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Il Foglio Rassegna Stampa
13.04.2018 Siria: i crimini di Assad e la minaccia iraniana che incombe sul Golan
Analisi di Daniele Raineri, Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 13 aprile 2018
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Paola Peduzzi
Titolo: «Il mediatore - Risposte agli assadisti»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/04/2018, a pag. I con il titolo "Risposte agli assadisti", il commento di Daniele Raineri; a pag. 1 con il titolo "Il mediatore", il commento di Paola Peduzzi.

Ecco gli articoli:

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Ma perché Assad avrebbe dovuto colpire con le armi chimiche proprio mentre sta vincendo la guerra e attirarsi addosso l’ira della comunità internazionale? Non aveva nessun interesse a farlo. E’ vero che Assad sta vincendo la guerra e l’esito è ormai scontato, ma ha ancora molte battaglie davanti. E soffre di un problema enorme: la mancanza di soldati. Non lo dicono la Cia o George Soros, l’ha detto lui stesso in un discorso in tv mentre ringraziava pubblicamente la Russia per l’aiuto. Mancano i soldati, sette anni di guerra civile hanno ridotto l’esercito siriano all’ombra di quello che era prima – tra perdite, ammutinamenti e diserzioni. Il che spiega perché soltanto di recente Assad ha cominciato la battaglia per riprendere la zona della Ghouta, che dista soltanto dieci chilometri dal centro della capitale, e così sloggiare le migliaia di guerriglieri locali che in tutti questi anni gli avevano resistito. Ha un bisogno estremo di rimpinguare i suoi reparti. La polizia batte le università e i posti di blocco per cercare giovani che hanno approfittato del caos della guerra per fuggire dal servizio militare, le mazzette per evitare l’arruolamento coatto hanno raggiunto prezzi stellari e tutti i gruppi ribelli che capitolano – grazie ai mediatori russi – e che non accettano il trasferimento verso le zone ancora ribelli sono prontamente riciclati in milizie filogovernative, proprio per supplire alla scarsità di uomini. Tra poco comincerà un’offensiva per liberare il campo di Yarmouk, che è un quartiere a sud della capitale in mano allo Stato islamico e i reparti che saranno mandati avanti sono tutti formati da ex ribelli. Per vincere Assad doveva prendere Duma, una cittadina che in tempi normali ha centodiecimila abitanti e dista pochi chilometri dal centro di Damasco. Dentro Duma erano ancora trincerati ottomila combattenti del gruppo Jaish al Islam, con almeno trenta pezzi d’artiglieria e centinaia di ostaggi, e il tutto era complicato dalla presenza di quarantamila civili. Questi dati non sono mai citati, ma è chiaro che sarebbe stata una battaglia violentissima. Ricordiamo cos’è successo agli americani quando tentarono di riprendere Fallujah in Iraq nel 2004? Ci vollero quasi due mesi per vincere contro meno di quattromila guerriglieri – e gli americani non ci andarono leggeri: proiettili incendiari al fosforo bianco, munizioni perforanti all’uranio impoverito – e alla fine la città era un cumulo di rovine. E più di recente si può ricordare cosa è successo in Libia, a Sirte, quando seimila combattenti delle milizie locali appoggiati dagli aerei americani provarono a prendere a strappare la città in mano a un numero non meglio definito di fanatici dello Stato islamico – tra i duemila e i tremila. Ci vollero sei mesi di scontri casa per casa e strada per strada e quando finirono, a dicembre 2016, soltanto un combattente libico su sei tornò a casa sulle sue gambe: gli altri cinque o erano feriti o erano morti. Nella guerra civile siriana, dove gli uomini a disposizione sono molti meno, le battaglie si trascinano per tempi lunghissimi. Quando gli assadisti hanno tentato di prendere Darayya, un sobborgo di Damasco in mano a ribelli che non erano né dello Stato islamico né di al Qaida, ci misero tre anni, dal 2013 al 2016, pur con bombardamenti aerei e di artiglieria intensissimi. E finì con un accordo di resa, altrimenti sarebbe andata ancora avanti. E questo ci riporta al problema della scarsità di soldati: il governo siriano può permettersi una battaglia di Fallujah? Sapendo che ce ne saranno anche altre? Chi dice che Assad non aveva ragioni tattiche per usare le armi chimiche dovrebbe prima provare a cacciare il Jaish al Islam da Duma. Assad ha usato la scorciatoia chimica perché gli mancano gli uomini, ma non c’è soltanto questo motivo. Il rais sta vincendo ma ha il problema enorme di come controllare la popolazione che gli si è rivoltata contro. Quindi ha bisogno di molta manovalanza anche per il dopo, perché prima della guerra civile esercitava un controllo di sicurezza capillare, deve riportare le forze di sicurezza a quel livello. E deve anche spezzare la volontà dei siriani che gli si sono opposti. Chi si è ribellato ed è sopravvissuto dev’essere persuaso che la rivoluzione è impossibile oltre che inutile. I baathisti non cercano soltanto la vittoria, ce l’hanno già quasi in tasca grazie all’aiuto ricevuto dall’Iran e alla Russia, vogliono anche la capitolazione morale e psicologica dei nemici. E’ una versione contemporanea di una lezione che i classici conoscevano bene. Pensate ai romani che spargono il sale sulle rovine di Cartagine in modo che non cresca l’erba e in modo che le rovine stesse restino come ammonimento. Pensate a Omero che racconta di come Achille lega il cadavere di Ettore al suo carro e poi lo fa passare sotto le mura di Troia, in modo da terrorizzare gli assediati che avevano appena perso il loro campione. Oppure pensate ancora al dittatore iracheno Saddam Hussein, che ordinò una rappresaglia tremenda contro gli sciiti quando si ribellarono contro di lui nel 1991 – e aveva appena perso la guerra del Golfo contro gli americani. Quando Human Rights Watch ebbe accesso all’Iraq tra il 2003 e il 2006 trovò più di duecento fosse comuni, una secondo le stime conteneva più di diecimila cadaveri. Senza andare lontano, c’è l’esempio di Hama in Siria: nel 1982 quando la rivolta della Fratellanza musulmana era ormai domata il padre di Assad, Hafez, ordinò ai soldati guidati da suo fratello Rifat di radere al suolo un terzo della città con l’artiglieria. Il numero di morti non fu mai chiarito, è fra i diecimila e i quarantamila. La lezione fu recepita. C’è voluta un’altra generazione perché qualcuno si ribellasse alla dinastia Assad. Duma è caduta grazie all’uso di armi chimiche? Potrebbe essere. Jaish al islam era impegnato in trattative con i russi, ma si erano arenate. I governativi siriani sono intervenuti a modo loro. Il giorno della rottura dei negoziati, nel pomeriggio, ci sono stati due bombardamenti con armi chimiche, alle quattro e alle sette e trenta. Il giorno dopo la strage il gruppo ha accettato la capitolazione. Un combattente del gruppo, Yasser Dalwan, ha detto a Josie Ensor, corrispondente del Telegraph a Beirut: “Certo che l’attacco chimico è stato la cosa che ci ha spinti ad accettare l’accordo”.

