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Il Foglio Rassegna Stampa
08.10.2019 Siria del nord: i kurdi abbandonati da tutti adesso minacciati da Erdogan
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 08 ottobre 2019
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Trump pianta in asso i curdi siriani»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/10/2019, a pag.1-I, con il titolo "Trump pianta in asso i curdi siriani" l'analisi di Daniele Raineri.

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Daniele Raineri


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Il sultano Erdogan

Il presidente turco Erdogan ha un piano grandioso che gli risolverebbe molti problemi in un colpo solo. Vuole creare in territorio siriano una striscia profonda circa trenta chilometri e addossata al confine con la Turchia, che dovrebbe coprire tutti i circa cinquecento chilometri di confine. In pratica la striscia, che i turchi chiamano “corridoio della pace” e i diplomatici chiamano “buffer zone”, zona cuscinetto, si dovrebbe frapporre fra la Turchia e il Rojava, che è il nord della Siria controllato dai curdi. Beninteso, questo nuovo cuscinetto sarebbe creato tutto a spese del territorio curdo. Nel cosiddetto corridoio Erdogan vuole istituire dodici distretti che prenderebbero il posto dei cantoni curdi e nei distretti vuole riversare almeno un milione di profughi siriani, dei tre milioni circa che al momento sono in Turchia. Si tratta di un’opera di ingegneria etnica, creare una striscia larga trenta chilometri e popolata da arabi siriani che dovrebbe diventare un ostacolo fra i curdi che popolano il sud della Turchia e i curdi che popolano il nord della Siria. In questo modo si verrebbe a spezzare la continuità curda a cavallo della linea di confine. E’ una manovra che ricorda Saddam Hussein, che ordinava di spostare interi blocchi della popolazione irachena da una parte all’altra del paese per i suoi scopi politico-militari. Per esempio creò una fascia di sunniti a sud della capitale Baghdad perché temeva che il sud interamente sciita un giorno potesse marciare contro di lui. In quel modo, la fascia sunnita (come lo era Saddam) e quindi più fedele al regime avrebbe rallentato l’avanzata dei ribelli prima della capitale. Era una specialità anche di Joseph Stalin, che ridisegnò la mappa dell’Unione sovietica spostando da una parte all’altra circa sei milioni di persone che facevano parte di etnie oppure di classi sociali considerate pericolose e che lui neutralizzava spedendole nel mezzo di territori isolati. Questa ingegneria etnica è l’ambizione di Erdogan. Non pensa di poter ospitare a tempo indefinito i siriani in territorio turco, anche perché c’è già moltissima tensione tra rifugiati e popolazione locale e nei sondaggi il problema si fa sentire. Sa che per i profughi siriani in teoria si tratterebbe di un miglioramento, tornano dentro la Siria e sono fuori dalle zone in mano al controllo del regime, anche se magari a centinaia di chilometri di distanza dalle case che hanno abbandonato. Sa anche che l’Unione europea non si lamenterà moltissimo, perché c’è sempre il timore che i profughi siriani imbocchino di nuovo la strada verso l’Europa come fecero nel 2015 e 2016. Se Erdogan ne riversa molti in Siria si alleggerisce e allo stesso tempo crea un problema enorme ai curdi, che per lui sono nemici acerrimi. Ha già fatto questa operazione due anni fa nel cantone di Afrin, molto più a ovest, che era controllato dai curdi ma poi è stato occupato dall’esercito turco e da alcuni gruppi di ex ribelli siriani che ormai sono diventati miliziani filoturchi. Nei territori controllati da queste milizie è quasi come vivere in Turchia, il sistema postale è quello turco, il sistema scolastico è ispirato quello turco, inni e cerimonie delle milizie sono un omaggio ossequioso alle forze armate turche. Adesso lo vuole fare di nuovo, ma molto più in grande. Che si sarebbe arrivati a questo punto si sa da anni. Il presidente turco ne parla fin dal 2016, da quando per la prima volta i suoi soldati e i suoi carri armati entrarono in Siria – quella volta contro lo Stato islamico. Ha esposto questo suo progetto dal podio del Palazzo di vetro all’ultima Assemblea delle Nazioni Unite a settembre e reggeva in mano una mappa molto chiara con il tracciato del “corridoio della pace”. Il suo annuncio non è stato molto ripreso, ma in questi anni non ha cambiato posizione. Se ne parla molto adesso perché non è mai stato così vicino alla realizzazione concreta del suo progetto dopo che domenica sera ha ricevuto il via libera dall’Amministrazione Trump. Trump ha abbandonato i curdi, li ha traditi, li ha scaricati, ma non è del tutto corretto dire che questo finale è colpa sua. Se non l’avesse fatto lui prima o poi sarebbe toccato a qualche altro presidente americano, la situazione era intenibile, i curdi prima o poi avrebbero dovuto fare i conti con la Grande Contraddizione che li segna: sono stati indispensabili per sconfiggere lo Stato islamico territoriale, ma Turchia e Siria non avrebbero tollerato la nascita di un Kurdistan siriano. Gli Stati Uniti non litigheranno con stati che già esistono per conto di uno stato che non esiste ancora. E si sapeva fin dall’inizio, ma la catastrofe che è stata l’ascesa dello Stato islamico vuol dire anche questo, che i curdi hanno ricevuto la missione di combattere in nome del resto del mondo ma non potevano aspettarsi una pace finale con annesso riconoscimento. Se la comunità internazionale avesse reagito con più prontezza all’espansione dello Stato islamico forse non ci sarebbe stato bisogno di armare i curdi e di appoggiarli in battaglia. La caduta di Falluja in Iraq e di Raqqa in Siria nelle mani dei fanatici avvennero nel gennaio 2014, non ci fu alcuna reazione, cinque mesi dopo caddero Mosul e altre città nell’Iraq centrale, e anche allora ci fu molta inerzia. Si è temporeggiato finché affidarsi ai curdi non è diventata l’unica soluzione possibile e tardiva – fatta eccezione per un intervento di terra come in Iraq nel 2003 che nessuno voleva davvero. La campagna contro i fanatici è costata ai curdi siriani non meno di dodicimila morti ed è una stima per difetto alla quale vanno aggiunti i feriti, almeno il triplo. Detto questo, Trump ha scelto il peggiore dei modi e ha trattato con la stessa sagacia che lo spinge ad affidare ai talebani le operazioni antiterrorismo in Afghanistan oppure a ritirarsi dal patto atomico con l’Iran senza avere un piano alternativo oppure ancora a fare incontri spettacolari con il dittatore della Corea del nord senza ottenere alcun risultato. E così a dicembre 2018 ha annunciato il ritiro totale dei soldati americani dalla Siria entro un mese, dopo una telefonata diretta con Erdogan. Il suo segretario alla Difesa, Jim Mattis, si dimise in disaccordo, gli altri suoi generali abbozzarono e cominciarono manovre ritardanti che in parte funzionarono perché oggi c’è ancora un contingente di soldati americani in Siria al fianco dei curdi.

