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Il Foglio Rassegna Stampa
16.05.2018 Gaza, il confine significa sicurezza. Le reazioni opposte di Arabia Saudita e Iran
Commenti di Giulio Meotti, Rolla Scolari, Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 16 maggio 2018
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti - Rolla Scolari - Paola Peduzzi
Titolo: «'Quel confine vuol dire vita o morte' - Il silenzio saudita - L’urlo dell’Iran»

Riprendiamo dal FOGLIO di ogg, 16/05/218, a pag. 1, con i titoli "Quel confine vuol dire vita o morte", "Il silenzio saudita", "L’urlo dell’Iran", i commenti di Giulio Meotti, Rolla Scolari, Paola Peduzzi.

Ecco gli articoli:

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Terroristi di Hamas cercano di sfondare la barriera al confine tra Gaza e Israele

Giulio Meotti: 'Quel confine vuol dire vita o morte'

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Giulio Meotti

Roma. “Mentre arrivavano le notizie da Gaza, lunedì non ho fatto altro che passare da un kibbutz all’altro a rassicurare la popolazione, e poi a spegnere incendi”. Ilan Isaacson fa un lavoro ingrato. E’ il capo della sicurezza del consiglio regionale di Eshkol, ovvero le comunità israeliane a ridosso della Striscia di Gaza. Ottocento metri separano Nahal Oz dal reticolato assaltato dai palestinesi. Oltre c’è Shejaiya, un quartiere di Gaza. Il kibbutz Nir Am durante l’ultima guerra si è svegliato con un tunnel di Hamas nei suoi giardini. Poche centinaia di metri separano gli israeliani di Nirim da Khan Younis. “Il confine era aperto” racconta al Foglio Isaacson, che è anche riservista e comandante di un battaglione dell’esercito e che vive a Sde Nitzan, un moshav non lontano da Gaza. “Andavamo nella Striscia a fare la spesa, mia moglie si recava a Rafah. E i palestinesi venivano qui a lavorare. Avevamo ottime relazioni. Poi l’Intifada, i missili, il golpe di Hamas hanno cambiato tutto. Hamas vuole distruggerci. Insegnano questo ai loro bambini. Per questo oggi quel confine riconosciuto dal 1947 è chiuso”. Ieri due ministri, Yoav Galant e Gilad Erdan, hanno detto che Israele potrebbe tornare alle uccisioni dei capi di Hamas, a cominciare dal leader Yahya Sinwar: “Hanno detto che vogliono morire sul confine, accontentiamoli” ha spiegato Erdan. Di ieri la notizia di parte israeliana che 24 delle vittime di Gaza erano effettivi dei gruppi terroristici. Ilan Isaacson, capo della sicurezza delle comunità israeliane che vivono a ridosso della Striscia di Gaza, invita ad aprire una mappa. “C’è un confine anche fra Egitto e Gaza”, dice Isaacson al Foglio. “Perché l’Egitto non lo apre, sono loro fratelli arabi no? E perché nessuno glielo chiede? Perché la relazione fra Hamas ed Egitto è peggiore che fra Hamas e Israele. Se Hamas ha bisogno di qualcosa viene da noi. L’Egitto è contro Hamas, come gran parte dei paesi arabi, dall’Arabia Saudita ai paesi del Golfo. I soldi di Hamas arrivano dall’Iran, dal Qatar e da altri paesi. Queste manifestazioni al nostro confine sono organizzate da Hamas e dalla Jihad Islamica, non sono spontanee. Sono certo che molti a Gaza vorrebbero vivere in pace, ma non ci sono democrazia e diritti, non hanno scelta. I loro feriti vengono pagati da Hamas. I terroristi con queste manifestazioni vogliono risollevare la questione palestinese. Dal 2005 non c’è più un solo israeliano, civile o soldato, nella Striscia di Gaza. Hanno avuto la loro terra. Vogliono anche la nostra?”. Isaacson ci spiega quali minacce affrontino gli israeliani che vivono a un tiro di schioppo da quel reticolato sotto assedio. “Sedicimila civili risiedono nelle comunità al confine di Gaza. E queste persone ricevono molte minacce da Hamas. Si va dai tunnel, l’arma più sofisticata dei terroristi, li stiamo distruggendo ma ce ne sono molti che possono ancora usare, ai mortai che possono lanciare facilmente. Di questi missili Hamas si calcola che ne abbia diecimila e contro questi non funziona Iron Dome, il nostro sistema di difesa antimissile, perché siamo troppo vicini al confine. Abbiamo da cinque a quindici secondi per trovare riparo se suona l’allarme rosso. Così in questi anni abbiamo costruito novemila bunker antimissili per queste comunità che si trovano entro sette chilometri dal confine con Gaza. Anche nelle nostre scuole abbiamo i bunker. Adesso i palestinesi stanno bruciando i nostri campi e lanciano bombe artigianali sui nostri soldati e le nostre case”. Isaacson è fiero di essere in prima linea. “Tre comunità di cui coordino la sicurezza, Beeri, Gvulot e Nirim, furono costruite nel 1946, ovvero ancor prima della nascita dello stato di Israele. In una sola notte furono tirati su questi kibbutz. All’epoca c’erano gli inglesi al potere. E quei kibbutz sono ancora lì, oggi minacciati da Hamas. Nirim ha subito molti attacchi terroristici e ha avuto molti morti da parte degli egiziani e poi de fedayyin”. A Isaacson abbiamo anche chiesto cosa accadrebbe nel worst case scenario, ovvero nel caso in cui migliaia di palestinesi superassero il reticolato, l’esercito israeliano arretrasse e il confine cedesse. “Spero che non accada mai” ci spiega Isaacson. “Molti palestinesi verrebbero uccisi. E nessun israeliano vorrebbe più vivere qui. Per questo dobbiamo fermarli nel loro territorio. Il trauma sarebbe così profondo che niente in quest’area sarebbe più come prima. Ieri hanno cercato in più punti di distruggere il confine. Il 99 per cento dei palestinesi uccisi erano sul confine o erano entrati dentro a Israele di pochi metri”. L’esercito ha rivelato che otto terroristi di Hamas erano effettivamente entrati, che avevano aperto il fuoco contro i soldati, prima di essere eliminati. “Israele aveva lanciato volantini e aveva detto loro: ‘Non avvicinatevi, non superate il confine’” ci dice Isaacson. “Il confine è l’unico ostacolo che per noi separa la vita e la morte. Ma è così anche in Libano e in Siria, i kibbutz che si trovano lassù”. Nonostante i campi bruciati, i proclami del capo di Hamas Sinwar di voler “mangiare i fegati degli israeliani”, i tunnel e le infiltrazioni, nessun israeliano ha fatto la valigia. “Dall’ultima guerra nel 2014, la nostra popolazione è cresciuta del dieci per cento. Non ce ne andremo”.

