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Il Foglio Rassegna Stampa
17.09.2020 Pace a Washington: dopo il silenzio di ieri il Foglio si sveglia
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 17 settembre 2020
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Questo è un trattato vero»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/09/2020, a pag.1, con il titolo "Questo è un trattato vero", l'analisi di Daniele Raineri.

Ieri il Foglio era l'unico quotidiano a censurare la cerimonia di Washington (con l'eccezione dell'Andrea's Version), un avvenimento che imponeva il riconoscimento & successo della politica estera di Trump. Un silenzio che non poteva continuare anche oggi, quindi via libera a Raineri, che però ha dovuto -prima di entrare in merito- iniziare il pezzo con un elenco delle "sconfitte" di Trump per tranquillizzare la belva affamata. Che, infatti, ha chiuso un occhio.

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Daniele Raineri


L’Amministrazione Trump ha tentato di raggiungere quattro accordi di pace. Uno con il dittatore della Corea del nord, Kim Jong Un, ma la stretta di mano storica non ha portato a nulla e il programma atomico coreano è ancora li, pericoloso come all'inizio del mandato e forse di più. Un secondo accordo è con i talebani in Afghanistan e sembra molto più a portata di mano, ma più che un accordo di pace storico è un "noi ci ritiriamo, adesso vedetevela fra di voi". Le premesse non sono buone, dieci giorni fa una bomba è esplosa mentre passava il convoglio del vice presidente Amrullah Saleh, ex capo dell'intelligence, un duro della fazione anti talebani, e ha ucciso dieci persone. I talebani hanno negato ogni responsabilità, ma se anche fosse vero vuol dire che è stata una delle fazioni altrettanto violente che loro non controllano. Gli americani firmano e lasciano il paese, non è un accordo di pace. Il terzo tentativo riguarda l'Iran, il presidente americano Donald Trump aveva promesso un accordo sul nucleare con gli iraniani "molto meglio di quello fatto da Obama", che era "il peggior accordo della storia", ma non ci è riuscito, per quanto tenesse molto a essere protagonista di una scena che sarebbe senz'altro stata storica: la stretta di mano tra un presidente americano e un leader dell'Iran. Il quarto tentativo di pace riguardava paesi arabi e Israele e in questo caso il successo è stato pieno e innegabile, anche se le due parti si erano già avvicinate da tempo senza darlo troppo a vedere. Quando due giorni fa Trump ha firmato i cosiddetti Accordi di Abramo assieme ai ministri degli Esteri degli Emirati arabi uniti e del Bahrein e al primo ministro israeliano Benjamyn Netanyahu in molti hanno storto il naso, non sono accordi di pace come quelli fra Israele e l'Egitto prima e Israele e la Giordania poi, è una sceneggiata perché si tratta di paesi che non erano in guerra con Gerusalemme. E' vero che non c'era una guerra e che anzi c'era una cooperazione discreta, ma questi nuovi accordi sono molto più profondi e incredibilmente più impegnativi di quelli firmati da Israele in precedenza.

