folla dagli elicotteri. Altri disegni raffigurano una folla di uomini in turbante, barba e abito da religiosi, e una folla di donne in chador, gli uni e le altre anche loro crivellate di proiettili. Ricorda come possono cambiare vorticosamente, trasformarsi addirittura nel loro contrario i simboli, i meme della protesta. Quattro decenni fa sparavano ai mullah e alle donne che non volevano rinunciare al chador. Ora gli ayatollah fanno sparare sulle donne che il chador se lo vogliono togliere.

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