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Il Foglio Rassegna Stampa
06.11.2018 Oggi Usa al voto di Midterm: un referendum su Donald Trump
Giuliano Ferrara scatenato contro il Presidente, equilibrio di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 06 novembre 2018
Pagina: 1
Autore: Giuliano Ferrara - Daniele Raineri
Titolo: «Così vince l’American Carnage di Trump - Referendum d’America - Trump prende a spallate i mullah»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 06/11/2018, a pag.1 con il titolo "Così vince l’American Carnage di Trump", il commento di Giuliano Ferrara, con il titolo " Referendum d’America", il commento di Daniele Raineri; a pag. 3, l'editoriale "Trump prende a spallate i mullah".

Giuliano Ferrara, ancora una volta, attacca Donald Trump, descritto come un imbonitore televisivo senza scrupoli e senza una linea definita pronto a cavalcare fake news e complotti. Lo stesso Ferrara, però, non può fare a meno di ammettere la fase economica positiva per gli Usa in questi due anni di Amministrazione Trump. Sullo stesso quotidiano, il Foglio, viene oggi pubblicato un editoriale che contraddice il pezzo di Ferrara, sottolineando la giustezza delle scelte di Trump verso l'Iran degli ayatollah. Una scelta editoriale quindi contraddittoria e schizofrenica.

Il commento di Daniele Raineri è invece incentrato sulle elezioni di Midterm che si svolgono oggi negli Usa. L'articolo è equilibrato, a differenza di quello di Ferrara e di quello di Gianni Riotta a pag. 5 della Stampa, che non riprendiamo. L'analisi di Riotta è ideologica e fa emergere, tra le righe, la sua formazione quando iniziò la professione al Manifesto.

Ecco gli articoli:

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Donald Trump in campagna elettorale: "Stop all'accordo con l'Iran"

Giuliano Ferrara: "Così vince l’American Carnage di Trump"

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Giuliano Ferrara

Se i democratici americani oggi prendessero la Camera, l’Impostore in chief avrebbe un nuovo totem intorno al quale inscenare la sublime danza della demagogia per essere rieletto tra due anni. Se questo non avvenisse, a parte le rilevanti conseguenze per gli apparati di potere e la credibilità dell’opposizione, cose da non sottovalutare, l’Impostore mancherebbe di un totem ma avrebbe con sé perinde ac cadaver tutti i repubblicani senza eccezione nella corsa alla rielezione. Non c’è soluzione. La demagogia inventa la realtà, produce argomenti falsi come prodotti freschi da smerciare ogni giorno, induce a plebisciti da paura, ha per sé il futuro in mezzo mondo ed è anche perfettamente compatibile, per adesso almeno, e in America, con risultati brillanti in politica economica e in politica estera, due temi che Trump in campagna trascura, pur essendo in teoria due carte vincenti di prim’ordine, in favore della carovana di migranti che “minaccia” la frontiera, con un rilancio del gioco sporco sull’immigra - zione illegale dalla quale solo un uomo forte può difendere il popolo smarrito. Il fatto è che le verità indiscutibili di un ciclo economico positivo, cominciato prima di Trump ma da lui incentivato e incrementato con sapienza istintiva di con artist e maestro del deal commerciale, truffatore e facitore di accordi, e competenza marcata Wall Street, così come la rottura in politica estera con le sue conseguenze felici America First, sono materia argomentativa per elettori maturi, oggi è così, domani chissà, e comunque impongono un discorso costruttivo, un impegno al dialogo democratico e responsabile, istituzionale, per il quale il proto-Bolsonaro di Washington non è atleticamente preparato. Il suo ramo accademico è bugie e paura, la strizzata d’occhio ai valori familisti e paraevangelici trascurati dai liberal, categoria di cui ha sempre tumultuosamente e grottescamente fatto parte, fino alla discesa opportunistica dalla scala mobile della Trump Tower e alla reinvenzione di sé come candidato repubblicano ad alta energia e dai modi più che grossolani, e un effetto di dominio e soggezione che costringe le élite dei media e del Congresso a una battaglia difensiva fino a oggi senza molte speranze, e i conservatori della vecchia scuola a una specie di clandestinità politica. Anche Berlusconi, che lo aveva preceduto di ventidue anni con i modi del “mi consenta”, era il re della vanagloria, ma non ha mai avuto né l’inclinazione né la forza di stravolgere con la demagogia armata, che era tutta dalla parte dei suoi oppositori, inconsapevoli del fatto che preparavano l’esito finale truce e imbelle che conosciamo, il suo personalismo teatrale e politico. Trump, come osserva con acume Bret Stephens, sceglierà sempre una battaglia di retroguardia, anche rispetto ai fatti buoni di cui farsi forza, in favore della brutalità falsaria della più spietata retorica dell’American Carnage: conosce il campo di gioco in cui è sempre il più forte, lui che viene dalla tv e dal reality, lui che è un illustre twitterato, letterato del Twitter, lui che ha in testa, e nello stomaco, insieme con il doppio hamburger quotidiano, le viscere di una parte oggi preponderante dell’elettorato americano. Può osare tutto, in questo campo, anche cercare di sputtanare gli dèi dello stadio per vilipendio dell’Inno nazionale (si inginocchiano durante l’esecuzione). Può compiangere i giovani maschi bianchi americani dopo il processo al giudice Kavanaugh. Può prendersi i fischi degli ebrei di Pittsburgh e gli appalusi di Netanyahu e i quattrini di Sheldon Adelson contemporaneamente. Può disprezzare donne, neri, latinos e altre maggioranze e minoranze e prendersi i loro voti per la sicurezza. In questi numeri è invincibile. Se la posta in gioco è il bilanciamento dei poteri, bisogna augurarsi la presa della Camera per i democratici, che sarà comunque un palliativo, se non un revulsivo, agli effetti della battaglia del 2020 per la rielezione o l’alternativa. Un programma persuasivo per una maggioranza che ragioni e un/a candidato/a forte e affascinante che sappia insieme promettere protezione senza costrizione, senza bugie, senza guerre ai nemici del popolo, senza sottrarsi ai controlli e ai bilanciamenti usando le truppe federali per la campagna elettorale, senza corrosione della Costituzione e devastazione della cultura popolare civica, e sviluppo e benessere senza retoriche nazionaliste e protezioniste. Cioè l’America di prima, Once Upon a Time in America, come un film di Sergio Leone. O un/a repubblicano/a con le palle, di cui non si intravede nemmeno la silhouette. La quadratura del cerchio. E il cerchio è tondo, c’è poco da fare, quadrarlo non è mai stata impresa facile. Quando un mago da circo equestre si impadronisce del cerchio, la ruota minaccia di girare indisturbata per periodi di tempo molto estesi.