Molti dicono che si è trattata di una strage fatta da qualcun altro per incolpare il governo siriano e attirare un intervento internazionale. Ecco il fatto incredibile: chi dice queste cose – quindi chi sostiene la teoria dell’operazione false flag – rifiuta di portare anche soltanto un piccolo elemento di prova per corroborare la sua tesi. Non spiega chi sarebbe allora il responsabile della strage. E non spiega come avrebbe fatto materialmente a fare la strage. Il mandante misterioso ha inviato una sua squadra provvista di tute e maschere antigas dentro una città assediata fuori da militari dal grilletto facile e dentro piena zeppa di ribelli islamisti – e bombardata dall’alto a ciclo continuo – per soffocare decine di uomini, donne e bambini con armi chimiche tra le quattro e le sette di pomeriggio e poi l’ha fatta uscire, senza che nessuno la vedesse? Oppure ha bombardato Duma dall’alto con aerei invisibili che sono sfuggiti agli altri aerei e ai radar nella zona più sorvegliata del pianeta, da Russia, America, Iran, Siria, Israele e altri? Oppure ha convinto i ribelli a uccidere le loro famiglie – o a suicidarsi assieme a loro – in una strage false flag per far scattare l’inter - vento internazionale e loro sono stati così scemi da accettare dopo che le due stragi precedenti, 1.400 morti nell’agosto 2013 e cento morti nell’aprile 2017, non hanno impedito a Bashar el Assad di vincere la guerra? Non solo, ma mentre la mano misteriosa faceva questo, due elicotteri siriani dello stesso tipo usato per sganciare barili bomba al cloro sono decollati dalla vicina base aerea di Dumayr e hanno sorvolato la zona colpita. La mano misteriosa non è soltanto intrepida e letale, ha anche un tempismo perfetto (sarcasmo). Ci chiedono di credere a un complotto dalla realizzazione enormemente complessa – non una, ma tre volte – e non c’è un briciolo di prova. Eppure chi ne parla non si sente mai in obbligo di spiegare, anzi crede di fare la figura di quello intelligente. Diciamolo: se il governo americano o il governo israeliano provassero a dire che i loro nemici si sono ammazzati da soli, o che una mano misteriosa li ha ammazzati al posto loro, sarebbero subissati dal ridicolo in eterno. C’è un doppio standard: la Russia e Assad parlano e dovremmo creder loro sulla fiducia.