Ilan Isaacson, capo della sicurezza delle comunità israeliane che vivono a ridosso della Striscia di Gaza, invita ad aprire una mappa. “C’è un confine anche fra Egitto e Gaza”, dice Isaacson al Foglio. “Perché l’Egitto non lo apre, sono loro fratelli arabi no? E perché nessuno glielo chiede? Perché la relazione fra Hamas ed Egitto è peggiore che fra Hamas e Israele. Se Hamas ha bisogno di qualcosa viene da noi. L’Egitto è contro Hamas, come gran parte dei paesi arabi, dall’Arabia Saudita ai paesi del Golfo. I soldi di Hamas arrivano dall’Iran, dal Qatar e da altri paesi. Queste manifestazioni al nostro confine sono organizzate da Hamas e dalla Jihad Islamica, non sono spontanee. Sono certo che molti a Gaza vorrebbero vivere in pace, ma non ci sono democrazia e diritti, non hanno scelta. I loro feriti vengono pagati da Hamas. I terroristi con queste manifestazioni vogliono risollevare la questione palestinese. Dal 2005 non c’è più un solo israeliano, civile o soldato, nella Striscia di Gaza. Hanno avuto la loro terra. Vogliono anche la nostra?”. Isaacson ci spiega quali minacce affrontino gli israeliani che vivono a un tiro di schioppo da quel reticolato sotto assedio. “Sedicimila civili risiedono nelle comunità al confine di Gaza. E queste persone ricevono molte minacce da Hamas. Si va dai tunnel, l’arma più sofisticata dei terroristi, li stiamo distruggendo ma ce ne sono molti che possono ancora usare, ai mortai che possono lanciare facilmente. Di questi missili Hamas si calcola che ne abbia diecimila e contro questi non funziona Iron Dome, il nostro sistema di difesa antimissile, perché siamo troppo vicini al confine. Abbiamo da cinque a quindici secondi per trovare riparo se suona l’allarme rosso. Così in questi anni abbiamo costruito novemila bunker antimissili per queste comunità che si trovano entro sette chilometri dal confine con Gaza. Anche nelle nostre scuole abbiamo i bunker. Adesso i palestinesi stanno bruciando i nostri campi e lanciano bombe artigianali sui nostri soldati e le nostre case”. Isaacson è fiero di essere in prima linea. “Tre comunità di cui coordino la sicurezza, Beeri, Gvulot e Nirim, furono costruite nel 1946, ovvero ancor prima della nascita dello stato di Israele. In una sola notte furono tirati su questi kibbutz. All’epoca c’erano gli inglesi al potere. E quei kibbutz sono ancora lì, oggi minacciati da Hamas. Nirim ha subito molti attacchi terroristici e ha avuto molti morti da parte degli egiziani e poi de fedayyin”. A Isaacson abbiamo anche chiesto cosa accadrebbe nel worst case scenario, ovvero nel caso in cui migliaia di palestinesi superassero il reticolato, l’esercito israeliano arretrasse e il confine cedesse. “Spero che non accada mai” ci spiega Isaacson. “Molti palestinesi verrebbero uccisi. E nessun israeliano vorrebbe più vivere qui. Per questo dobbiamo fermarli nel loro territorio. Il trauma sarebbe così profondo che niente in quest’area sarebbe più come prima. Ieri hanno cercato in più punti di distruggere il confine. Il 99 per cento dei palestinesi uccisi erano sul confine o erano entrati dentro a Israele di pochi metri”. L’esercito ha rivelato che otto terroristi di Hamas erano effettivamente entrati, che avevano aperto il fuoco contro i soldati, prima di essere eliminati. “Israele aveva lanciato volantini e aveva detto loro: ‘Non avvicinatevi, non superate il confine’” ci dice Isaacson. “Il confine è l’unico ostacolo che per noi separa la vita e la morte. Ma è così anche in Libano e in Siria, i kibbutz che si trovano lassù”. Nonostante i campi bruciati, i proclami del capo di Hamas Sinwar di voler “mangiare i fegati degli israeliani”, i tunnel e le infiltrazioni, nessun israeliano ha fatto la valigia. “Dall’ultima guerra nel 2014, la nostra popolazione è cresciuta del dieci per cento. Non ce ne andremo”.

