giovedi` 25 aprile 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
19.10.2017 Tradimenti e rappresaglie: Kurdistan in pericolo
Commenti di Daniele Raineri, Adriano Sofri

Testata: Il Foglio
Data: 19 ottobre 2017
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Adriano Sofri
Titolo: «Islamisti siriani, indipendentisti curdi, separatisti catalani, il vizio geopolitico dell’azione senza calcolare prima le mosse - In Kurdistan è il tempo delle vendette, fra tradimenti e rappresaglie»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 19/10/2017, a pag. 1, con il titolo "Islamisti siriani, indipendentisti curdi, separatisti catalani, il vizio geopolitico dell’azione senza calcolare prima le mosse", l'analisi di Daniele Raineri; con il titolo "In Kurdistan è il tempo delle vendette, fra tradimenti e rappresaglie", il commento di Adriano Sofri.

A destra: un soldato peshmerga

Ecco gli articoli:

Daniele Raineri: "Islamisti siriani, indipendentisti curdi, separatisti catalani, il vizio geopolitico dell’azione senza calcolare prima le mosse"

Risultati immagini per Daniele Raineri
Daniele Raineri

Roma. Che cosa lega Idlib, Erbil e Barcellona? La prima città è la roccaforte dell’opposizione estremista al regime siriano, la seconda è la capitale del Kurdistan iracheno e la terza è la città più importante della Catalogna. Sono tutte e tre luoghi dell’irrealtà, dove per qualche motivo che all’esterno viene difficile capire si è deciso di fare i conti senza tenere in considerazione le condizioni strutturali – contro cui prima o poi si va a sbattere la faccia. Idlib è una città del nord della Siria che guida il pezzo di territorio più ampio rimasto ancora fuori dal controllo di Bashar el Assad (eccezion fatta per le aree curde, ma quelle sono un’altra storia). Il fatto è che le condizioni sono diverse dal 2012, quando il regime falciava a colpi di mitra le proteste e la comunità internazionale tifava per la deposizione di Assad. I gruppi islamisti più duri (non lo Stato islamico che perde a Raqqa, dall’altra parte del paese: altri gruppi riuniti sotto un ombrello, come si dice in questi casi, che si fa chiamare Movimento per la rivoluzione nel Levante) sono da tempo diventati dominanti negli stessi luoghi dove anni fa comandavano i gruppi nazionalisti. Sono fazioni che negli anni scorsi proclamavano fedeltà ad al Qaida.

 

 

Ora, se avevi cominciato una rivoluzione e sei finito all’angolo nel nord della Siria e hai ovviamente bisogno di aiuto e appoggi da fuori, allora perché associ quel che rimane della tua rivoluzione al marchio più velenoso (alla pari con lo Stato islamico) del mondo, al Qaida? A quello stesso marchio che milioni di viaggiatori in coda in migliaia di aeroporti in tutto il mondo associano agli attentati e all’estremismo islamico? Perché hai una ignoranza quasi suicida del mondo. Sfidi condizioni strutturali senza pensare a cosa succederà, è l’equivalente geopolitico di lanciarsi contro un muro. A Erbil in questo momento stanno facendo i conti con la perdita secca del 40 per cento dei profitti da greggio, perché l’esercito iracheno ha preso i pozzi più importanti. Già i calcoli degli indipendentisti non tornavano prima, ora che razza di Kurdistan separato sarebbe? Attorniato da nemici e senza risorse. Si spera in un negoziato con il governo di Baghdad, ma la speranza nel 2017 non dovrebbe più essere il faro guida delle decisioni cruciali. I curdi hanno ignorato una processione di diplomatici internazionali che consigliavano loro di non andare avanti con il referendum, ora sono in mezzo a una crisi durissima.

 

A Barcellona, dove la situazione è ovviamente meno tesa che in Siria e Iraq, c’è stato un approccio simile: prima lanciamoci a testa bassa, poi si vedrà. Va bene se la polizia segreta del tuo governo ti opprime, ti sta dando la caccia e soffoca nel sangue le tue proteste, ma va meno bene se abiti in una delle regioni più ricche di Spagna e i tuoi cittadini hanno come problema principale l’invadenza del turismo di massa. Voti per la separazione, poi guardi le banche e le aziende scappare a gambe levate verso l’Europa, verso il resto del mercato, verso il resto del continente da cui ti vuoi staccare. E fierezza e idealismo? Che fine fanno gli impulsi che hanno mosso molti capitoli di storia, nobili e meno nobili, se si calcola già in partenza come andrà a finire? La prima qualità discreta dell’idealismo costruttivo dovrebbe essere non farti finire in un cul de sac. Siate semplici come colombi e astuti come serpenti dice il Vangelo, un testo idealista che non è stato scritto da Henry Kissinger.