Al momento della firma sul prato della Casa Bianca il testo era ancora segreto, ma qualche ora dopo è stato distribuito e si è capito che ha l'ambizione di creare una visione totalmente nuova del medio oriente - e ci sono anche aspetti controversi, come vedremo più avanti. Orde Kittrie, un professore americano che ha lavorato per undici anni al dipartimento di Stato dove si occupava della parte legale nei negoziati nucleari, nota che il patto tra Israele e Giordania del 1994 era intitolato "Trattato di pace tra lo Stato di Israele e il Regno hashemita di Giordania" e questo è intitolato "Trattato di pace, relazioni diplomatiche e piena normalizzazione tra gli Emirati arabi uniti e lo stato di Israele". Respinge il grande tabù che ha dato forma al medio oriente per decenni, l'odio verso la normalizzazione con Israele, fin dal titolo (e in questi giorni tatbieh, normalizzazione, è diventata una delle parole più frequenti sui siti di notizie in arabo). Secondo l'accordo i due paesi accettano di promuovere la pace "forgiando relazioni più strette tra le persone" e "coltivando programmi interpersonali... e scambi culturali, accademici, giovanili, scientifici e di altro tipo tra i loro popoli". Inoltre "promuoveranno la cooperazione turistica tra loro come componente chiave... per lo sviluppo di legami culturali e interpersonali più stretti", inclusi "viaggi di studio reciproci" e l'utilizzo di "budget di marketing nazionali per promuovere il turismo reciproco". Siamo arrivati all'Erasmus tra israeliani e arabi e questo dovrebbe far capire cosa sta succedendo. Non sono più accordi pratici tra vicini che non si vogliono fare la guerra, c'è l'intento di provocare uno choc culturale senza ritorno nelle teste della regione, sia in Israele sia nei paesi arabi. C'è anche un aspetto interessante dal punto di vista militare. In un passaggio, Emirati arabi uniti e Israele concordano "di impedire qualsiasi attività terroristica o ostile l'uno contro l'altro sui o dai rispettivi territori, nonché negare qualsiasi supporto per tali attività all'estero o consentire tale supporto su o dai rispettivi territori". In questi anni abbiamo visto come l'Iran sia riuscito in pratica ad arrivare fin sul confine con Israele perché ha preso il controllo della Siria- il regime di Assad deve all'Iran la vittoria nella guerra civile. Oggi gli iraniani sono al confine del Golan, a pochi chilometri dalle prime case israeliane. Con la nuova intesa, Israele oggi ha a disposizione un alleato che - e qui serve guardare una mappa - è come un cuneo dentro al territorio dell'Iran. C'è soltanto l'acqua dello Stretto di mezzo. Viene da pensare che nel giro di qualche anno gli israeliani potrebbero avere una base in quella zona, detta adesso sembra una follia ma è chiaro che stiamo assistendo a una corsa senza precedenti. Alcuni dei problemi che riguardano una possibile operazione israeliana in Iran sono logistici, come la distanza e la necessità di fare rifornimento per gli aerei, e forse il territorio emiratino fornisce la soluzione. L'alleanza in chiave anti Iran è in fondo proprio il motivo principale di questo accordo. Tuttavia a leggere il Trattato si vede che non è un "turiamoci il naso e stiamo assieme contro la minaccia comune dell'Iran, poi si vedrà". C'è un cambio di paradigma. C'è una nuova strategia a lungo termine, spiegata con un nuovo linguaggio, dice Kittrie. Se fino a due giorni fa i paesi arabi non riconoscevano nemmeno l'esistenza dello stato di Israele, adesso c'è un primo Trattato che vuole "tracciare insieme un nuovo percorso per sbloccare il vasto potenziale dei loro paesi e del regione". E chiede di concludere il prima possibile accordi bilaterali in tutto un elenco lungo di settori che include finanza, investimenti, aviazione, innovazione, commercio, sanità, scienza, turismo, cultura, sport, energia e ambiente.

