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Il Foglio Rassegna Stampa
08.06.2017 Usa e Iran, storia recente e prospettive in uno scenario che cambia
Analisi di Daniele Raineri, Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 08 giugno 2017
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Paola Peduzzi
Titolo: «La guerra Iran-America diventa molto reale in un angolo sperduto della Siria - Un vicino è per sempre, dice Teheran mentre prende le misure al boicottaggio del Qatar - Quel mastino della Cia che dice tutto della strategia di Trump per isolare l’Iran»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/06/2017, a pag. I, con il titolo "La guerra Iran-America diventa molto reale in un angolo sperduto della Siria" l'analisi di Daniele Raineri, con i titoli "Un vicino è per sempre, dice Teheran mentre prende le misure al boicottaggio del Qatar", "Quel mastino della Cia che dice tutto della strategia di Trump per isolare l’Iran", due analisi di Paola Peduzzi.

Ecco gli articoli:

 

Daniele Raineri: "La guerra Iran-America diventa molto reale in un angolo sperduto della Siria"

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Daniele Raineri

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Donald Trump durante la campagna elettorale dello scorso anno ha sostenuto la necessità di rivedere gli accordi con l'Iran

Roma. E dire che le forze assadiste in Siria sono vincolate dal principio militare della coperta troppo corta, quindi non possono impegnare i nemici su tutti i fronti perché non hanno forze bastanti, pur considerando la presenza degli alleati iraniani, iracheni, ceceni, libanesi, pachistani e afghani. Quindi se si sbilanciano troppo da una parte, sono costretti a scoprirsi dall’altra. Eppure, in questi giorni hanno preso di mira il valico di al Tanf, al confine con l’Iraq. Si tratta di un sito che prima della guerra era insignificante, un posto di frontiera in mezzo al deserto orientale nella zona più depressa del paese. Ma oggi ospita la base di un gruppo di ribelli anti Assad che si fa chiamare Maghawir al Thawra, i commandos della rivoluzione, e che in realtà non ha mai sparato un colpo contro gli assadisti, perché è stato creato dagli americani per dare la caccia allo Stato islamico, che nella zona è presentissimo, perché attraversa di continuo il confine fra Siria e Iraq. Non soltanto ospita i ribelli, ma anche forze speciali americane che sono lì per addestrarli e per aiutarli nella lotta allo Stato islamico.

Logico che diventassero il bersaglio ghiotto delle forze filoiraniane e assadiste, che al contrario di quelle russe non si sentono legate dagli accordi di cosiddetta deconfliction (ovvero quegli accordi per cui militari russi e americani in Siria fanno finta di ignorarsi). Hanno già provato ad avvicinarsi una volta il mese scorso, fino a costringere gli aerei americani a intervenire e a bombardare un convoglio: è stata la seconda volta del Pentagono di Trump contro i miliziani del governo siriano – o comunque che stanno dalla parte del governo siriano, anche se sono stranieri – dopo la cinquantina di missili caduti su una base assadista il 7 aprile, come punizione per un massacro di civili fatto con armi chimiche vicino Idlib. Ieri c’è stato il terzo raid aereo, di nuovo nella zona di al Tanf e di nuovo per dissuadere le forze iraniano-assadiste dall’attaccare la base. Nei giorni precedenti i jet avevano sganciato sui convogli armati in avvicinamento una pioggia innocua di volantini in arabo per spiegare che dovevano fare marcia indietro e uscire dalla zona di deconfliction. Ma quelli hanno ignorato i volantini e gli americani hanno usato le bombe. E’ chiaro che da una parte e dall’altra non c’è volontà di cedere il territorio all’altro: il Pentagono non vuole essere trattato come la parte perdente, gli assadisti sono in cerca del casus belli imbarazzante: sarebbe quasi uno scontro diretto tra Amministrazione Trump e Iran, e quest’Amministrazione non si è dimostrata in grado di navigare crisi geopolitiche con serenità.

Eppure gli assadisti avrebbero molti altri punti in cui combattere. Per esempio la città di Deir Ezzor, piena di civili e assediata dallo Stato islamico: è l’unico punto della Siria dove l’Isis di fatto avanza e rosicchia ogni giorno nuove posizioni, ci vorrebbe un intervento d’emergenza con rinforzi freschi, non l’insistenza su al Tanf. Un altro esempio: è appena cominciata la battaglia per riprendere Raqqa, ex capitale di fatto dello Stato islamico, ma governo siriano e milizie alleate non muoveranno un dito. Il corso degli eventi sembra invece seguire un disegno maligno: aprire situazioni di crisi, in modo da complicare le cose e creare un contesto in cui il disimpegno sembra la sola soluzione praticabile. Ieri il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che considera i raid aerei americani un’aggressione contro uno stato sovrano. Il Pentagono ha detto che che l’intervento dei jet è stato necessario per proteggere i partner locali ben dentro una zona di deconfliction, ma il ministro russo ha finto di non conoscere il termine “deconfliction”: qualsiasi arrangiamento deciso senza il consenso del governo di Damasco è da considerarsi illegittimo. Gli americani sono a corto di opzioni. Se abbandonano i loro alleati locali, è uno smacco cocente. Se non lo fanno, rischiano un’escalation di guerra in una zona dove non ne hanno bisogno. Dopo essere stati alla testa delle campagne anti Stato islamico, a Mosul e a Raqqa, entrambe non ancora concluse ma a buon punto, c’è la possibilità che gli americani siano buttati fuori senza troppi complimenti.