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Peshmerga kurdi siriani

L’impressione fu che Trump decidesse la politica estera americana a seconda dell’ultima persona che aveva ascoltato al telefono. Poi questa estate ha accettato il cosiddetto “meccanismo di sicurezza” per placare le ansie turche: in una zona del confine lunga cento chilometri i curdi avrebbero demolito le loro linee difensive e si sarebbero allontanati per lasciare la gestione della sicurezza a pattuglie miste di soldati turchi e americani. I curdi hanno obbedito, hanno smantellato con i bulldozer le loro postazioni e hanno abbandonato quel tratto di confine, perché erano stati persuasi dagli americani che il meccanismo di sicurezza avrebbe fermato il piano di Erdogan. E invece no, dopo che hanno smantellato le difese Trump ha deciso di girare loro le spalle e la Turchia ha annunciato l’inizio dell’intervento militare da un momento all’altro. Ieri il presidente americano ha scritto su Twitter: “Come ho già detto con forza in passato, e tanto per mettere bene in chiaro, se la Turchia farà qualcosa che io, nella mia grande e incomparabile saggezza, considero proibita, allora distruggerò totalmente e spazzerò via l’economia della Turchia (l’ho già fatto!)…”. Se ha così il controllo della situazione, avrebbe dovuto aspettare. E invece non l’ha fatto. A Trump conveniva tenere le truppe americane assieme ai curdi in Siria perché c’è ancora da finire il lavoro contro lo Stato islamico. Forse ci vorrebbero altri dieci anni per fare le cose come si deve, di sicuro ogni giorno in più di campagna di disinfestazione contro i terroristi è un giorno guadagnato per il mondo intero. La Siria orientale e il deserto centrale nascondono squadroni di fanatici che sono in via di riorganizzazione e che stanno già compiendo raid e attacchi. Secondo i dati che il comando curdo aveva passato al Foglio a luglio, il numero di operazioni dello Stato islamico nel settore più a est era raddoppiato nel giro di un mese: trenta attacchi – un numero record. Negli altri settori c’era stata una lieve diminuzione, ma troppo poco importante per dire che lo Stato islamico non è più una minaccia: il rapporto parla di assalti contro i checkpoint, di attentati suicidi e di trappole esplosive. E poi c’è il problema dei fanatici nei campi di detenzione, che non vedono l’ora di tornare in libertà e di ricominciare. Almeno un paio di questi campi, Roj e Dekir, con molti combattenti stranieri, sono dentro la zona-cuscinetto dove potrebbe scoppiare un conflitto tra turchi e curdi. Il più affollato, quello di Al Hol con circa settantamila persone in maggioranza donne e bambini, in teoria rimane fuori perché è più a sud, ma i curdi a malapena riescono a tenerlo sotto controllo adesso e se fossero impegnati in scontri con i turchi non possono garantirne la tenuta. Il comunicato della Casa Bianca di ieri notte che annuncia il via libera alla Turchia dice che i prigionieri dello Stato islamico passeranno sotto la responsabilità dei turchi, ma non si vede come questo passaggio di consegne potrebbe essere ordinato. Nel 2011 i repubblicani criticarono il presidente Barack Obama perché portò via le truppe dall’Iraq troppo presto e concesse allo Stato islamico lo spazio per tornare. Trump ha preso la stessa decisione di ritirarsi, però in un contesto che è molto peggiore e molto più pericoloso – e gli impegnava molti meno soldati. E’ come vedere un ciclo che si ripete: i terroristi sono sconfitti ma la fase successiva ai combattimenti è trascurata e quindi ritornano. E poi sono sconfitti e poi ritornano, di nuovo. La Turchia poteva aspettare. L’eroismo poco utile dei curdi I curdi non ci stanno e promettono di combattere. Non hanno un livello di forze sufficiente per fare la guerra alla Turchia, negli ultimi quattro anni sono stati molto efficienti contro lo Stato islamico anche perché avevano l’appoggio dei bombardieri e dalle forze speciali americane ma in un nuovo, eventuale conflitto dovranno cavarsela da soli.