Rolla Scolari: "Il silenzio saudita"

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Rolla Scolari

Milano. Le condanne sono arrivate in varie forme e con intensità diversa da tutto il mondo: Turchia e Sudafrica hanno richiamato i loro ambasciatori, il Belgio ha convocato quello israeliano per lamentarsi dell’uso eccessivo della forza. Lunedì oltre 60 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano lungo la barriera che separa Gaza da Israele – il più alto numero di morti dalla guerra nella Striscia del 2014 – mentre a pochi chilometri di distanza, a Gerusalemme, i leader politici israeliani e una delegazione americana celebravano il controverso trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv. Molti paesi arabi, per anni campioni della causa palestinese, hanno pubblicato note e comunicati simili nei toni e nella forma a quelli europei: estremamente formali. Più che l’indignazione delle cancellerie questi testi rivelano quanto i palestinesi siano sempre più isolati in una regione in cui gli alleati di sempre hanno altre priorità: arginare l’espansionismo dell’Iran, ed evitare la possibilità di un’altra “primavera” come quella del 2011. Tra le nazioni musulmane, la Turchia è stata quella che ha condannato più duramente Israele. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha parlato di “genocidio”, e definito Israele “uno stato terrorista”. Anche il piccolo emirato del Qatar ha preso una posizione più marcata rispetto ai vicini, condannando “il brutale massacro”. Le dichiarazioni più formali in arrivo da Arabia Saudita e dall’alleato egiziano mostrano come per alcuni paesi dell’area la minaccia principale non sia più rappresentata da Israele, ma dall’Iran: una posizione che accomuna il governo israeliano, l’Ammini - strazione americana e i potentati del Golfo. L’Arabia Saudita ha condannato “l’uti - lizzo di armi da fuoco da parte delle forze d’occupazione israeliane”, ma non ha fatto alcun cenno al trasferimento dell’ambasciata nella Gerusalemme contesa, dove sorge la moschea di al Aqsa, il terzo luogo sacro per l’islam dopo Mecca e Medina. Lo stesso è avvenuto per i comunicati di Emirati arabi ed Egitto, che assieme a Israele impone su Gaza un embargo da anni, mentre gli Emirati hanno annunciato oltre 5 milioni di dollari di aiuti medici agli ospedali della Striscia.