Non sarà come nel 2003, quando il segretario di Stato americano, Colin Powell, andò alle Nazioni Unite a mostrare la fialetta con l’antrace per giustificare l’invasione americana in Iraq e poi si scoprì che Saddam Hussein non aveva alcuna arma di distruzione di massa? E’ l’esatto contrario. Colin Powell andò davanti alle Nazioni Unite il 5 febbraio per convincere l’assemblea che Saddam aveva armi di distruzione di massa e che quindi il regime change in Iraq era necessario. In Siria il governo siriano ha ammesso di avere le armi chimiche nel luglio 2012 e le Nazioni Unite hanno dimostrato che il governo siriano ha usato le armi chimiche. A ottobre 2017 la commissione d’inchiesta dell’Opcw ha stabilito che il bombardamento con l’agente nervino che ha ucciso cento persone a Khan Sheikoun vicino Idlib nell’aprile 2017 è responsabilità del governo siriano. Ha inoltre stabilito che l’agente nervino usato nel massacro della Ghouta che uccise 1.400 persone nell’agosto 2013 è lo stesso delle scorte del governo siriano (grazie ad alcuni elementi chimici in comune). Si capisce la differenza no? Colin Powell cercava di convincere le Nazioni Unite che in Iraq c’erano armi di distruzione di massa, ma non furono trovate. In Siria le Nazioni Unite dicono che ci sono armi chimiche (e l’ha detto anche il governo siriano) e ne vediamo gli effetti quando sono usate. Il paragone con la fialetta di Powell è folle.

I russi dicono che non c’è stato alcun attacco chimico. La posizione del governo russo e di quello siriano è che non c’è nulla di vero. L’attacco è un’invenzione, le vittime con la schiuma alla bocca filmate mentre agonizzano sono un’in - venzione, i morti e i funerali pure sono un’invenzione. Una messinscena enorme ordita da potenze straniere. La posizione del governo iraniano invece è diversa, sostiene che la strage c’è stata ma che è stata fatta dai ribelli per incolpare Assad. Mercoledì la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha scritto forse in un momento di confusione che se gli americani attaccano è per cancellare le prove della strage con armi chimiche, quindi in un colpo solo ha ammesso che la strage è vera e ne ha incolpato gli americani. Poi la versione russa è tornata quella di prima: non c’è nulla di vero. Il giorno dopo l’attacco la zona è stata evacuata dai ribelli ed è passata sotto il controllo di governativi siriani e di militari russi. I militari russi hanno detto che non c’è alcun segno di un attacco chimico, anche se esistono i filmati e le foto che mostrano i serbatoi caduti dall’al - to con agenti tossici. In realtà i segni ci sono. L’Organizzazione mondiale per la Sanità a Damasco ha detto di avere soccorso cinquecento persone con sintomi di soffocamento. I media internazionali hanno raccolto le testimonianze di chi c’era – anche di medici, che per primi hanno riconosciuto i sintomi – che sono concordanti fra loro e concordano con i video e le fotografie. Damasco e Mosca hanno chiesto all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche di mandare una missione investigativa. Però l’ultima missione investigativa dell’Opcw ha stabilito che il governo siriano è colpevole della strage con armi chimiche dell’aprile 2017 e per questo a novembre 2017 la Russia ha sciolto con un veto alle Nazioni Unite quella commissione. Insomma, chiamare la missione è un espediente per prendere tempo, tanto poi ignoreranno le conclusioni.

