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Il Foglio Rassegna Stampa
09.01.2018 Lorde: l'ultima vittima del movimento antisemita BDS
Commento di Stefano Basilico

Testata: Il Foglio
Data: 09 gennaio 2018
Pagina: 2
Autore: Stefano Basilico
Titolo: «La giovane popstar Lorde è l’ultima vittima del tritacarne anti Israele»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 09/01/2018, a pag. 2 l'analisi di Stefano Basilico dal titolo "La giovane popstar Lorde è l’ultima vittima del tritacarne anti Israele".

Per approfondire, rimandiamo al commento di Deborah Fait del 06/01/2018: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=68986

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Lorde

Londra. Lorde, giovanissima cantante pop neozelandese e autrice del brano “Royal”, è finita nel tritacarne dei boicottatori di Israele, da ieri sventolata pure dai soliti Roger Waters, Peter Gabriel e Brian Eno. Tra i concerti in programma in estate, per promuovere il suo ultimo album, “Melodrama”, ci sarebbe dovuta essere una data a Tel Aviv, ma sfortunatamente i suoi fan israeliani hanno già da tempo rinunciato all’idea di vedere la propria cantante preferita. Lorde, il cui tour americano è accompagnato dal duo rap Run The Jewels, vicino a Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, ha infatti deciso di cancellare lo spettacolo in Israele con una velocità da record: il 18 dicembre scorso la giovane neozelandese ha annunciato il concerto. Due giorni dopo, le è stata inoltrata via Twitter una lettera aperta di Justin Sachs e Nadia Abu-Shanab, attivisti pro-Palestina nell’arcipelago oceanico, che le chiedevano, secondo uno schema ben consolidato, di non esibirsi. “Suonare a Tel Aviv”, scrivono, “sarebbe visto come un supporto alle politiche del governo israeliano, anche se non facessi commenti sulla situazione politica”. Proseguono: “Un tale effetto non può essere cancellato nemmeno dalle migliori intenzioni e dalla musica più bella”. Un canovaccio assurdo, applicato sempre e solo quando c’è in ballo Israele, che ha aggiunto l’ennesimo nome alla lunga lista di artisti che si sono piegati ai ricatti dei movimenti di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Lorde ha risposto all’invito con un tweet in cui sosteneva di “aver parlato con molte persone sul tema” e di “considerare tutte le opzioni”, ringraziando infine gli attivisti “per educarla”. Poi ha cancellato la data. Il fatto è che la strategia di gioco di Roger Waters e co., ormai, è abbastanza noto – solo nel novembre scorso Nick Cave aveva definito questa sorta di boicottaggio musicale una vera “censura”. La decisione di Lorde ha scatenato reazioni. Per esempio, l’ambasciatore israeliano a Wellington ha chiesto un incontro con la cantante, per comprendere le ragioni di questa decisione. Il rabbino conservatore americano Shmuley Boteach ha acquistato un’intera paginata sul Washington Post per attaccare la cantante. Nella pubblicità campeggia il titolo “Lorde e la Nuova Zelanda ignorano la Siria per attaccare Israele” e, sempre a caratteri cubitali, “a 21 anni si è giovani per essere dei fanatici”. Il rabbino ortodosso disegna un parallelo tra la decisione della cantante, che suonerà a maggio a San Pietroburgo e Mosca, e quella del governo kiwi, che ha supportato la risoluzione dell’Onu contro la decisione degli Stati Uniti di spostare la propria ambasciata a Gerusalemme.

Secondo Boteach, Lorde sarebbe una doppiopesista, dal momento che tace sul coinvolgimento del Cremlino nella crisi siriana. Per quanto criticabile sia la scelta della cantante, il paragone è una contraddizione in termini: se per un cantante suonare in una nazione non significa condividerne le politiche, al tempo stesso ha poco senso sovrapporre la decisione di una cantante a quella del governo della sua nazione d’origine. Del resto Boteach non è nuovo a controversie e incongruenze. Durante un dibattito sulla Cnn ha criticato l’alt-right definendola “deplorabile”, salvo poi pubblicare sui suoi social network un selfie con Steve Bannon, difendendolo a spada tratta. Il “rabbino d’America” avrebbe potuto toccare ben altra leva, azionandola in casa propria: se infatti Lorde ha cancellato la data a Tel Aviv poiché suonare “sarebbe visto come un supporto alle politiche del governo israeliano”, perché oltre alle due date in Russia ha mantenuto i ventinove concerti in quegli Stati Uniti il cui presidente supporta con ardore le stesse politiche del governo israeliano? Quel “We didn’t come for money”, sulle note di “Royal”, suona sempre più debole.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

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