Il Cairo,la cui relazione con Israele si è rafforzata negli ultimi anni nella cooperazione contro gruppi jihadisti lungo il confine tra i due paesi , nelle ore prima delle manifestazioni ha tentato una mediazione invitando la leadership di Hamas. Tuttavia, anche se un sondaggio di ottobre dell’Arab Center di Washington spiega che per l’88 per cento della piazza araba la questione palestinese resta molto sentita, i rais e principi dei regimi sopravvissuti alle rivolte del 2011 non sembrano intenzionati a sostenere una nuova “Intifada” capace di destabilizzare un’altra area di un medio oriente già tormentato da molte minacce. Nelle scorse settimane non sono mancati i segnali di come alcuni stati arabi, che non hanno relazioni diplomatiche con Israele, stiano cambiando atteggiamento a causa dell’interesse comune. L’Arabia Saudita, che ha applaudito la settimana scorsa l’uscita dell’America dal patto nucleare con l’Iran, vede in Israele l’unica potenza militare regionale in grado di arginare l’espansionismo di Teheran. Durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti, in un’intervista all’Atlantic, il principe ereditario Mohammed bin Salman, dopo aver detto che la Guida suprema iraniana Ali Khamenei “fa sembrare Hitler buono”, ha spiegato come sia israeliani sia palestinesi abbiano diritto a un loro stato: una dichiarazione inedita per un leader saudita, futuro sovrano. E, in un’altra prima regionale, dopo il recente lancio di razzi iraniani dalla Siria contro una base militare in Israele, e la conseguente risposta israeliana, il Bahrein ha dichiarato che Israele ha il diritto di difendersi. L’isolamento dagli alleati di sempre è accentuato dalla divisione della leadership palestinese, Hamas a Gaza e Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, a Ramallah. In Cisgiordania, benché ieri fosse stato indetto uno sciopero generale per marcare il giorno della “nakba”, catastrofe in arabo (i palestinesi ricordano l’allontanamento forzato di 700 mila persone dai loro villaggi nella guerra del 1948) ci sono state proteste e scontri, ma limitati. Anche a Gaza, dopo la giornata di sangue di lunedì, le violenze lungo il confine sono diminuite, c’è stato un altro morto, e i funerali delle vittime.

Paola Peduzzi: "L’urlo dell’Iran"