 

Daniele Raineri: "Referendum d’America"

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Daniele Raineri

New York. Oggi è il giorno delle elezioni di metà mandato in America o come direbbe il presidente americano Donald Trump: è il giorno del grande referendum americano su di me. Non ha torto. Anche il Washington Post, che è schierato molto contro, scrive che al di là delle elezioni locali e per il Congresso questo voto riguarda lui e dovrebbe chiarire in modo definitivo se Trump presidente è soltanto un’anomalia storica oppure se è il perfetto e più fedele rappresentante della metà degli americani nel 2018. La risposta giusta è già la seconda, anche se perdesse. La campagna per questo “referendum”si è basata su due invenzioni opposte. Una, da parte dei democratici, è che l’elezione di Trump nel 2016 avrebbe distrutto il paese –o comunque che lui avrebbe fatto errori così clamorosi che i suoi elettori avrebbero capito lo sbaglio e lo avrebbero abbandonato.

I sondaggi sono chiari: non è stato così. I fondamentali dell’America sono solidi e gli elettori sono rimasti con il presidente – e affollano i suoi comizi. Il Partito democratico ha molti consensi (del resto i suoi elettori furono più numerosi dei repubblicani anche nel 2016) e Trump ha un indice di gradimento molto basso, ma se gli scandali, le inchieste, le accuse e i libri avessero un effetto definitivo ora dovrebbe essere a zero e invece è stabile sopra al quaranta per cento e talvolta sale di più. La seconda bufala della campagna viene dalla parte repubblicana ed è quella della carovana dei migranti, che è allo stesso tempo una grande truffa ai danni degli elettori e la sintesi della strategia trumpiana. Il presidente poteva presentarsi ai comizi per le elezioni di metà mandato con in tasca dati economici favolosi e invece ha scelto di parlare quasi soltanto esclusivamente di quella che lui chiama “l’in - vasione degli immigrati”. Eppure era da molto tempo che non si vedeva una situazione economica così buona. A ottobre l’America ha creato 250 mila nuovi posti di lavoro e la disoccupazione è scesa ancora, adesso è al 3,7 per cento – e questo vuol dire che in pratica è impossibile restare senza lavoro. Il 55 per cento degli americani sentiti dai sondaggisti dell’istituto Gallup pensa che la situazione dell’economia sia eccellente e questa percentuale non si vedeva dal 1998, dagli anni Novanta splendidi in cui l’America non aveva ancora conosciuto la crisi. Trump cita di sfuggita questi dati (e si guarda bene dallo spiegare che fanno parte di un ciclo favorevole cominciato anni prima del suo arrivo alla Casa Bianca) ma tutti i giorni per le ultime tre settimane di campagna elettorale ha preferito battere molto contro la carovana. Riceveva telefonate disperate dai pezzi grossi del partito che gli chiedevano di fare l’opposto, di parlare di economia e non di “invasione”. Lui rispondeva: alla base piace così. I migranti si spostano a piedi e sono ancora nel sud del Messico, ci vorranno ancora molte settimane prima che si affaccino al confine americano, se mai arriveranno davvero ed è da vedere in quanti arriveranno. E’ come se dovessero ancora percorrere l’autostrada tra Napoli e Milano a piedi per quattro volte. Ma le elezioni di metà mandato sono oggi, quindi la settimana scorsa Trump ha dato l’ordine di spostare sul confine cinquemiladuecento soldati con armi, elmetto e giubbotto antiproiettile per rafforzare la presenza delle guardie di frontiera. In realtà i militari non possono occuparsi direttamente della questione, quindi hanno montato molte tende per le guardie e poi si sono messi ad aspettare. I migranti sono circa