Adriano Sofri: "In Kurdistan è il tempo delle vendette, fra tradimenti e rappresaglie"

Immagine correlata
Adriano Sofri

Immagine correlata

A Kirkuk molti curdi (e gli arabi sunniti, i più spaventati) hanno ricominciato ieri a fare fagotto. In città spadroneggiano i miliziani Hashd al Shaabi, facendo vendetta, nel più fortunato dei casi ingiuriando i curdi – “Erava - te i vincitori di Daesh, promettevate di resistere fino alla morte: siete scappati come topi…” – nel peggiore conducendo una “indagine” sbrigativa sui loro precedenti, le affiliazioni di partito, le dichiarazioni… Non c’è curdo che non abbia proclamato i propri sentimenti e propositi su Facebook ogni giorno di questi anni, senza alcuna remora. Quelli che temono le rappresaglie per sé e i propri cari sanno anche che partire significa che un’ora dopo la loro casa sarà occupata e le loro cose violate. Succede anche – perché tutto succede in momenti come questi – che curdi del Puk guidino i nuovi padroni alla caccia di curdi del Pdk. E’ successo ieri del resto che la concordia oltraggiosa fra i nuovi arrivati e gli Asaish, la sicurezza curda del Puk rientrata in città, si sia già incrinata di fronte all’ordine di spogliarsi di ogni autorità salvo arruolarsi dentro le forze di polizia regolari irachene.

“L’accordo non era questo”, protestano i curdi, così confessando l’accordo che c’era. Ieri pomeriggio hanno garantito di aver ottenuto da Abadi il ritiro delle milizie sciite da Kirkuk. A Suleymanyah, dove si è diretta una parte dei nuovi fuggiaschi – migliaia, secondo lo scontato allarme dell’Onu; l’altra parte è andata a Erbil – i curdi di Tuz Khurmathu hanno manifestato ieri davanti alla sede del Puk. Avevano avuto dei morti fin dalla notte di domenica, e le case saccheggiate o sequestrate dagli Ashd al Shaabi. Tradimento, è la parola che da allora corre dovunque, sospinta dai goffi sforzi di addebitarsela reciprocamente. L’Ufficio politico del Puk era convocato ieri pomeriggio a Suleymanyah, in assenza deliberata del suo membro anziano più eminente, Ali Rasul Kosrat. Il quale ha reso pubblica la sua durissima denuncia di “persone immature” – in cui tutti hanno letto i nomi dei “giovani” Talabani – che hanno voluto “entrare nella storia dalla porta della vergogna” e hanno venduto gli ideali del partito. “Una nuova Anfal”, l’ha chiamata Kosrat, col nome infame della campagna genocida di Saddam Hussein e Ali “il Chimico” culminata nel 1988, che costò ai curdi decine di migliaia di vite.

“La nazione curda ha fronteggiato il più barbaro gruppo terrorista (l’Isis) per tre anni e ha fermato i suoi piani ripugnanti in nome di tutta l’umanità amante della pace”. Il vecchio leone ferito ha denunciato una comunità internazionale che ha abbandonato alla brutalità i curdi. “La nostra nazione non ha altri amici che la montagna”: e lui sa di che cosa parla. Kosrat incita a una resistenza che ha superato prove anche peggiori, ma il suo tono è quello di un veterano fiducioso appena ieri che la sua generazione avrebbe lasciato in eredità un primo Kurdistan indipendente, e ora rinvia alle generazioni che verranno la rinascita da una vergogna peggiore delle sconfitte. Le forze di Kosrat, le più decise a osservare l’impegno a battersi per Kirkuk, avevano ripiegato dopo aver perso alcuni dei loro uomini, compresi due peshmerga padre e figlio, quando era stato chiaro che non ci sarebbe stata resistenza da parte dei loro commilitoni, specialmente il grosso di quella “Forza 70” dotata degli armamenti più pesanti.

Nomi e facce delle decine di morti tra notte di domenica e lunedì sono pubblicati solo disordinatamente sui social. Ieri si è saputo che martedì il tranquillo passaggio di consegne fra iracheni e curdi alla diga di Mosul (in cui vivono e lavorano circa 700 italiani militari e civili) era stato preceduto da un attacco di Hashd al Shaabi, che ufficialmente non avrebbero dovuto prendervi parte. I peshmerga l’hanno respinto perdendo un uomo e uccidendone sette. Fra questi un pezzo grosso della milizia sciita, Ahmed Obeidi, braccio destro del capo della loro intelligenza, Abu Yasir. In un contesto di menzogne e viltà spicca l’impudenza dei portavoce americani, che per giunta parlano in nome della “coalizione” (73 componenti!): ieri, ribadendo che l’offensiva iracheno-iraniana era stata “una ordinata operazione consensuale”, hanno dichiarato di non avere alcuna prova delle voci sulla presenza di Ashd al Shaabi e tanto meno di iraniani. Non c’erano, ma sono riusciti ad ammazzare e farsi ammazzare, e ora diffondono propri video smargiassi girati nel governatorato di Kirkuk col ritratto di Khamenei.

Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT