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Il Foglio Rassegna Stampa
27.08.2022 Donne che vengono dall’islam, sfidano l’odio per difendere la libertà
Commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 27 agosto 2022
Pagina: 8
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Donne nel mirino»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/08/2022, a pag. 8, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo "Donne nel mirino".

Informazione Corretta
Giulio Meotti

Afghanistan, giornaliste dovranno indossare il velo. No donne nelle fiction

Quando Theo van Gogh venne assassinato da un islamista in una strada di Amsterdam, Ayaan Hirsi Ali non poté partecipare al funerale: avrebbe messo a rischio la vita degli altri. Così i servizi segreti olandesi acconsentirono a portarla all’obitorio. Il giorno dopo, le guardie del corpo la accompagnarono a casa e le diedero tre ore per fare i bagagli. Da lì si recò alla base aerea di Valkenburg, vicino l’Aia, dove la aspettava un aereo da ricognizione. Gli oblò erano stati chiusi. L’aereo era pieno di soldati. Hirsi Ali stava lasciando un paese in guerra. Atterrarono in una base militare nel Maine, Stati Uniti. Da lì andò in auto nel Massachusetts. Per alcune settimane si fermò in un motel. In quel posto anonimo nessuno avrebbe potuto riconoscerla. Fu così che iniziò la storia d’amore fra l’America e la prima rifugiata dall’Europa occidentale dai tempi dell’Olocausto. Ayaan Hirsi Ali non è più tornata a vivere in Europa, dove ci sono decine come lei che vivono protette dalla polizia per aver criticato l’islam. Non si perdono nelle fumisterie sul gender, la decolonizzazione e il “privilegio bianco”. Non si arruolano nel partito multiculturale. Non accettano i ricatti dell’industria dell’“islamofobia”. Spesso non sappiamo neanche che esistono perché la stampa conformista non le racconta. Le loro precauzioni per proteggersi non sono mai troppe, visto che Salman Rushdie aveva smesso di essere protetto da dieci anni. Hina Saleem venne sgozzata e sepolta nell’orto di casa, a Brescia.