Ma anche i ribelli hanno usato le armi chimiche. Ci sono due grandi equivoci in questa frase. Il primo è che gli attacchi chimici sono di due categorie, quelli rudimentali fatti con le bombe al cloro – che in molti casi non fanno vittime e creano soltanto panico, a uccidere è più che altro l’esplosione –e quelli sofisticati eseguiti con agenti molto complessi da produrre e da custodire come il sarin, che è molto corrosivo e può essere prodotto soltanto poco prima dell’uso. Il secondo equivoco è che non si tratta di “ribelli”: soltanto lo Stato islamico ha usato il cloro per arricchire le sue bombe e creare una zaffata verdognola e tossica post esplosione, e soltanto molto di rado negli anni passati. Gli attacchi di questo tipo non hanno mai fatto vittime su scala comparabile agli attacchi sofisticati del secondo tipo, anzi è proprio difficile trovare dei casi accertati. Gli attacchi con il sarin che uccidono decine di persone sono riconducibili soltanto al governo. I ribelli assediati a Ghouta non erano dello Stato islamico e non usano le bombe al cloro.

Il capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov, il 13 marzo ha detto che ci sarebbe stato un attacco contro i civili con armi chimiche e che sarebbe stato il risultato di un’operazione false flag per incolpare il governo siriano. Ventisei giorni dopo quell’attacco c’è stato. Come la mettiamo? L’avvertimento del generale russo è facile da spiegare se si conta che in Siria ci sono stati molti più attacchi con armi chimiche di quanti ne abbia registrato l’opinione pubblica mondiale. Dall’agosto 2013 sono stati 85 e di solito sono minori, con il cloro, con pochissime vittime o zero vittime e non riescono a superare la soglia dell’attenzione dei media. Russia e Siria non sono un monolite che prende decisioni all’unisono, a volte divergono senza darlo troppo a vedere. Per esempio Mosca aveva chiesto al presidente Bashar el Assad di non tenere le elezioni presidenziali del 2014, per rendere meno problematici i negoziati, ma lui era andato avanti lo stesso. Se Gerasimov temeva che i siriani avrebbero forzato la mano e usato le armi chimiche, allora conveniva mettere le mani avanti e parlare in anticipo di una messinscena pianificata fuori dalla Siria per dare la colpa ad Assad. Inoltre c’è la possibilità che i siriani non volessero compiere un bombardamento così serio, talmente serio da finire sui media internazionali, ma un attacco in scala minore per mettere pressione sugli assediati. Una bomba con un agente tossico ha sfondato il tetto di un edificio che era affollato di gente che scappava alle bombe convenzionali. Se avesse centrato un altro tetto, il numero delle vittime sarebbe stato molto inferiore.

La Ghouta era infestata da un gruppo di combattenti salafiti, il Jaish al islam, appoggiato dall’Arabia saudita. Vero. Ma l’ideologia del Jaish al islam – che si è macchiato di delitti e ha sequestrato non soltanto molti alawiti ma anche molti siriani moderati e riformisti che lottavano per cambiare il sistema politico del paese – non cancella il problema centrale: le armi chimiche colpiscono indiscriminatamente tutti, combattenti e civili. Chi le usa in zone assediate e densamente popolate accetta il fatto che donne e bambini e civili che non c’entra - no nulla con la guerra e non sono riusciti a scappare moriranno soffocati, con i polmoni progressivamente paralizzati da un agente nervino che impedisce loro di riempirsi d’aria. In quanto all’ideologia molto rigida del Jaish al islam, c’è un velo di ipocrisia da parte degli accusatori. Uno dei migliori alleati di Vladimir Putin è il ceceno Ramzan Kadyrov, che governa la Cecenia imponendo un codice islamico molto stretto e simile – molto vicino al Jaish al islam. L’altro grande alleato della Russia nella guerra siriana è l’Iran, che è una teocrazia sciita impegnata a esportare la rivoluzione khomeinista nella regione mediorientale. Un altro alleato della Russia è il generale Khalifa Haftar, in Libia, che riesce a governare Bengasi e la Cirenaica soltanto grazie a un accordo con le fortissime milizie salafite locali. Se qualcuno provasse a camminare con una donna senza velo a Grozny, a Teheran o a Bengasi, capirebbe che c’è una verità taciuta ed è che gli islamisti sono molto comodi quando sono nostri alleati e sono sempre spaventosi quando combattono a fianco dei nostri nemici. Il Jaish al islam non ha rapporti con lo Stato islamico, anzi nelle zone che controlla lo ha sradicato con efficienza.

