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Il Foglio Rassegna Stampa
25.05.2020 Francia: se il virus è un'occasione per gli islamisti
Analisi di Valeurs Actuelles, Figaro

Testata: Il Foglio
Data: 25 maggio 2020
Pagina: 3
Autore: la redazione del Foglio
Titolo: «Una Francia mascherata sì, una Francia velata no - Il paragone tra la mascherina e il velo fa il gioco del salafismo»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 25/05/2020 a pag.III, con il titolo "Una Francia mascherata sì, una Francia velata no il commento tratto da Valeurs Actuelles; con il titolo "Il paragone tra la mascherina e il velo fa il gioco del salafismo", l'articolo del Figaro.

Ecco gli articoli:

"Una Francia mascherata sì, una Francia velata no"

File:Flag of France with islam symbol.png - Wikimedia Commons

Questa crisi sanitaria, e in particolare l'orizzonte che si profila per il periodo di postconfinamento, arreca danno a un tratto essenziale dell'arte di vivere alla francese: il netto rifiuto che opponiamo alla dissimulazione del volto” scrive Bérénice Levet. “La Repubblica si vive a volto scoperto”, dice la legge del 2010, ma non è “la” Repubblica in generale che si vive a volto scoperto - esistono regimi repubblicani che non legiferano su questo punto - è proprio la Repubblica francese, “alla francese”. L'orizzonte che si delinea per i mesi a venire è un mondo in cui ognuno sarà, se non costretto, quantomeno fortemente incoraggiato a indossare una mascherina, ossia ad uscire con il volto coperto per tre quarti, dal quale emergeranno solo gli occhi, ultima sede dell'espressività. Non vogliamo qui contestare la legittimità di questa prescrizione, ma nemmeno sottometterci a cuor leggero. In nome dei nostri costumi, in nome di Emmanuel Levinas e di ciò che ci ha insegnato sulla portata etica del volto scoperto, “esposizione” che è un rischio, ma che fa di ognuno un essere responsabile, in nome, infine, della lotta contro l'islamizzazione della Francia. E quest'ultimo motivo non ha nulla di chimerico. Alcuni, quelli per cui i costumi, queste leggi non scritte, questa giurisprudenza della vita in società, non dicono nulla dell'anima di un paese, considerano perfettamente accettabile, e addirittura se lo augurano, una Francia in cui l'utilizzo della mascherina diventerà tanto “normale e banale quanto indossare un maglione in inverno quando fa freddo”, secondo le parole del giornalista economico della striscia mattutina di France Inter Dominique Seux. Ma banalizzare questa pratica, e abituarsi, è proprio ciò che dobbiamo temere. Se ciò accadesse ci troveremo totalmente disarmati dinanzi all'utilizzo del velo nelle scuole, del burqa nello spazio pubblico, del burkini sulle spiagge e nelle piscine municipali. Certo, la mascherina non ha un significato religioso, e deve essere portata indistintamente dalle donne e dagli uomini, ma chi avrà ancora lo scrupolo di sbrogliare la matassa e di distinguere tra volto mascherato per motivi sanitari e volto mascherato per motivi religiosi? I fatti sono già davanti ai nostri occhi: da quando siamo incitati a fabbricarci da soli le nostre maschere, spuntano nelle strade di Parigi delle donne coperte dalla testa ai piedi avendo trovato il pretesto per farlo (…). Il niqab è vietato? Poco importa: una specie di mascherina di color nero carbone così come il resto del loro abito è innestata sul loro hijab ed eccole che deambulano avvolte in lenzuola funebri accanto al loro marito senza mascherina e in totale legalità (…). C'è una nuova esortazione progressista all'adattamento della Francia dei nuovi costumi che le sono estranei, e persino contrari, e una nuova messa in stato d'accusa del ritardo francese: quest'ultimo, come ci spiega sul Monde un antropologo del Cnrs, Fédéric Keck, sarebbe meno imputabile alla “penuria di mezzi dovuta ai tagli budgetari nella preparazione alle pandemie” che alle reticenze francesi a convertirsi a una pratica associata all'islam: ‘Uscire a volto scoperto è diventato ancor più restrittivo, e persino più oppressivo (…) quando il foulard islamico è stato vietato (…) nelle scuole e nei luoghi pubblici'. Constatiamo che il nostro cosiddetto specialista non ha le idee chiare, perché confonde manifestamente la legge del 2004 con quella del 2010, dato che l'utilizzo del velo, a differenza del burqa, non è vietato nello spazio pubblico, ma solo negli uffici pubblici. Abbiamo capito che per il ricercatore uscire velato o mascherato è un atto di ribellione contro una civiltà - la nostra - tirannica! Questo antropologo non è isolato. Provate a emettere qualche riserva quanto all'introduzione nei costumi occidentali dell'utilizzo della mascherina e l'arma massiva di delegittimazione non tarda ad arrivare: siete colpevoli di islamofobia”.
(Traduzione di Mauro Zanon)

"Il paragone tra la mascherina e il velo fa il gioco del salafismo"

