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Il Foglio Rassegna Stampa
07.04.2017 Il tempo degli addii: 'Il tuo nome è una promessa', di Anilda Ibrahimi
Recensione di Nadia Terranova

Testata: Il Foglio
Data: 07 aprile 2017
Pagina: 1
Autore: Nadia Terranova
Titolo: «Il tempo degli addii»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/04/2017, a pag. I, con il titolo "Il tempo degli addii", la recensione di Nadia Terranova.

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Nadia Terranova

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La copertina (Einaudi ed.)

C’è una sequenza, poco dopo l’inizio del nuovo, atteso romanzo di Anilda Ibrahimi, “Il tuo nome è una promessa” (Einaudi), in cui tutti i personaggi, nello stesso momento, scoprono la dolcezza dell’amore e, insieme, la sofferenza silenziosa per un dolore rimosso, mentre diventano genitori o nonni e ricordano il modo in cui sono stati figli e fratelli. In quell’imbuto la narrazione scorre velocissima e chi legge deve rallentare e fermarsi sui dettagli per capire l’origine e il destino della famiglia raccontata, una famiglia scissa fra l’Europa e l’America, amputata dal nazismo e dalla persecuzione, le cui vicende si incrociano con quelle della storia dei Balcani. “Rebecca voleva tanti figli, così tanti che sarebbero stati costretti a cambiare la macchina ogni anno”, dice la narratrice a proposito della protagonista, una donna arrivata in Albania dall’America, in fuga da un matrimonio usurato. Prima, Rebecca Cohen aveva amato un uomo che l’aveva amata male, aveva sofferto senza capire fino in fondo, si era sentita dare della malata quando aveva bisogno di qualcuno che si fermasse ad ascoltarla. Poi aveva incontrato Thomas, gentile e pronto a sposarla senza chiedere nulla, perché la sicurezza di stare per tutta la vita con la stessa persona si ha e basta, e insieme a lui si era sentita finalmente serena, incastonata in un ruolo e in una sorte limpida.

Certo, Thomas era stato figlio unico e non sapeva nulla del rumore che fanno tanti bambini insieme, delle mani sporche di succo di frutta che imbrattano una casa, quando era piccolo i suoi fratelli erano i soldatini con cui giocava per ore da solo, e anche se morivano o cadevano la mattina dopo erano pronti a rialzarsi e ricominciare, ma per la moglie “Thomas era pronto a mettere in cantiere un esercito di bambini”. Le gravidanze di Rebecca però sono difficili, dolorose, e quando nasce l’unica figlia lui è così felice che la porta come un trofeo davanti alla madre di Rebecca: “Abigail, ti presento tua nonna!”. Esther, sentendo quel nome, rimane paralizzata: così si chiamava sua sorella, che i nazisti hanno deportato a Dachau. Impossibile: Esther il nome della nipote proprio non riesce a pronunciarlo. Per fortuna i genitori gliene hanno dato anche un altro: Sarah. Da quel momento, il secondo nome della bambina non verrà più detto da nessuno. C’è una scena lenta e penosa, verso la fine del libro, in cui Sarah Abigail, ormai cinquenne, non ha nessun fratello ma ha ottenuto un amico anatroccolo (“si chiama germano reale”, precisa il padre).

I genitori provano invano a convincerla a lasciarlo al lago di Central Park perché sia libero di sguazzare insieme ai suoi simili piuttosto che annaspare da solo nella vasca da bagno, ma sia la bambina che l’animale non vogliono saperne, ogni tanto vanno al parco a fare una passeggiata, lui nuota un po’ e poi torna sempre da lei. Un giorno, però, quando Sarah fa per andarsene l’anatroccolo non si muove, non si gira più neanche quando lo chiama ripetutamente. La bambina torna a casa rassegnata. Anilda Ibrahimi, scrittrice che sa evocare senza spiegare, sintetizza in quella scena il senso del libro: ogni nido è una palestra per la solitudine e qualche volta per un nuovo nido, i legami che si vorrebbero fissare per sempre fuggono da qualsiasi obbligo, incuranti del confine fra fuga e ritorno. L’anatroccolo scappa o rimpatria, e forse è la stessa cosa, come accade a Rebecca quando atterra a Tirana, in una nazione sconosciuta di cui ha però un’oscura, fortissima memoria familiare. “Il tuo nome è una promessa”è un romanzo di madri e di figlie che per quattro generazioni attraversano quasi un secolo: nonna Rachel, Ruth (madre di Esther e di Abigail), Rebecca (figlia di Esther), e infine Sarah Abigail, la bambina che porta la Storia nel nome. Il legame fra queste donne diverse, molto più del sangue e della discendenza, è geografico: per tutte l’Albania è un paese straniero e insieme il luogo dell’accoglienza ospitale, dell’ultimo rifugio possibile.

L’Albania le accoglie quando bisogna scappare dalla Germania nazista e poi di nuovo quando ci si sottrae al crollo di un matrimonio americano perfetto. Intanto, mentre gli anni passano, dietro le storie che le madri nascondono alle figlie si schiudono vite che scivolano nelle parole non dette, nei litigi mai del tutto esplosi e nella distanza che è sempre, insieme, strappo e ricucitura. La magia di questo romanzo consiste nel rendere contemporanee tutte le vicende che racconta, liberandole dal velo del passato e illuminando i ricordi in cantina con una luce insistente, ostinata. Le protagoniste di Anilda Ibrahimi le vediamo bambine tutte insieme: Sarah che gioca davanti al lago potrebbe essere contemporanea di sua nonna Esther che litiga con la sorella Abigail davanti al fiume per riuscire ad afferrare un pesce, poco prima che i tedeschi bussino alla porta e l’infanzia finisca. E le vediamo donne tutte insieme, a segmenti temporali alternati, mentre amano, litigano, scappano e qualche volta si ritrovano, sapendo aspettare che finisca o ricominci l’indefinito tempo degli addii.

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