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Il Foglio Rassegna Stampa
22.08.2020 Antonia Arslan e la memoria del popolo armeno
La intervista Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 22 agosto 2020
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «La masseria della memoria»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 22/08/2020 a pag.III, con il titolo "La masseria della memoria”, l'intervista di Giulio Meotti a Antonia Arslan.

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Giulio Meotti

Antonia Arslan | Rivista Inchiostro
Antonia Arslan

Negli ultimi anni della guerra, il Collegio Armeno di Venezia rimase chiuso, e mio nonno ospitò nella villa del Dolo, sulla Riviera del Brenta, quattro ragazzi armeni, i fratelli Arshavir e Hrayr Terzian con la sorella Shaké e la sua amica, la bellissima mulatta Maria Hussissian". Il ricordo di Antonia Arslan va a quei giorni. "Stavano in un appartamentino al primo piano della villa, in due graziose stanzette piene di cianfrusaglie, resti di una zia morta da poco, cugina di nonna Antonietta, che passava i suoi giorni su una poltroncina foderata di tela a fiori sbiadita, raccontando a tutti il grande momento della sua vita, una liaison veneziana con D'Annunzio durata purtroppo soltanto tre giorni. Fu allora che per la prima volta alla mia mente infantile si chiari l'esistenza degli armeni: esseri familiari che giravano per casa con aria benevola, eppure rimanevano estranei, stranieri, come la zia Henriette che viveva con noi e col nonno. Erano come noi eppure misteriosamente diversi, parlavano in un modo curioso, diverso da mamma e papà, con le parole che uscivano bislacche e un accento strano, morbido come una caramella. Nel parco della villa atterrò poi un giorno un paracadutista inglese che s'intese subito con noi bambini, ma che una sera venne prelevato da altri armeni, due padri mechitaristi dell'isola di san Lazzaro che lo portarono in salvo a Venezia. Avevano bellissime barbe nerissime e un'aria da cospiratori che mi piacque molto. I ragazzi Terzian mi mostrarono poi i famosi passaporti Nansen, così esotici, con le strane scritte che non riuscivo a decifrare anche se sapevo già leggere; e raccontavano storie affascinanti dell'Etiopia e di Addis Abeba, dove il loro padre lavorava alla corte del Negus. Da allora e per molti anni `armeno' significava per me zii e cugini di Siria e del Libano, parlare francese, avere in casa ogni tanto gente strana, "In occidente, sembra scomparso il fascino della propria tradizione millenaria, che invece hanno i maomettani, i buddisti o gli indù" "Nessuno ha più voglia di affrontare le terribili domande sulla vitae sulla morte che ognuno prima o poi ha bisogno di sentirsi porre" interessante, fonte di racconti orientali e di storie angoscianti che mi incuriosivano terribilmente". Ma della tragedia del genocidio armeno, Arslan si interessò soltanto molto tempo dopo aver conosciuto la storia degli amici ebrei vicini di casa. "E fu quando lessi `I 40 giorni del Mussa Dagh' di Franz Werfel, e iniziai a capire che anche quella era la mia gente, e che di quella gente e del suo destino non si parlava affatto. Poi, a dodici anni, lessi `1984', un libro disperato e profetico che mi vaccinò per sempre contro il totalitarismo e le neolingue di qualsiasi genere". L'autrice della celebre "Masseria delle allodole", Premio Stresa, da cui fu tratto un fortunato film dei fratelli Taviani, a novembre porterà un po' di questa sua Armenia a Bassano del Grappa, dove sarà insignita del Premio Internazionale Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica, lo stesso riconoscimento andato ad Augusto Del Noce, Joseph Ratzinger, Luigi Giussani, Hanna Barbara Gerl-Falkovitz e Rémi Brague, fra gli altri. Francesca Meneghetti, presidente del premio, ha detto: "Il premio assegnato quest'anno valorizza una scrittrice di fama internazionale, che ha narrato la storia di uno dei più antichi popoli cristiani. Antonia Arslan ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza della storia armena in Italia, ed è tutt'ora un riferimento di spicco del mondo culturale: in molte occasioni ha dato una coraggiosa testimonianza di fede, senza cedere al politicamente corretto. Le sue opere, pur descrivendo il dramma del genocidio armeno e le sue terribili conseguenze, non hanno mai smesso di lanciare messaggi di speranza e di cercare la bellezza, in tutte le sue forme". Il buco nero della memoria armena, come lo definisce Arslan parlando al Foglio, risale a nonno Yerwant Arslanian, arrivato in Italia nel 1880 e che a Kharpert perse quattro fratelli, trucidati dai turchi.