Con la testa rivolta verso la Mecca e il corpo avvolto in un sudario. Aveva rifiutato un matrimonio forzato voluto dal padre. A Pordenone, Sanaa Dafani fu accoltellata a morte dal padre in un bosco, mentre era in compagnia del fidanzato, un italiano. In Europa ci sono decine di donne, scrittrici e attiviste, venute dalla mezzaluna come Hina e Sanaa e che gli islamisti vorrebbero far fare loro la stessa fine. La fine che per poco non faceva Salman Rushdie. “Fin dalla mia infanzia, ho avuto paura di loro” scrive sul Point questa settimana Leila Slimani, Premio Goncourt e una delle massime scrittrici francesi. Aveva quindici anni e “loro” imperversavano nella vicina Algeria. Al tempo della guerra civile algerina, alcuni membri della sua famiglia si rifugiarono in Marocco. Sono fuggiti, lasciandosi tutto alle spalle: il lavoro, gli amici, i sogni. “Ci hanno parlato di falsi posti di blocco, tagli alla gola, intimidazioni. Avevo quindici anni e tremavo di paura. Nella mia famiglia non li abbiamo sottovalutati. Sapevamo che i più istruiti tra loro erano pronti a tutto per difendere la loro visione del mondo. I miei genitori mi imploravano di essere prudente; io, che non sapevo chiudere la bocca e che giocavo a fare l’adolescente ribelle”. Aveva quindici anni, Leila, viveva a Rabat e ha imparato a tacere e ad accettare. Ha iniziato ad arrotolare le bottiglie di vino vuote in sacchi neri e guidare lontano da casa per gettarle nella pattumiera. “Ho accettato di dover ascoltare in silenzio il discorso furioso di un professore di religione che affermava che ebrei e cristiani non potevano mai andare in paradiso. Domani, sul palco, penserò a Salman Rushdie e avrò paura di essere attaccata anch’io? Oggi molti scrittori musulmani hanno paura e si autocensurano. Scrivi, scrivi, scrivi. Non metterti in ginocchio”. Kadra Yusuf, una giornalista somala, si è infiltrata nelle moschee di Oslo per denunciare gli imam radicali e vive sotto protezione. La giornalista ex Charlie Hebdo, Zineb El Rhazoui, ha più guardie del corpo di molti ministri di Macron. L’avvocato di origine turca Syran Ates è guardata a vista da sei agenti della polizia a Berlino. “Riceve migliaia di minacce”, ha rivelato l’avvocato. Tre giorni dopo aver fondato la sua moschea liberale Ibn Rushd Goethe, a Berlino, Seyran Ates è stata avvicinata da tre uomini per strada, che le hanno detto che aveva aperto una “moschea per pervertiti”. Uno degli uomini le ha urlato: “Morirai”. Uomini e donne pregano insieme nella moschea fondata da Ates, è aperta a sciiti, sunniti e aleviti, così come ai rappresentanti di altre religioni. Ates non è nuova alle minacce. Chiuse il suo studio legale a Kreuzberg, il “quartiere turco” di Berlino, sospendendo la collaborazione con i due consultori che offrivano assistenza alle donne musulmane dopo che, fuori dal metrò, venne aggredita dal marito di una cliente che voleva divorziare. Le gridò “hure!”, puttana. Seyran Ates si è beccata anche una pallottola alla gola (i segni di quell’attentato se li porta ancora dietro). I lupi grigi volevano mettere a tacere questa splendida dissidente islamica nata a Istanbul e cresciuta a Berlino. Vive in Belgio Mimount Bousakla, politica liberale di Anversa, di origine marocchina, che ha dovuto abbandonare casa e amicizie e rifugiarsi in un domicilio segreto, sotto la protezione della polizia. Come lei Nyamko Sabuni, musulmana svedese, colpevole di voler mettere al bando l’infibulazione genitale femminile e i matrimoni forzati, due piaghe del multiculturalismo. E’ finita sotto scorta la politica socialdemocratica Ekin Deligöz, dopo aver lanciato questo appello: “Alle donne musulmane come me dico che nascondere il proprio volto è un segno di inferiorità e di sudditanza: mostrarlo è invece una conquista e un segno di sicurezza delle proprie idee”. Come Fatma Bläser, l’autrice del romanzo “Hennamond”, vittima di un matrimonio forzato e che gira le scuole con la polizia per sensibilizzare i giovani. “Chiedo sempre protezione alla polizia quando faccio letture in quartieri con un’elevata popolazione di immigrati”, racconta allo Spiegel. Tuttavia, aggiunge, riceve costantemente minacce. Un giovane le ha urlato per strada: “Mi prenderò cura di te – stai aizzando le nostre sorelle contro di noi”. Altri l’hanno minacciata di picchiarla o l’hanno inseguita con l’auto finché non ha trovato riparo in una stazione di polizia. Protezione della polizia per Zana Ramadani, autrice del libro “The veiled threat”. Non si muove senza scorta Mina Ahadi, che ha fondato il Consiglio degli ex musulmani, ovvero coloro che hanno abbandonato l’islam compiendo “apostasia”, un reato passibile di pena di morte. Dopo che Ahadi ha organizzato una protesta con altri ex musulmani davanti alla moschea centrale turca a Colonia il 15 ottobre 2021 e ha manifestato lì durante l’ora di preghiera musulmana contro le chiamate pubbliche del muezzin, Mina Ahadi ha ricevuto diversi messaggi personali da diversi profili su Instagram con la dicitura: “Ti ammazzo, abbiamo scoperto il tuo indirizzo”, oppure: “Verrà il tuo ultimo giorno! Puttana brucerai all’inferno!”. Così ha sporto denuncia. “All’inizio mi è stato detto che sarei dovuto venire alla stazione di polizia, ma pochi minuti dopo gli agenti hanno chiamato di nuovo e hanno detto: ‘Veniamo da te’”.