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Milano. Israele uccide “a sangue freddo”, ha twittato il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, prima di imbarcarsi sul volo che ieri lo ha portato a Bruxelles al vertice salva-accordo con i partner europei: innumerevoli palestinesi sono stati “massacrati mentre protestavano nella più grande prigione a cielo aperto del mondo”, la Striscia di Gaza, ha scritto Zarif, e intanto Donald Trump inaugurava la sua ambasciata “illegale” e “gli altri paesi arabi cercavano di distogliere l’attenzione”. L’Iran condanna l’azione militare di Israele contro i manifestanti – almeno 60 morti nella giornata di lunedì, duemila feriti – e accusa l’America di aver destabilizzato una regione che già stabile non era, ma sottolinea anche la frattura con gli altri paesi della regione, che ha consolidato fronti così distanti che nemmeno la questione palestinese e lo status di Gerusalemme, il collante da sempre di ogni guerra mediorientale, riescono più a unire. “La Striscia di Gaza sta diventando come lo Yemen”, ha detto lunedì sera il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, utilizzando un riferimento che è chiaro a tutti: lo Yemen è il paese in cui lo scontro tra Iran e Arabia Saudita è diretto, brutale, colpo su colpo, sciiti contro sunniti, una guerra di egemonia e conquista, che riguarda tutta la regione. Ci sono i cosiddetti “proxy” sul terreno, ma anche questo concetto di prossimità è via via più sfumato: Nasrallah stesso di recente ha voluto precisare (era un discorso a uso interno che è stato erroneamente fatto circolare e poi rimosso) che il ruolo di “proxy” dell’Iran va stretto a Hezbollah, il legame con Teheran è ben più profondo e “vicino”. La guerra in Siria ha cambiato ogni cosa, anche lo sforzo militare richiesto a Hezbollah che nel conflitto ha perso moltissimi uomini, e ora che l’America di Trump nel giro di qualche giorno esce dall’accordo internazionale sul nucleare e inaugura un’ambasciata che fa di Gerusalemme la capitale di Israele, il fronte iraniano deve alzare ancora di più la voce, intestandosi la battaglia contro Israele (la solita), contro l’America (la solita ma ora c’è in più il ritiro dal deal) e contro l’Arabia Saudita e “le nazioni che tradiscono la causa palestinese” come ha detto Nasrallah, firmatarie di quell’“accordo del secolo” che impedirà per sempre la nascita di uno stato palestinese.

Lo Shin Bet, servizio segreto interno di Israele, dice che l’Iran sta sostenendo finanziariamente Hamas “per le sue attività violente lungo il confine della Striscia di Gaza”: non ha fornito prove, ma in passato i leader di Hamas hanno ringraziato anche pubblicamente Teheran per il sostegno ricevuto. Il governo israeliano teme che si ripeta quella strategia “a tenaglia” che già nel 2006 aveva accerchiato Israele su due fronti, da Gaza e dal nord libanese. Oggi, dopo anni di conflitto siriano nella quasi indifferenza occidentale, si è aggiunto il fronte del Golan, e se la regia è unica – iraniana – il pericolo della sincronizzazione si fa più alto. Molti sostengono che per quanto l’Iran sia molto minaccioso, la guerra non gli convenga. In Siria ha perso molti punti di raccolta – di uomini e armi – in seguito agli strike di Israele, precisi e continui, e soprattutto c’è il rischio che l’accordo internazionale sul nucleare collassi, portandosi dietro anche quell’apertura sui mercati che aveva permesso non di migliorare la qualità della vita degli iraniani, figurarsi, ma almeno di finanziare le guerre anti sauditi e anti occidentali in medio oriente. Zarif è andato a Bruxelles con molte speranze: gli alleati europei (Parigi, Londra, Berlino e il capo della diplomazia europea Federica Mogherini) vogliono mantenere l’accordo anche senza gli americani. La proposta di “potenziamento” che Emmanuel Macron, presidente francese, aveva fatto a Trump per convincerlo a non ritirarsi è decaduta, ma resta in piedi l’idea (francese) di negoziare un altro accordo per regolare quel che accade dopo il 2025, i test missilistici e la sponsorizzazione del terrorismo. Ci vorranno anni, oltre che il consenso di tutti gli interlocutori, e intanto l’urgenza è un’altra: salvare un accordo che politicamente può anche sopravvivere senza gli americani, ma che ha molte meno chance dal punto di vista pratico. Se Washington, come ha già detto di voler fare, impone sanzioni anche alle aziende europee che fanno affari con Teheran, diventerà molto difficile operare nel mercato iraniano, e considerando che il volume di business non è enorme, potrebbe non valerne la pena. L’Iran sa che c’è questo pericolo, e chiede garanzie, mentre gli europei si trovano nella posizione più scomoda possibile, aprono inchieste sui fatti di Gaza mentre l’Iran minaccia apertamente Israele e l’America.

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