Il segretario alla Difesa americana, James Mattis, ha detto in una conferenza stampa a febbraio che non ci sono prove che la Siria abbia usato il gas sarin, come risulta da un articolo del settimanale americano Newsweek. Si tratta di una bufala. Mattis in quell’occa - sione disse che non c’erano prove che il governo siriano avesse usato di nuovo il sarin nei mesi intercorsi tra l’attacco dell’aprile 2017 e febbraio 2018. La sua dichiarazione, che è integrale nella trascrizione della conferenza stampa, è stata tagliata per far sembrare che Mattis abbia detto che il governo siriano non ha mai usato l’agente nervino. Ci vuole meno di un minuto per smontare questa bufala, ma gira ancora.

Se l’Amministrazione Trump lancia un raid punitivo contro la Siria, c’è il rischio di una escalation con i russi e di scatenare la Terza guerra mondiale. Nel 2013, quando l’Amministrazione Obama parlò di un’operazione di rappresaglia contro la Siria per bloccare l’uso di armi chimiche, il segretario di Stato John Kerry precisò che sarebbe stata un’operazione “unbelievably small”, incredibilmente piccola. Poi non ci fu nessuna operazione, ma a Washington sono sempre stati consapevoli che c’è un rischio di escalation e che è necessario evitarlo. Nell’aprile 2017 il raid punitivo autorizzato da Trump fu lanciato soltanto dopo avere avvertito i russi, e a rimetterci furono soltanto sei soldati siriani uccisi dai missili Tomahawk dentro la base a cui facevano la guardia. Anche oggi c’è enorme cautela: i media stanno dicendo che russi e americani si stanno mettendo d’accordo sulla lista dei bersagli e questo fa apparire l’ipotesi terza guerra mondiale molto più remota. Le dichiarazioni dei giorni scorsi erano molto aggressive, la realtà è diversa. Forse è questo il problema di fondo. La minaccia è sempre così blanda e poco credibile che Assad non rinuncia alle armi chimiche, perché sono la sua garanzia di sopravvivenza. E’ la stessa ragione per cui la Corea del nord compie periodicamente test nucleari.

Paola Peduzzi: "L’intervento di May"

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Paola Peduzzi

Milano. Il governo di Israele sostiene l’idea di un intervento militare americano ed europeo in Siria: vuole che siano validate le linee rosse che impediscono l’utilizzo delle armi chimiche in medio oriente e non vuole che l’Amministrazione Trump ritiri le proprie forze dalla Siria, perché questo significherebbe “una manna strategica”, scrive il Wall Street Journal, per un nemico come l’Iran, una minaccia esistenziale. Allo stesso tempo però, Israele vuole mantenere saldo il suo rapporto con la Russia, e sta cercando di fare da mediatore per ottenere una de-escalation dei toni tra russi e americani. Nella notte tra mercoledì e giovedì, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha parlato con il presidente russo, Vladimir Putin: Mosca vuole che sia rispettata la sovranità della Siria e chiede che non si dia il via a operazioni che “potrebbero destabilizzare ulteriormente la situazione nel paese”; Gerusalemme però insiste sul fatto che la presenza in massa degli iraniani in Siria è inaccettabile. Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano russo Kommersant, a Mosca molti sostengono che Netanyahu stia svolgendo un ruolo importante di intermediazione tra Putin e Donald Trump, anche se i più sono convinti che un’opera - zione militare ci sarà in ogni caso. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha detto che esistono le prove dell’attacco chimico in Siria e che, in contatto continuo con Washington, si sta organizzando un blitz militare che sia “efficace”. Israele conta sul fatto che il coordinamento ci sia anche con la Russia: sempre secondo Kommersant, il Cremlino sta aspettando che il Pentagono fornisca la lista dei target da colpire in modo da evitare ogni eventuale scontro con le forze russe presenti in Siria. Per questo ci sono contatti tra i generali russi e americani e anche con la Nato, attraverso il canale ora più promettente per la Russia: la Turchia.