Paola Peduzzi: "Un vicino è per sempre, dice Teheran mentre prende le misure al boicottaggio del Qatar"

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Paola Peduzzi

Milano. Un vicino è per sempre, non si può cambiare la geografia, ha twittato negli scorsi giorni il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, commentando la decisione dei paesi del Golfo di isolare diplomaticamente il Qatar: la “coercizione” non porterà ad alcuna soluzione, ha aggiunto il capo della diplomazia di Teheran, provando così a stabilire una linea di condotta cui adattarsi mentre si controllano a vista le mosse dell’America di Donald Trump. Un vicino è per sempre, ma tutto a un tratto la convivenza è insopportabile e la crisi con il Qatar ha fatto emergere i dettagli di una guerra che va avanti da tempo e diventa ogni giorno più aspra: aree di influenza, scontro religioso, gruppi armati sul campo. Non manca nulla a questo conflitto, ed è per questo che molti esperti – allarmisti certo, ma in questa regione si sa che è un attimo e tutto precipita – parlano di “grande guerra” imminente, con la Turchia che manda le truppe a sostegno del Qatar, mentre gli iraniani osservano e predono le misure. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca è cambiato tutto e nel caos strategico-ideologico che regna a Washington l’unica costante riguarda proprio Teheran, e il capovolgimento dell’approccio di appeasement portato avanti con solerzia dall’Amministrazione Obama e dagli europei. Il Qatar era cruciale allora, è terra di negoziati (anche con i talebani), di rifugio (di molti leader di gruppi terroristici), di compromessi (c’è una base militare americana fondamentale), ma è chiaro che il suo progressivo isolamento è il cardine del “corso saudita” voluto e rivendicato a colpi orgogliosi di tweetstorm da Trump (il suo segretario di stato Tillerson, il Pentagono e finanche l’ambasciatore americano a Doha non condividono tutto questo orgoglio e dicono che bisogna andare cauti, ma questa è un’altra storia). Un vicino è per sempre ma anche per Teheran gestire il Qatar è un gioco da equilibristi.

La mano saudita è evidente e anzi molti giornali e commentatori iraniani hanno ricamato sul piano di guerra anti iraniano di Riad, ricordando episodi non proprio recenti e tracciando un filo rosso che li unisce tutti per denunciare “il grande fratello” saudita che non vuole ammettere di aver perso il suo potere assoluto sul Qatar e sulla regione. Alle spalle si può sempre trovare una teoria del complotto convincente, ma guardare avanti è più complicato. La linea ufficiale è quella di non schierarsi troppo con il Qatar, di simpatizzare con l’escluso ma allo stesso tempo di non unirsi troppo a esso: ognuno ha la propria battaglia da combattere, si può camminare a braccetto per qualche tratto, ma senza dimenticare che spesso anche il Qatar, soprattutto in terra siriana (che è l’origine di questo accavallarsi di crisi e di intrighi), non ha tutelato, per usare un eufemismo, gli interessi iranian-assadisti. Qassem Mohebali, ex capo del desk medio oriente al ministero degli Esteri iraniano, ha detto: “Il Qatar ha partecipato a un piano e a un gioco che hanno messo in pericolo la sicurezza e gli interessi dell’Iran in Siria e Iraq. Non è un paese innocente, e non dovremmo prendere le sue parti. Dovremmo anzi sottolineare che il Qatar sostiene il terrorismo”. Sul tema “chi sostiene il terrorismo” è bene non avventurarsi, è chiaro che non è questo il discrimine, soltanto Trump, che ieri ha anche chiamato l’emiro del Qatar, può mettere un punto esclamativo alla fine della sua tirata contro il Qatar immaginando “l’inizio della fine dell’orrore del terrorismo” perché ha scelto di schierarsi con i sauditi (i sauditi!) contro l’Iran, ma sull’in - nocenza del Qatar Teheran prova a non tormentarsi troppo.

Al netto della condanna della “sword dance” di Trump con Riad, arrivata secca dall’entourage del presidente Hassan Rohani, i pragmatici cercano di guadagnare dalla crisi. Il Qatar è piccolo ma prospero, e con il boicottaggio dei voli l’unico modo per raggiungere Doha è passare per l’Iran: approfittiamone, e stringiamo l’emirato in un abbraccio economico, che è quello che i 30 mila iraniani che vivono lì hanno già fatto. Poiché la geopolitica è diventata una corsa a riempire i vuoti – sì, alcuni restano incolmabili – Teheran pensa a riempire quello dei paesi del Golfo ostili boicottatori, provando a guadagnare qualcosa da questo affronto che assume i contorni di un atto di guerra: l’inflazione rischia di tornare a due cifre, ha ammesso la Banca centrale iraniana, e il processo di isolamento dopo l’accoglienza obamiana è soltanto all’inizio. Meglio un amico in più, tanto comunque nessuno è innocente.