Da allora è sotto protezione. “Vorrei dire alla signora Henriette Reker (sindaco di Colonia): sì, la tolleranza è buona, ma è per questo che ora devo stare a casa. La tolleranza verso l’islam politico significa che dobbiamo avere paura”. La stessa condizione per Necla Kelek. O Fatma Keser del Comitato studentesco dell’Università di Francoforte, rea proprio di essersi smarcata dalle proteste contro la conferenza sul velo. “Cagna”, “puttana” e “razzista” sono gli insulti che le sono stati rivolti. “L’accusa di razzismo anti islamico immunizza l’islam e i suoi simboli” ha spiegato Keser, nata nel sud-est della Turchia, a Saniurfa, e che dall’età di tre anni vive a Düsseldorf, dove i genitori sono stati accolti in qualità di rifugiati curdi. Lydia Guirous è da tempo minacciata di morte per aver denunciato le infiltrazioni islamiste nelle banlieue delle città francesi. E’ stufa di sentire parlare dopo ogni attacco terroristico, problema forte di integrazione e radicalismo fanatico, che “tutto questo non ha niente a che fare con l’islam”. Secondo la Guirous, “spetta ai musulmani adattarsi e non alla società il contrario. Quel termine collabeur è peggio di put…a. Sei un traditore da punire e militare nella pubblica piazza, ogni persona di origine nordafricana che rifiuta il comunitarismo”. Claire Koç è l’autrice del libro “Claire, le prénom de la honte” (Albin Michel). Aveva un anno quando i suoi genitori sono immigrati in Francia, nel 1984, ed è cresciuta in Bretagna e a Strasburgo, nei tipici progetti di edilizia popolare per immigrati. Nel libro racconta che da bambina la mandarono a lezioni di turco, dove la mattina si univa ai compagni di classe nel cantare: “Che la mia esistenza sia un regalo alla Turchia”. Alla fine di febbraio, France Télévisions – il suo datore di lavoro – ha scoperto quel che si scriveva di lei sui social. “Questo è il vero volto di Cigdem Claire Koç. Se avessi le coordinate, non esiterei”. “Sporca puttana, prima o poi verrai abbattuta”. Un po’ come Lale Gül in Olanda. La madre: “Se non fossi mia figlia ti strangolerei”. Il suo romanzo autobiografico è stato elogiato dalla critica e l’autrice è apparsa in tv, articoli di giornale e riviste. Ma i membri della sua comunità minacciano di ucciderla e sua madre pensa che abbiano ragione. Non siamo in Iran o in Arabia Saudita, ma sul fiume Amstel, ad Amsterdam, la città della tolleranza e della libertà. Lale ha scritto “Ik ga leven” (Io vivrò). Racconta di una ragazza occidentale, libera e indipendente fuori, devota e sottomessa in casa, come Sanaa in Italia. Come la giornalista turco-olandese Ebru Umar, che aveva ereditato la rubrica dell’amico Theo van Gogh sul quotidiano Metro. Nella sua prima apparizione, Umar scrisse che l’“intimidazione invisibile della mafia della censura funziona bene: il 68 per cento degli olandesi non dice più pubblicamente cosa pensa. Nei Paesi Bassi non c’è più libertà d’espressione”.

E’ stata aggredita sotto casa. “Sono cresciuta in una famiglia di origine marocchina a Bruxelles, in un quartiere vicino a Molenbeek” racconta Fadila Maaroufi, assistente sociale belga-marocchina e fondatrice dell’Osservatorio dei fondamentalismi di Bruxelles. “Negli anni 80 era ancora cosmopolita. Poi, a poco a poco, abbiamo visto partire i nativi belgi. Ho assistito all’ascesa dell’islamismo, le mie sorelle si sono velate mentre i miei genitori indossavano pantaloni a zampa di elefante. Io stessa ho subito pressioni, anche dalla mia famiglia. Era diventato inconcepibile che non mi velassi. Ero un’assistente sociale e ho anche visto quanto fosse diventato difficile parlare, ad esempio, di violenza domestica quando si trattava di comunità musulmane. Questa ascesa dell’islamismo mi ha preoccupato molto. Ho visto i ragazzi cambiare sguardo e le donne coprirsi sempre di più. Successivamente, ho iniziato a studiare antropologia e ho scritto una tesi sull’indottrinamento delle donne a Bruxelles”. L’influenza dei Fratelli Musulmani in Belgio aveva iniziato a produrre un ambiente islamizzato. “Quando ho cercato di allertare le autorità pubbliche e le associazioni, mi sono trovata di fronte a un muro. C’erano stati gli attentati di Parigi e gli attentati di Bruxelles, eppure avevo la sensazione che ancora non cogliessimo la portata del problema”. Il Belgio ha completamente ignorato il fatto che ormai sono le donne senza velo ad essere sempre più sotto pressione, come il caso Saman Abbas in Italia. “Il velo è diventato un modello per la donna musulmana. Oggi una donna musulmana è una donna velata. Ricevo regolarmente minacce di morte. Di recente mi è stato inviato un video di esecuzione dell’Isis molto esplicito. E’ un modo per bandirmi, per farmi tacere completamente. Non ho più contatti con la mia famiglia. Mi hanno persino chiesto di cambiare nome e hanno indicato che non facevo più parte della comunità. Sono considerato un apostata. E’ un modo per condannarmi a morte, poiché per loro l’apostasia vale la morte”. E la morte stava per raggiungere una di loro anche a New York. Si tratta dell’iraniana Masih Alinejad, paladina della lotta contro il velo di stato in Iran, prima al centro di un complotto ordito da Teheran per sequestrarla, poi inserita in un programma di protezione dell’Fbi dopo che un uomo con un kalashnikov è stato arrestato sotto la sua casa, a Brooklyn. Guai a chiamarle “quote rosa”. Sono, più semplicemente, delle donne libere.

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