C'è persino un allegato che parla di esplorazione spaziale condivisa. Michael Stephens, un esperto del Golfo persico che lavora al think tank britannico Rusi, due giorni fa parlava di "strategic and emotional shift". La gente dei regni del Golfo - giovane in stragrande maggioranza - in questi anni ha visto la Primavera araba, ha fatto esperienze internazionali, ha cominciato a seguire temi nuovi, non ha più lo stesso interesse di prima alla divisione manichea tra stati arabi e Israele, ai regolamenti bizantini per evitare che merci israeliane finiscano nei paesi arabi e viceversa e a tutta la finzione dello stato di guerra permanente. I dati di Netflix dicono che "Fauda", la serie non agiografica su una squadra dei reparti speciali israeliani che lavora sotto copertura nei territori palestinesi, è stata prima per spettatori in Libano, terza negli Emirati, sesta in Giordania. Lior Raz, protagonista e creatore della serie, dice che negli Emirati ha bisogno di una guardia del corpo non per protezione ma per gestire "gli arabi di tutti i paesi che mi chiedono di fare un selfie assieme". Il Trattato è un disastro con i palestinesi, soprattutto se ci sarà come è probabile un effetto domino e altri paesi arabi aderiranno. Stabilisce la pace e la piena normalizzazione ma non pone alcuna condizione, funziona già così a tutti gli effetti. La causa palestinese è menzionata per dire che Emirati e Israele si impegnano a "continuare i loro sforzi per raggiungere una soluzione giusta, globale, realistica e duratura al conflitto israelo-palestinese", che è proprio il minimo che ci si potesse aspettare. Il professor Kittrie nota che l'accordo non menziona il ritiro di Israele dai territori oppure la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede il ritiro e fu inclusa nell'accordo Israele-Giordania e che in pratica è diventata una formula rituale quando si parla di relazioni tra arabi e Israele. E infatti ieri il sito del movimento Bds, che ha come obiettivo il boicottaggio di Israele e dei prodotti israeliani, diceva che l'accordo equivale a "vendere i palestinesi". Per paradosso, adesso il movimento Bds sarà più forte in alcuni paesi dell'Unione europea che in alcuni paesi arabi. Questo tipo di effetto domino che cambia il volto della regione è stato aiutato da una delle operazioni più criticate di tutto il mandato di Trump: l'uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani con un drone, avvenuta sulla strada dell'aeroporto di Baghdad, in Iraq, a gennaio. Molti analisti dipinsero quell'evento come la scintilla non necessaria che avrebbe fatto sprofondare l'intera regione e forse il mondo nella follia di una guerra (alcuni si spinsero a descrivere Suleimani come un normale diplomatico, come se fosse stato l'ambasciatore svizzero e non il comandante corsaro di tutte le operazioni di guerriglia finanziate dall'Iran in paesi terzi). Invece si trattò soltanto di un aggiustamento dei rapporti di forza tra gli Stati Uniti, che da molti anni segue una linea politica remissiva e non più aggressiva, e l'Iran che invece compie spesso attacchi al di sopra delle proprie possibilità (come quelli delle sue milizie alle basi americane in Iraq).

Trump, che aborre le guerre all'estero, si chiese perché mai l'America dovesse tollerare uno stillicidio di aggressioni contro i suoi soldati quando ha la capacità di lanciare raid molto più pesanti. O forse lo convinsero i generali. Fatto sta che dimostrò di nuovo perché ha senso fare accordi con gli americani. Con la morte di Suleimani acquistò in via definitiva il favore e l'attenzione dei regni arabi del Golfo, che dell'Iran sono nemici. L'effetto domino è aiutato anche da un'altra decisione di Trump, ancora più controversa dell'assassinio di Qassem Suleimani. L'Amministrazione americana si è schierata a difesa del principe ereditario Mohammed bin Salman anche quando è stato chiaro che era responsabile per l'uccisione di Jamal Khashoggi, un saudita che scriveva sul Washington Post e che fu attirato, ucciso e fatto a pezzi con un seghetto dentro il consolato saudita di Istanbul. Persino i senatori repubblicani, che di solito sono molto obbedienti a Trump, uscirono sconvolti da un briefing a porte chiuse organizzato dalla Cia per parlare della responsabilità del principe saudita. Ma Trump, con la stessa noncuranza strategica che poi dimostrerà davanti al Covid-19, decise di ignorare la faccenda. "Gli ho salvato il culo", dice ai suoi, riferendosi al principe Bin Salman - secondo il libro appena uscito di Bob Woodward. L'accordo tra paesi arabi e Israele porta verso un nuovo medio oriente, ma è anche frutto di patti e intese tra interlocutori cinici. Prendiamo per esempio la Libia, dove gli Emirati arabi uniti hanno armato e finanziato il generale Haftar per spazzare via il governo di Tripoli, che è alleato dell'Italia. Per più di un anno l'Amministrazione Trump non ha detto quasi nulla sulla guerra civile in corso e ora si capisce che è possibile non volesse disturbare gli Emirati, perché voleva da loro un accordo storico con Israele. Torniamo al principe saudita Bin Salman, che per un poco è stato il paria del mondo. E' molto ragionevole pensare che tutta questa catena di accordi diplomatici con Israele partita con gli Emirati e il Bahrein e che andrà avanti mediata dall'America - i prossimi saranno probabilmente Oman e Sudan - sia partita soltanto grazie all'assenso dell'Arabia Saudita, che di questa catena sa di essere il pezzo principale e più importante e che quindi si tiene per ultima.

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