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Il Foglio Rassegna Stampa
02.01.2019 Iran: crisi economica e la sottomissione al regime in pericolo
Analisi di Sergio Colombo

Testata: Il Foglio
Data: 02 gennaio 2019
Pagina: 3
Autore: Sergio Colombo
Titolo: «Gli ayatollah e l'inflazione»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 02/01/2019, a pag. III con il titolo "Gli ayatollah e l'inflazione" il commento di Sergio Colombo.

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Bon Bast-e Tekieh Dolat è la via dell’oro. Decine di commercianti del metallo più prezioso sgomitano in un piccolo vicolo cieco del Grand Bazaar di Teheran. Seduto nel suo negozio in fondo alla strada, Farhad disegna in aria una parabola con una mazzetta di rial iraniani: “Da quando sono state reintrodotte le sanzioni statunitensi, qui tra i bazaari il malcontento cresce giorno dopo giorno. Lui ve lo può confermare”. Lui è Arash, padre di Farhad. Ascolta il figlio in silenzio. Di tanto in tanto annuisce, come a volerne vidimare le parole. Di quel negozio Arash gettò le fondamenta poco prima della Rivoluzione Islamica del 1979, quando il Grand Bazaar, con i mercanti d’oro in testa, si schierò contro il regime dello scià Mohammad Reza Pahlavi. Nei vicoli attraversati quarant’anni fa dallo spettro di una modernizzazione forzata, suscettibile di strangolare il volto tradizionale – e tradizionalista – del commercio iraniano, oggi serpeggia preoccupazione per l’impatto del rinnovato pugno duro degli Stati Uniti. “Il nostro settore”, dice Farhad, “è uno dei più colpiti dalla crisi con Washington”. L’ordine esecutivo con cui, lo scorso agosto, il presidente americano Donald Trump ha reimposto la prima tranche di sanzioni contro la Repubblica islamica ha colpito anche il flusso di oro da e per Teheran. E nel Grand Bazaar diversi commercianti rilevano come, nelle ultime settimane, l’import del metallo prezioso sia calato drasticamente. Le compagnie straniere (emiratine in particolare) che prima rifornivano il mercato ora sono più restìe a fare affari nella capitale iraniana, frenate dal timore di ripercussioni che possano danneggiarne i legami commerciali con l’America. Alla pari dell’oro, altri metalli, più poveri eppure cruciali nell’economia del Grand Bazaar, sono finiti nel mirino delle sanzioni statunitensi. “Basti pensare all’alluminio”, dice Mehdi, trade manager in una compagnia iraniana di importexport. “Tanti prodotti venduti nel Bazaar sono fatti, in toto o in parte, di alluminio: dalle graffette fino ai piccoli e grandi elettrodomestici, passando per le pentole e i telai delle biciclette. E cosa succede nel momento in cui gli Stati Uniti impediscono alla materia prima di entrare in Iran attraverso le vie convenzionali? I fornitori cercano altre strade per reperirla”. Ciò fa salire il costo del prodotto finito pagato dai bazaari e, di conseguenza, il prezzo applicato alla clientela. Il rischio, spiega Mehdi, è che si inneschi un calo delle vendite, se non crescono i salari. “E per questo”, nota, “nelle tende del Grand Bazaar è frequente vedere prodotti di qualità via via inferiore, alternative a prezzo ridotto volte a non allontanare i clienti che non possono permettersi determinati rincari”.

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Accanto alle scarsità di materie prime, il fattore che più ha contribuito all’innalzamento dei costi per i commercianti è il crollo del rial. La moneta iraniana ha perso circa il 70 per cento del proprio valore da quando Trump ha stracciato l’accordo sul nucleare del 2015 siglato con Teheran dal predecessore Barack Obama. Nel Grand Bazaar, le banconote di taglio più piccolo hanno smesso di circolare. “Quello che prima compravo con queste”, dice Farhad agitando in aria la stessa mazzetta di rial, “ora richiede un esborso doppio, o quasi”. Arash annuisce, il figlio continua: “Di recente, la forbice tra la nostra valuta e quella statunitense sul mercato non ufficiale si è ridotta, attestandosi attorno ai 110 mila rial per dollaro, ma questo divario è comunque troppo ampio per chi conduce un’attività”. Inoltre, dice Farhad, “il rial respira perché il governo sta facendo tutto quello che è nelle sue possibilità per tenere sotto controllo il cambio. Ma per quanto ancora riuscirà ad andare avanti?”. La debolezza della moneta iraniana si manifesta anche nelle fluttuazioni che, seppur in misura inferiore rispetto all’estate, ne alterano di continuo il valore, talvolta all’interno della medesima giornata. “Non sai mai cosa succederà domani”, dice Kamran, un ragazzo che lavora nei magazzini del Grand Bazaar e che di quei vicoli respira l’aria quotidianamente, “i commercianti sono disorientati. La stessa merce che oggi comprano a cento tra ventiquattr’ore potrebbe costare novanta, o centodieci. L’instabilità della moneta, e dunque dei costi che i bazaari devono sostenere, rende difficile per ciascuno di loro qualsiasi tipo di programmazione economica, a breve come a lungo termine”. La tensione striscia lungo i dieci chilometri di strade e strettoie che compongono il Grand Bazaar. Si annida nei caffè e nei punti di ritrovo. Si nutre delle incertezze finanziarie dei commercianti, ma non solo. Nelle ultime settimane, in Iran sono state arrestate decine di persone accusate di influenzare l’andamento del mercato dei cambi attraverso la compravendita illegale di oro e di valute straniere. In questo contesto, a novembre, due uomini sono stati impiccati perché ritenuti colpevoli di “diffondere la corruzione sulla Terra”, un peccato capitale nella Repubblica Islamica. Uno dei condannati a morte, il cinquantottenne Vahid Mazloumi, aveva lavorato per trent’anni nel Grand Bazaar di Teheran come commerciante d’oro.