Secondo Alexey Khlebnikov, analista al Russian Council sulla politica mediorientale di Mosca, con tutta probabilità la mediazione di Israele sta funzionando: il Cremlino è quasi certo che le sue basi in Siria non saranno colpite, e il fatto che Trump abbia superato il limite temporale che aveva annunciato – 24-48 ore, ed era lunedì – fa pensare che ci sia stato più metodo e coordinamento nella preparazione delle operazioni. Ci sono anche altri paesi che stanno intervenendo come intermediari (o si candidano a esserlo): l’agenzia di stampa russa Tass ha sottolineato il ruolo della Giordania nella direzione della de-escalation, mentre il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha detto di voler parlare con Putin: ha già avuto una conversazione con Trump, e sottolinea di voler mantenere le proprie relazioni con Russia, America e Iran. La questione iraniana è dirimente, e presto anche le cancellerie europee che lavorano nell’ombra per salvaguardare il deal sul nucleare che Washington vorrebbe smantellare dovranno prendere qualche decisione importante (il 12 maggio Trump dovrà dire se conferma o no il blocco delle sanzioni incluso nell’accordo: aveva annunciato a gennaio che non l’avrebbe confermato). Per Israele, come si sa, l’Iran è più che dirimente, è una questione di vita o morte: Ali Akbar Velayati, gran consigliere della guida suprema Ali Khamenei invitato a Damasco in settimana per una due-giorni sullo status di Gerusalemme, ha detto riferendosi a Israele che “questi crimini non resteranno senza risposta”. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha ribadito: “L’aggressione del regime di Israele contro la Siria è una violazione della sovranità nazionale e della integrità territoriale del paese e va contro ogni regola e principio internazionale”. Teheran si riferiva all’attacco di lunedì contro la base aerea T-4 vicino a Palmira in cui sono morti “alcuni consiglieri militari iraniani”: anche la Russia, in controtendenza rispetto al passato, ha denunciato il blitz in modo molto duro. Questi toni aggressivi non sono sfuggiti al governo di Netanyahu che, da molti anni, mantiene un equilibrio realista nei suoi rapporti con Mosca. Da quando le forze russe sono entrate in Siria, Putin ha di fatto ignorato i ripetuti attacchi di Israele contro le installazioni militari iraniane in Siria: c’è un patto tacito tra Russia e Israele sul rispetto della richiesta di Netanyahu di evitare qualsiasi avvicinamento da parte delle Guardie della rivoluzione iraniane al territorio israeliano, cioè verso le alture del Golan. Per dare seguito a questo patto, il premier di Gerusalemme ha tenuto una linea ben più morbida di americani ed europei nei confronti della Russia. Per esempio non sostenne la risoluzione dell’Onu contro l’annessione della Crimea e nelle settimane scorse non si è unito alle espulsioni coordinate di diplomatici russi chieste dal Regno Unito dopo l’utilizzo di gas nervino a Salisbury. Come ha detto Dan Shapiro, ambasciatore israeliano in America fino all’anno scorso, “la politica israeliana ha avuto come obiettivo evitare conflitti con la Russia su molte questioni che hanno creato frizioni tra Mosca e l’occidente”. Ora però questo equilibrio cui Netanyahu si è dedicato a lungo e con pazienza assieme al suo ministro della Difesa, Avigdor Lieberman (che parla bene il russo), rischia di vacillare. Prima dell’attacco chimico a Duma, il regime di Assad aveva annunciato per l’inizio di maggio un’operazione coordinata con russi e iraniani per riconquistare Deraa, nel sud della Siria, e Quneitra, nel sud-ovest, nella parte siriana delle alture del Golan. La presenza dell’Iran nei pressi di Quneitra non è ufficiale (del resto Teheran ha ammesso di aver subìto perdite sul campo siriano soltanto due volte), ma di recente le forze associate al regime di Assad hanno rimpolpato la loro presenza proprio lì, mentre l’esercito siriano ha piazzato uomini e cannoni nella “noman’s area” che corre lungo il confine con Israele. Per Israele non si tratta di una provocazione, ma di un rischio di guerra imminente, tanto che Lieberman ha detto che qualsiasi avvicinamento iraniano sarà impedito, “a qualsiasi costo”. La Russia è finora stata decisiva nell’evitare l’avanzamento iraniano, ma ora che lo stesso Trump vuole togliere il velo da tutte le alleanze, anche Israele potrebbe dover rinunciare al “lusso”, come lo chiama Shapiro, dell’equilibrio con Mosca: il primo alleato globale di Israele è l’America.

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