Vedremo se poi combatteranno davvero per non spostare di trenta chilometri verso sud il loro confine. Hanno tutte le armi che hanno accumulato in questi anni e parecchio rancore, ma si sono pure dissanguati nella campagna antiterrorismo. E’ probabile che finirebbero per ricorrere ai metodi della guerriglia, come già succede a ovest – dove ci sono cellule armate che fanno attacchi e sabotaggi soprattutto nella zona di Afrin. Il terreno che difendono è spoglio e piatto, molto poco adatto a resistere a una forza convenzionale – che è la ragione per cui hanno battuto lo Stato islamico. E’ possibile che decidano di ritirarsi dai cantoni più a ovest e di lottare con tutte le forze che hanno per quelli a est, perché almeno conserverebbero le zone con i pozzi di greggio e la contiguità con i curdi iracheni oltre il confine. E’ molto possibile che intavolino negoziati con il regime di Bashar el Assad, che prima della guerra li trattava come cittadini di seconda categoria, non riconosceva la lingua curda e concedeva loro pochi passaporti, perché tutti hanno bisogno di un alleato. Da anni si parla di un ritorno dei curdi nella Siria di Assad, magari incorporati nell’esercito in cambio di un minimo di autonomia locale. Nel 2014 i curdi sono stati i primi a fermare l’espansione dello Stato islamico, che aveva preso alcune grandi città in Siria e in Iraq, attirava decine di migliaia di volontari da tutto il mondo e aveva usato le basi militari abbandonate di corsa dai soldati come fossero state stazioni di rifornimento gratuite. Accecati dall’esaltazione delle conquiste senza sosta, i leader dello Stato islamico ordinarono un attacco contro il cantone di Kobane, schiacciato contro il confine turco. Gli americani prima annunciarono che non sarebbero intervenuti, poi cominciarono a centrare con le bombe le formazioni dei fanatici che dovevano attraversare chilometri di spazio aperto per arrivare fino a Kobane. Per i piloti lo sforzo non era molto di più che quello necessario a uccidere le blatte sorprese a camminare sulle piastrelle del pavimento della cucina. Mentre i curdi tenevano Kobane, la loro battaglia di Stalingrado per fermare un nemico che non voleva fare prigionieri, e gli aerei decimavano i fanatici, i giornalisti filmavano dalle colline turche, al sicuro ad appena qualche centinaio di metri più a nord. Per la prima volta lo Stato islamico dovette ritirarsi quando tutto il suo corpo di spedizione fu sterminato nel giro di giorni. Alla fine dell’inverno tra il 2014 e il 2015 il dubbio teologico si insinuò tra i combattenti islamisti: Dio stava davvero con noi? Dalla battaglia di Kobane i curdi riorganizzati in SDF (Forze siriane democratiche) cominciarono una rimonta laboriosa che durò anni e che li portò non soltanto a riprendersi il territorio dov’erano sempre stati maggioranza, ma anche a prendersi aree molto più a sud fino ad arrivare dove l’Eufrate passa in territorio iracheno. Dal confine con la Turchia al confine con l’Iraq hanno costretto i fanatici a cedere ogni villaggio, ogni singolo edificio, ogni postazione. Lì, a marzo, hanno dato il colpo di grazia allo Stato islamico come entità territoriale. Sono passati appena sei mesi da quel momento.

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