cinquemila fra uomini, donne e bambini – in teoria secondo i dati di ottobre il mercato del lavoro americano potrebbe assorbirli in mezza giornata. Possono chiedere asilo politico e la loro domanda sarà accettata o respinta. Ma tutta la questione è stata raccontata con toni molto drammatici, dalla possibile presenza di uomini dello Stato islamico –smentita dalle agenzie di intelligence – al possibile zampino del filantropo ebreo George Soros, grande spauracchio della destra nazionalista in tutto il mondo (Soros ha chiesto a Fox News di essere intervistato per dissolvere una volta per tutte il suo mito negativo, gli hanno risposto di no: se lui andasse in tv a dimostrare di non essere il gran burattinaio, i complottisti morirebbero di crepacuore), che Trump non ha escluso: “E’ possibile che controlli la carovana”. Il presidente a un certo punto ha detto che l’esercito potrebbe sparare contro i migranti se quelli lanciassero pietre, poi si è corretto e ha detto di no ma che comunque le punizioni sarebbero dure. E’tutto ipotetico, ma per tre settimane lui e quindi anche i media non hanno parlato d’altro. New York Times e Washington Post hanno dedicato alla questione 115 articoli, come se esistesse davvero. Un fanatico ha citato “l’invasione dei migranti favorita dagli ebrei” come il motivo che lo ha convinto a entrare in una sinagoga di Pittsburgh e uccidere a fucilate undici persone. E ora un rapporto militare cita il rischio che arrivino milizie di cittadini armati, circa duecento uomini, “a dare aiuto”ai soldati contro “l’invasione”.

"Trump prende a spallate i mullah"

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Come ricordato venerdì con un meme in stile “Game of Thrones”, ieri l’America ha annunciato un nuovo giro di sanzioni contro l’Iran – dopo essersi ritirata dal patto atomico firmato da Obama nel luglio 2015. Le sanzioni sono modulate in modo molto interessante e, per esempio, alcuni paesi che importano molto petrolio iraniano potranno continuare a farlo. Tra loro c’è l’Italia, e invece non ci sono la Francia e la Germania che si sono opposte con forza al ritorno delle sanzioni quando Trump ha dichiarato che l’America si ritirava dal deal atomico. Insomma, se i francesi importano petrolio iraniano d’ora in poi rischiano di far scattare le sanzioni americane e gli italiani invece possono farlo senza problemi. C’è un punto più generale che sfugge: le sanzioni di Trump sono molto diverse da quelle del passato perché arrivano in un momento speciale per l’Iran. Le sanzioni internazionali poi finite nel 2015 colpivano un paese che era un monolite compatto dove la struttura del potere non mostrava nessun segno di cedimento all’esterno. Le contraddizioni e le tensioni c’erano, e molte, ma non riuscivano ad arrivare in superficie. L’ultima grande protesta risaliva al 2009 ed era stata liquidata come una cosa per pochi fighetti della capitale. Oggi invece l’Iran che torna sotto le sanzioni è un paese dove la massa ha sempre meno paura del potere, protesta, prende in giro il governo ed è esasperata da una rivoluzione religiosa e antioccidentale che non vuole più – perché preferirebbe avere una vita migliore. Ieri circolava un video molto eloquente, in cui c’erano studenti universitari che rifiutavano di calpestare la bandiera israeliana e quella americana all’ingresso dell’università. Quanta pazienza resta ancora nella pancia della popolazione per un regime che attira di nuovo sanzioni internazionali? E se Trump fosse quello che riesce a dare la spallata più forte di tutti? Ieri il regime si è detto pronto a “nuovi negoziati”.

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