In Bon Bast-e Tekieh Dolat il suo nome suona famigliare, qualcuno a sentirlo alza il sopracciglio, nessuno vuole commentare. “Arresti e impiccagioni sono parte di una precisa strategia dell’autorità centrale”, dice Kamran, “e non è un caso che, ogni volta che c’è stata una condanna, si sia data grande visibilità alla notizia sui giornali e sui mezzi di informazione controllati dal governo. E’ un duplice messaggio. Da una parte, rivolto a quanti all’interno del Grand Bazaar di Teheran svolgono la medesima attività, sebbene su scala ridotta. Dall’altra, ai commercianti e alla popolazione nel suo insieme, come a dire: ‘Se il rial è debole e l’economia va a rotoli, la colpa è di queste persone. Guardatene i volti e imparatene i nomi, è loro che dovete biasimare’”. Nonostante il moltiplicarsi di moderni centri commerciali nel nord di Teheran, il Grand Bazaar resta uno snodo importante del potere economico nella capitale iraniana e, in quanto tale, un bacino di consensi che chi guida il paese è chiamato a tenere in considerazione. Prima e a cavallo della Rivoluzione, questo era un luogo di opposizione. Nel libro “Shah-in-shah”, il giornalista polacco Ryszard Kapuciski racconta come, nei negozi del Bazaar, venissero nascoste le corde utilizzate per abbattere le statue dell’ultimo dei Pahlavi. Con il passare degli anni, il rapporto dei bazaari con il potere politico è mutato. Arang Keshavarzian, associate professor di Middle Eastern and Islamic Studies alla New York University, ne ha illustrato l’evoluzione nel volume “Bazaar and State in Iran: The Politics of the Tehran Marketplace”. Secondo Keshavarzian, la Repubblica islamica si è ben guardata dal replicare l’errore commesso dallo scià; non ha marginalizzato i bazaari e, anzi, “li ha incorporati nello stato, attraverso un sistema di cooptazione e clientelismo”. “Oggi alcuni commercianti, i più ricchi, abitano là”, dice Kamran puntando il dito a nord, oltre i tetti di Teheran, verso le montagne che sovrastano la capitale, “vivono nei pressi del distretto di Niavaran, dove negli anni Sessanta Mohammad Reza Pahlavi fece costruire la propria residenza e dove ora si trovano le case di ministri e alti esponenti dell’apparato statale”. Quarant’anni dopo la Rivoluzione islamica, il Grand Bazaar di Teheran è riconosciuto come una roccaforte conservatrice nel cuore della città più progressista dell’Iran. Tra i commercianti, rimbalza il malcontento nei confronti del presidente riformista Hassan Rohani. Qualcuno ne commenta l’operato con una risata, Farhad si limita a una smorfia amara: “In questi cinque anni, ha dimostrato di essere inadeguato”, dice scuotendo il capo, sotto lo sguardo complice del padre.

“So che in Europa avete un’opinione piuttosto positiva del nostro presidente, io vi garantisco che qui siamo esasperati”. L’accusa più comune che i bazaari muovono a Rohani, in carica dall’agosto del 2013 e riconfermato nel 2017, è di non avere rispettato le promesse fatte in materia di economia. “In campagna elettorale, aveva insistito molto su questo aspetto”, ricorda Farhad, “diceva che avrebbe rimesso in moto il paese, diceva che con lui nessun iraniano avrebbe più avuto bisogno dello yaraneh, il sussidio mensile di 450 mila rial introdotto nel 2010 dal governo di Mahmoud Ahmadinejad ed erogato a decine di milioni di persone”. Farhad parla e indica con un gesto della testa due uomini in abiti consunti che si aggirano nel Grand Bazaar: “Il guaio, per noi e per Rouhani, è che le promesse, oggi, si scontrano con la realtà. Non solo quelle persone hanno ancora bisogno dello yaraneh, ma con un rial così debole non possono più permettersi quello che compravano otto anni fa”. Il restringimento del potere di acquisto, dice Farhad, “non riguarda soltanto i ceti più poveri, è un fenomeno che interessa la stragrande maggioranza dei cittadini iraniani. E questo, per chi come noi bazaari vive di commercio, è un problema impossibile da ignorare”. L’inquietudine monta. E risveglia il ricordo del passato recente, variante iraniana del ‘si stava meglio quando si stava peggio’: “Negli anni della presidenza di Ahmadinejad”, dice Farhad, “il mercato era in condizioni migliori e la nostra valuta, anche nei momenti più duri, non ha mai superato la soglia del 40 mila rial per dollaro”. Poco importa se anche Ahmadinejad finì nel mirino del Grand Bazaar di Teheran, nel luglio del 2010, a causa del progetto di innalzamento dell’imposta sul valore aggiunto. L’obiettivo, adesso, è Rohani. Anche più del ‘Grande Satana’. “Certo, gli Stati Uniti non ci stanno rendendo le cose facili”, dice Farhad, “ma noi siamo i primi responsabili di quanto ci accade”. Arash ascolta il figlio. Annuisce stanco, un’ultima volta. “Rouhani è il nostro presidente, non Trump. Chi dovremmo incolpare secondo voi?”.

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