Informazione Corretta

La questione del velo integrale continua a essere un'inesauribile materia di incomprensione tra la Francia e gli Stati Uniti - scrive Sophie de Peyret. In un lungo articolo pubblicato il 10 maggio, il Washington Post ha espresso ironicamente la sua preoccupazione in merito al trattamento ricevuto dalle musulmane velate sul territorio francese, in un momento in cui a tutti viene imposta la mascherina. Da un lato, l'utilizzo del burqa o di qualsiasi altro indumento che dissimula il viso è un reato passibile di sanzioni penali nello spazio pubblico. Dall'altro, l'utilizzo della mascherina viene incoraggiato, e persino imposto in alcuni luoghi, come per esempio nei trasporti pubblici, al fine di lottare contro la propagazione del Covid-19. Il giornalista, con toni sarcastici, giungeva rapidamente alla conclusione di un'incoerenza tipicamente francese, mentre le personalità intervistate evocavano “una lettura asimmetrica”, “arbitraria”, se non addirittura “discriminatoria”, una “schizofrenia”… E via discorrendo. Tuttavia, questa analisi americana paragona le carote ai cavolfiori. Certo, carote e cavolfiori sono entrambi verdure, così come mascherine e burqa sono pezzi di stoffa che dissimulano il volto. Ci sarebbe allora la tentazione di paragonarli. Eppure tutto li distingue, non solo nella motivazione di chi li indossa, ma più ancora nella finalità dell'azione e nelle incidenze sulla società. Il paragone è un controsenso aggravato da un errore. Da una parte, il velo integrale che deriva da una decisione deliberata di interpretare, di praticare e di manifestare la propria religione, che riduce l'individuo alla sua appartenenza religiosa e che separa l'uomo dalla donna, la musulmana dalla non musulmana (o dalla cattiva musulmana) in un'accettazione rigorista dell'islam. Dall'altra, la maschera che viene imposta a tutti senza distinzione di sesso o di religione, e che non è lo specchio di alcuna ideologia se non quella di proteggersi da un male invisibile e planetario. Oltre a ciò, questo articolo stimola altri due commenti. Il primo riguarda la tesi difesa dall'autore e le persone intervistate nell'articolo - le quali non brillano certo per diversità di punti di vista. Questa tesi coincide pericolosamente con quella dei movimenti comunitaristi e dei promotori del jihad culturale che tentano di imporre una lettura salafita e di far passare il velo integrale per un indumento qualsiasi. Mettendo sullo stesso piano una mascherina sanitaria e un velo politico-religioso, facendo finta di non vederne la differenza, il Washington Post si allinea, con aria innocente, ai contenuti delle prediche radicali di personaggi come Hani Ramadan (direttore del Centre islamico di Ginevra), il quale, facendo leva sugli hadith, affermava lo scorso marzo che “une delle cause della malattia è lo sfacciato abbandono degli uomini alla turpitudine, come la fornicazione e l'adulterio”. Questa tesi alimenta i messaggi che fioriscono su alcuni forum e social network dove si può leggere che la pandemia che sta colpendo l'occidente è una punizione: tutti quelli che hanno penalizzato il burqa e fatto la promozione dei costumi dissoluti sono oggi costretti a coprirsi, a tenere le loro donne in casa, a chiudere i bistrot e a eliminare i contatti fisici dalle loro abitudini. Idriss Sihamedi, fondatore dell'associazione Barakacity, si è rallegrato pubblicamente pronunciando queste parole: è “la prima volta nella mia vita che posso dire a una donna che vuole stringermi la mano ‘no', con gioia e buonumore. E' una strana sensazione vedere che le cose halal diventano normali”. Il secondo commento ci porta verso la filosofia politica. Nella concezione francese, viene data una grande importanza alle nozioni di universalismo dei diritti, di preminenza dell'interesse generale e di non-riconoscimento di gruppi e di comunità. Al contrario, i paesi di ispirazioni anglosassone privilegiano un approccio multiculturale, secondo cui minoranze culturalmente eterogenee sono giustapposte su uno stesso territorio senza che venga loro domandato di abbandonare le rispettive particolarità. (…). Da questa divergenza essenziale nascono due concezioni completamente differenti. Nell'autunno del 2018, Emmanuel Macron ricordava che “non siamo 66 milioni di individui separati, ma una nazione che si regge su mille fili tesi”: l'addizione degli interessi particolari non costituisce l'interesse generale. Talvolta, bisogna passare per delle misure esigenti e vincolanti, accettare di rinunciare a certi particolarismi per appropriarsi di un progetto nazionale più grande di sé, per incorporarsi a un tutto che sta al di sopra dell'individuo. Ciò che il giornalista del Washington Post qualifica come contradditorio e incoerente, si rivela in definitiva molto logico. Non tutto si equivale. Invece di accordare una supremazia insuperabile alle libertà individuali e agli interessi particolari, la Francia, in nome dell'interesse generale, vieta un indumento che frattura la comunità nazionale. E' proprio in nome di questo interesse superiore che incoraggia l'utilizzo della mascherina. Sophie de Peyret è ricercatrice presso l'Institut Thomas More. E' autrice del rapporto “L'islam en France, le temps des solutions. 35 propositions pour agir maintenant”.

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