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Il Foglio Rassegna Stampa
28.02.2017 Ricomporre l'anima ebraica in Israele
Antonio Donno legge Aharon Appelfeld

Testata: Il Foglio
Data: 28 febbraio 2017
Pagina: 2
Autore: Antonio Donno
Titolo: «La Shoah ricompose l'anima ebraica dopo l'illusione dell'assimilazione»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 28/02/2017, a pag.2, con il titolo "La Shoah ricompose l'anima ebraica dopo l'illusione dell'assimilazione" il commento di Antonio Donno

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Antonio Donno                         Aharon Appelfeld

I profughi della Shoah vagarono a lungo in Europa, sperduti e, nello stesso tempo, desiderosi di trovare un luogo di approdo definitivo, ma "secondo me - scrive Aharon Appelfeld in Oltre la disperazione (Guanda) - un altro punto fece da catalizzatore per quei sentimenti contrastanti in cerca di armonia e, se volete, di sollievo: la terra d'Israele. l...l Soltanto della Palestina la gente parlava in un tono che ricordava la fede". Molto spesso i sopravvissuti avevano perso la fede, perché la loro invocazione "Ascolta Israele", che avevano lanciato al cielo mentre erano in fila per entrare nelle camere a gas, non era stata ascoltata. Era il dramma esistenziale di un popolo che aveva subito "la devastazione dell'identità", compresa quella religiosa. Ora, però, per molti, la terra di Israele era il ritorno alla fede, all'antica tribù. L'ultimo romanzo di Appelfeld, Il partigiano Edmond (Guanda)- anticipato lo scorso gennaio dal Foglio - descrive la vita di una piccola parte della tribù d'Israele che si isola sulle montagne polacche e sopravvive alla deportazione. Uomini validi, bambini, donne, vecchi, malati, compongono tutti un microcosmo della tribù d'Israele: "Il nostro patto non può sciogliersi. Siamo legati da una fratellanza pietosa". La loro volontà è saldissima, il loro progetto è chiaro: "Non si può combattere un nemico così determinato senza amore verso la tribù, il suo Dio e le sue credenze". Il ritorno alla fede si traduce nella volontà di salire sempre più in alto, per sfuggire al nemico, ma soprattutto per sentirsi sempre più vicini a Dio. Raggiunta la vetta, si è compiuta l'aliyah, l'ascesa lungo la montagna polacca in cui si erano rifugiati, ma che per loro rappresenta il monte Sion, la salvezza per la piccola tribù, la meta ultima della loro fede, una sorta di ricomposizione del popolo ebraico in una terra che gli è ostile: quasi una sfida a chi odia gli ebrei e la dimostrazione che il popolo ebraico vivrà, a dispetto di tutti i suoi nemici. Arriverà, infine, l'Armata Rossa, pensavano. che ci ripagherà di tutte le sofferenze patite e ci darà la possibilità di ricostituire la nostra tribù, quel che resta del popolo ebraico. Illusione. La speranza diventa certezza per la piccola tribù di Israele: "Saremo sempre insieme, tutti coloro che sono stati sulla vetta la porteranno con sé ovunque. Porteranno con sé i vivi e quelli che sono spirati. E...] Senza paura, stare insieme è come essere in una fortezza".
E' ciò che Appelfeld sostiene in Oltre la disperazione: "Siamo abituati a pensare che la Seconda guerra mondiale abbia spento le ultime scintille di fede ebraica. Non è cosi. Come ogni eruzione vulcanica, la Shoah ha fatto emergere strati profondi". Lo dice lo stesso Edmond: "La Torah e l'amore ci tengono insieme qui e là". E Kamil, il capo del gruppo: "Siamo un'anima sola e dobbiamo custodirla". La Shoah ha ricomposto l'anima ebraica, dopo le illusioni dell'assimilazione nel mondo dei gentili. Gli ebrei sopravvissuti dovettero sostenere non solo l'orrore di ciò che avevano vissuto durante la Shoah, ma soprattutto il crollo di tutte le speranze di assimilazione in un mondo normale in cui avevano creduto negli anni Venti e Trenta. Dopo la Shoah, scrive Appelfeld in Oltre la disperazione, "la storia ebraica si è stagliata davanti a noi nella sua forma più distillata, faccia e faccia", senza possibilità di equivoci, senza doppiezze. E così, dopo l'orrore e la perdita, "in Palestina in quegli anni noi cercavamo piuttosto il senso della vita dopo la morte". La rinascita. Il tempo della "goffaggine" (Appelfeld) con la quale gli ebrei avevano aspirato all'assimilazione era definitivamente scaduto.

 Su questo tragico argomento l'analisi di Appelfeld collima con quella di Hannah Arendt, che in L'ebreo come paria (1944) - ora pubblicato nella sua forma integrale dalla Giuntina - stigmatizza il rifiuto di sé che caratterizzò la storia degli ebrei dell'Europa centrale, con esiti catastrofici. Scrive Arendt: "Come individui, essi iniziarono un'emancipazione di sé, dei propri cuori e cervelli. Una tale concezione era, naturalmente, un grossolano fraintendimento di quanto s'intendeva che sarebbe stata l'assimilazione".
Così, popolo paria, quegli ebrei intesero affrancarsi dal proprio ebraismo, rinunciarono a essere inseriti nei vari contesti in quanto ebrei, "anziché scimmiottare i gentili o giocare al parvenu". Lo stesso concetto è espresso da Appelfeld come un'accusa: quegli ebrei "volevano forse che continuassimo a tessere la trama della negazione, a occultare le tracce dell'identità, si che nessuno sapesse più chi e che cosa era?". Per Appelfeld il rifiuto della negazione di sé è stato Israele, ma non per Arendt.

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