"E gli armeni non mi si presentavano mai da soli, ma sempre insieme ad altri popoli perseguitati. Mi pareva spesso di sentire l'eco del dolente grido e della disperazione di folle immense che venivano trascinate verso l'annientamento, preda di apparati statali ciecamente ottusi o intrinsecamente malvagi, per i quali l'essere umano come individuo non valeva niente e non contava niente. Mi appassionai al destino dei popoli `scientificamente' oppressi del Novecento, dagli ebrei ai polacchi, dai russi nei gulag alla morte per fame degli ucraini; leggevo soprattutto libri di testimonianze, tutto quello che trovavo. E un po' alla volta mi si fece chiaro come proprio sugli armeni il silenzio era praticamente totale, e come questo era dovuto al negazionismo attivo del governo turco, sempre presente per intervenire e negare dovunque si parlasse delle stragi del 1915 osi osasse definire il destino degli armeni col suo `giusto' nome di genocidio. Solo pochi ostinati della terza generazione, i nipoti dei sopravvissuti, continuavano a combattere, all'Onu, a Bruxelles, presso molti governi, per il riconoscimento di ciò che era realmente avvenuto, ottenendo qualche sporadico - ma importantissimo - successo. Nel frattempo si cominciò a far circolare l'idea dell'ingresso della Turchia nella Ue, non solo come partner economico ma come membro a pieno titolo. Mi venne un'ira angosciosa e profonda, la sensazione di poter essere abbandonata dal mio paese italiano, di un'inaspettata precarietà: cosa poteva succedere se quella nazione potente e numerosa (sarebbe stata, insieme alla Germania - sua antica alleata - la più popolosa d'Europa)avesse comandato nell'Unione? Non avevo dubbi che fosse forte, molto ben armata, determinata, e senza nessun rimorso per gli avvenimenti del 1915-22. Poteva l'Europa unita accettare come membro proprio la Turchia, senza un atto ufficiale di scuse? Poteva davvero farlo una comunità di paesi la cui civiltà si era evoluta per millenni a partire da una comune origine culturale e sociale giudaico-cristiana? Ricordo che in quei giorni tirai fuori da un cassetto la spilletta `Vogliamo l'Europa unita', che tutto il mio gruppo di amici aveva portato con orgoglio a vent'anni, e ci piansi sopra. La nascita, la lingua, l'educazione, la scuola, il mestiere di professore, tutto in me era italiano; ma in quel momento sentii riemergere la flebile appartenenza armena, come un dovere di sangue, un ineludibile imperativo morale: toccava anche a me far capire alla `mia' Europa l'enorme importanza di conoscere e far memoria del genocidio degli armeni - la prima nazione ad aver scelto e accolto la fede cristiana nel 301- sia come evento in sé che nel suo tragico collegamento con quello degli ebrei. Questo allora io lo percepivo come profondamente vero, ma oggi è ampiamente dimostrato". Un premio di cultura cattolica, dicevamo. "Non saprei definirla esattamente, la cultura cattolica" ci dice Arslan. "Un muraglione un po' sbrecciato, composto di tanti mattoni diversi, dalle innumerevoli sfaccettature. Nel cattolicesimo c'è di tutto, dal rito latino a quello ambrosiano ai 23 riti orientali, uno dei quali è quello armeno, a cui apparteneva la mia famiglia. Mio nonno arrivò in Italia nel 1878 per studiare al Collegio Armeno Moorat-Raphael di Venezia, che apparteneva ai padri mechitaristi, un ordine monastico cattolico la cui sede è tuttora nell'isola veneziana di san Lazzaro. Sono cresciuta con una doppia tradizione: quella orientale, austera e magnifica, con le sue messe all'isola, solo la domenica mattina e sempre alla stessa ora, i canti forti dal ritmo stupendo che arrivavano dalle voci profonde dei monaci, i paramenti aurei, l'odore d'incenso, e la carità diretta, autentica, affettuosa; e quella occidentale che vivevo nel quotidiano della mia città, che pert) allora era anch'essa ricca di tradizioni e consuetudini rispettate e molto sentite. Un solo ricordo, di cui ho ritrovato per caso una foto giorni fa: papà, mamma e noi cinque bambini, tutti infagottati in ampi grembiuli di rigatino grigio, a servire il pranzo il 19 marzo, festa di san Giuseppe, ai ricoverati della casa di riposo di cui mio padre era il medico ufficiale. Poi è cambiato tutto, e non per il meglio: dal povero linguaggio della messa in italiano, con certe frasi perfino sgangherate, fino alle canzonette misere, senza ritmo e poco orecchiabili, penso spesso che si è buttato il bambino con l'acqua del bagno, in un'ansia di nuovo che ormai - dopo diversi decenni - suona irrimediabilmente datato. E che appare senza presa, arrancante dietro il mondo moderno che si sforza di imitare. Ma siccome l'abito purtroppo fa il monaco, anche la carità ha cambiato nome, ed è diventata un fenomeno industriale... In occidente, sembra scomparso il fascino di una tradizione millenaria, che invece ho sempre immaginato dovrebbe essere analogo a quello che provano i maomettani, i buddisti o gli indù per le loro, di tradizioni. Non ho mai capito perché solo la cultura cattolica debba oggi essere disprezzata o calpestata dalle stesse persone che si innamorano dell'India, delle abluzioni nel Gange o dei riti shintoisti giapponesi. Dal tronco del cristianesimo sono sorte - anche per contrasto o negazione - le novità artistiche, le idee, le filosofie, i movimenti del pensiero e dell'azione sociale che hanno definito la nostra cultura. Ma le superficiali mode della divulgazione culturale contemporanea - e la ripetizione ossessiva di una serie di luoghi comuni che è molto più facile ed economico seguire che contrastare - hanno fatto attecchire nelle menti di molti un cospicuo numero di pregiudizi intellettuali che si ripetono stancamente di continuo e sono il substrato malizioso e maligno dell'odierno `sentire comune'. Ne cito solo alcuni: l'immagine negativa e contratta nel tempo dei secoli del Medioevo; la chiesa giudicata e liquidata nel suo insieme come il retrogrado bastione di ogni arretratezza; la condizione femminile; e infine, oggi, i cristiani diventati viventi bersagli di morte in molte parti del mondo, di cui non si occupa nessuno di coloro che si mettono in moto per le `buone cause'. Questo non-modo di ragionare mi ha sempre fatto infuriare. Nella cultura contemporanea invece a me appare sempre più evidente che il `deragliamento di tutti i sensi' che il coltissimo Rimbaud chiedeva per sé è stato preso sul serio da una folla di seguaci sfegatati ma ignoranti di se stessi e delle ferree leggi che sotto di noi e spesso a nostra insaputa tengono insieme l'universo. E che Rimbaud conosceva benissimo - e rispettava - tanto che chiudeva le sue concrete parole e immagini di poesia in versi perfetti con dolci rime, rendendole perciò- e soltanto così-immortali. Infatti, decise di smettere di scriverli a vent'anni, quando avverti che l'equilibrio fra pensiero e parola dentro di lui si era spezzato - non sarebbe stato più autentico. Vorrei dire, in sostanza, che la cultura di oggi sembra basarsi su una profonda ipocrisia e albagia nella sopravvalutazione di sé: il re è sempre più nudo, ma i cortigiani lo dichiarano sempre più meravigliosamente vestito, e una sana traccia di umiltà non è proprio più di moda. Ogni scribacchino si sente un erede di Dante, ogni biologo monta in cattedra e somministra lezioni, e soprattutto tutti sono permalosissimi e tutti insieme si autocensurano per non offendersi tra permalosi. L'effetto è una cage aux folles di voci discordanti, di cui nessuna assume reale rilevanza". Dell'occidente, Arslan è ancora innamorata. "Resta molto di più di quanto ci faccia vedere o percepire la superficie delle cose. Viviamo in paesi ancora democratici, votiamo regolarmente, abbiamo scuole, musei, università, libero commercio, ma siamo invitati ad essere profondamente scontenti. Le notizie, come è normale che sia, ci informano ogni giorno delle anomalie, dei fatti della politica, degli eventi imprevisti, delle calamità, di ciò che fanno personaggi famosi, e per ogni situazione ci sono giornalisti che chiosano, commentano, indirizzano il lettore secondo precise agende politiche. Ma anche, freneticamente, secondo quella che chiamerei `l'ineludibile agenda del nuovo', cioè il pregiudizio sottinteso che nuovo è sempre bello: e quindi ogni novità che viene affermata e proclamata, in ogni campo, per strampalata e orribile che sia, è da divulgare con penna benevola e tutto sommato senza molti controlli di veridicità. E tuttavia, questa io la chiamerei la schiuma pannosa della vita, appariscente e vistosa, che monta in fretta e scompare altrettanto in fretta. Ma che sappiamo di tutto quello che è il tessuto della realtà del quotidiano in cui siamo immersi, del sorriso o del broncio dell'edicolante in fondo alla strada, della ragazza in bicicletta che va al lavoro inebriata dei suoi capelli al vento e della sua gonna leggera, dell'appassionato direttore della rivistina di paese, fatta benissimo da un pugno di volontari, del fotografo che si apposta per mesi per riprendere la vita delle libellule nell'ignoto paese sull'Appennino? Io non so dire di Francia o Spagna, anche se penso che anche là ci sia una forte vita sotterranea, di cui sappiamo ben poco. Ma conosco l'Italia. E credo che la lunga Italia della vita di provincia abbia ancora in sé potenti anticorpi, conservi le vive radici dell'antica capacità di intrecciare le parvenze del bello fino a costruire le pendici verdeggianti di vigneti e di coltivi che riposano l'occhio in tante sue parti, o mobili fatti come Dio comanda. Nuove vigne fioriscono per la gioia degli amanti del vino italico; ragazzi pieni di speranze non vanno in piazza ma si inventano nuovi mestieri, e la fede serpeggia per vie inusitate, scavandosi sentieri inesplorati nei cuori. Ho incontrato di recente gente di questo tipo, e non poca, che mi ha sorpreso e confortato e dato gioia; e questo, lo dico sommessamente, è per me motivo di profondo orgoglio". La letteratura non aiuta più. "Ho insegnato letteratura italiana moderna e contemporanea per molti anni all'Università di Padova (e prima a scuola) e poi, improvvisamente, mi sono trasformata in scrittrice di romanzi, racconti, eccetera: con qualche successo, se la mia nave ammiraglia, La masseria delle allodole, è arrivata alla 41esima edizione. Sono sempre stata convinta che la scrittura di saggi è profondamente diversa da quella di romanzi, nonostante le molte commistioni - anche felici - dei due generi nel corso del Novecento; e personalmente non credevo che sarei riuscita a `cambiare genere' di scrittura a un'età non proprio giovanile. Infatti non ho romanzi nel cassetto da tirare fuori, neanche un abbozzo o pagine sparse... Ma del fatto che ci sia una crisi in campo letterario davvero non dubito. Dove sono negli ultimi anni i grandi personaggi a cui leggendo ci si affeziona, che ti sorprendono, di cui vorresti sapere di più quando il libro è finito? Dove sono le storie che intrigano, divertono, commuovono, ma nello stesso tempo ti mettono una pulce nell'orecchio, ti costringono a misurarti con parti di te stesso che non conoscevi o che hai dimenticato, o con la calda vita nella sua reale essenza? Perché le protagoniste descritte da tante donne che scrivono sono così simili fra loro: tutte creature indipendenti, che sono o saranno artiste, che si prendono tremendamente sul serio, afflitte da uomini incapaci o piagnolosi, oppure violenti, da cui esse devono per forza scappare per 'realizzarsi'? A nessuna di loro piace più la gioia misteriosa che deriva dalla ripetizione dell'intimità dei gesti quotidiani, come il cibo condiviso con l'amato, scodella davanti a scodella, così superbamente descritto dall'ebrea tedesca Gertrud Kolmar in una poesia incantata, poco prima di finire in un campo di sterminio. E gli uomini che scrivono, perché sono tanto fragili e irresoluti? E nessuno sembra aver voglia di affrontare le terribili domande sull'esistenza umana, sulla vita e sulla morte che ognuno prima o poi ha bisogno di sentirsi porre. E allora, per restare nel Novecento italiano, ci sono Buzzati, e Lampedusa, e Fenoglio; e rileggere Orwell o Vassilij Grossman o i Durrell o Daphne Du Maurier fa sempre bene". Assieme al canto di comunione armeno, Der voghorrnia, Signore abbi misericordia. Risuona, incantando, nel monastero di Khor Virap, dove San Gregorio che convertì gli armeni nel 301 venne tenuto per tredici anni in un pozzo, da cui si vede il confine turco e l'Ararat, l'approdo dell'arca di Noé, e le cui pareti sono segnate da tante piccole croci incise dai sopravvissuti al Medz Yeghern, il Grande Crimine.

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