Paola Peduzzi: "Quel mastino della Cia che dice tutto della strategia di Trump per isolare l’Iran"

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Milano. La Cia ha istituito un ufficio specializzato esclusivamente nel raccogliere e analizzare informazioni d’intelli - gence sull’Iran, “che riflette la volontà dell’Amministrazione Trump di rendere la Repubblica islamica il target prioritario delle spie americane”, ha scritto il Wall Street Journal. L’Iran Mission Center arriva dopo l’annuncio del centro gemello, che si occupa di Corea del nord, per sottolineare che su questi due paesi si concentrerà l’azione di intelligence dell’America trumpiana. Ma se su Pyongyang la strategia è già da tempo claudicante e in fase di revisione, con Teheran si tratta di un cambio di passo deciso rispetto al passato che era stato caratterizzato da un lungo negoziato sfociato nell’accordo sul nucleare, che ha tolto l’Iran dal suo storico isolamento internazionale. Il direttore della Cia, Mike Pompeo, è considerato un falco sull’Iran e nel suo primo intervento pubblico dalla nomina, nell’aprile scorso, aveva sottolineato che la Repubblica islamica è “in marcia”. L’elenco delle “trasgressioni” dell’Iran è sempre più lungo, aveva detto Pompeo, c’è Hezbollah che trasporta sistemi missilistici vicino al confine di Israele, ci sono le brigate sciite che si rafforzano a Mosul, e intanto c’è un sostanziale buio su quel che davvero il regime sta facendo con il suo programma nucleare. Faremo in modo che sia fatta luce, aveva specificato il direttore, lasciando intendere che ci sarebbe stato un investimento preciso su questo fronte: è così che la questione iraniana è stata spostata da quella che all’in - terno della Cia chiamano la “Persian House”, che sta gerarchicamente sotto a una divisione che si occupa anche di altri dossier, per diventare autonoma e operativa. A capo di questo centro è stato nominato Michael D’Andrea, ex capo del centro di controterrorismo della Cia, meglio noto come “Dark Prince” o “Ayatollah Mike”, l’uomo che ha gestito la caccia a Osama bin Laden e la campagna dei droni contro gli islamisti di mezzo mondo.

Nessuno quanto lui, ha scritto il New York Times, può essere considerato l’artefice dell’indebolimento di al Qaida negli anni, ma il suo coinvolgimento nelle attività della Cia non è certo limitato a questo: ogni misura antiterrorismo, compresi gli interrogatori “rafforzati” e le rendition, ha avuto la sua supervisione. Ora tocca all’Iran, che nelle parole di Trump è “lo stato terroristico numero uno”, e molti esperti di intelligence spiegano che la nomina di D’Andrea è il dato più concreto del cambiamento in corso nei confronti di Teheran – c’è chi la chiama già guerra. Fumatore incallito, convertito all’islam per amore (ma non ci sono tappetini per la preghiera in ufficio, garantiscono i colleghi), D’Andrea deve raccogliere tutte le informazioni necessarie per contenere l’avanzata militare, tecnologica (cyberattacchi) e nucleare di Teheran, perché come dice Pompeo “gli iraniani sono molto bravi a tradire”. Lo scetticismo nei confronti della buona volontà dell’Iran almeno sul programma atomico è uno dei pochi collanti nel team di politica estera dell’Amministrazione Trump, riguarda tutti, dal dipartimento di stato al Pentagono alla Sicurezza nazionale, un unicum nella turbolenta organizzazione trumpiana.

Gli obamiani, che a quel deal lavorarono con assoluta dedizione, dicono – come ha fatto due giorni fa l’ex segretario di stato John Kerry – che la fissazione ostile di Trump non è sufficiente per distruggere un accordo tanto elaborato e condiviso, ma la politica delle sanzioni “potrebbe mandare un messaggio negativo” al popolo iraniano che potrebbe convincersi del fatto che non c’è alcun guadagno dall’accordo. Con tutta probabilità il popolo iraniano si sta già facendo un’idea di quel che l’apertura comporta – pochi guadagni al momento – indipendentemente dalle preoccupazioni tardive degli obamiani, ma il Congresso sta votando in questi giorni un nuovo piano di sanzioni contro Teheran – non riguardano il programma nucleare, ma i test missilistici che, a ripetizione, il regime di Teheran mette a punto. Il dossier delle sanzioni all’Iran è forse l’unico punto di contatto rimasto tra i parlamentari democratici e repubblicani, ed è probabile che quindi proceda senza gli ormai consueti scossoni e ribaltamenti della stagione trumpiana.

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