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Il Foglio Rassegna Stampa
01.07.2015 I 'lupi solitari' non sono solitari per niente: è l'islamismo che li genera
Commento di Mauro Zanon, che presenta la ricerca del giornalista Alex Jordanov

Testata: Il Foglio
Data: 01 luglio 2015
Pagina: 2
Autore: Mauro Zanon
Titolo: «Ma quale lupo solitario, il jihadista Merah aveva complici e appoggi»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 01/07/2015, a pag. 2, con il titolo "Ma quale lupo solitario, il jihadista Merah aveva complici e appoggi", il commento di Mauro Zanon.

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Mauro Zanon


I "lupi solitari" sono davvero tanto solitari? Oppure traggono linfa dall'islamismo?

No, Mohammed Merah non era un semplice lupo solitario che all’improvviso avevo dato di matto e ucciso in un climax di violenza sette persone a Tolosa e Montauban nel marzo del 2012, tra cui tre bambini all’ingresso di una scuola ebraica. Sì, François Molins, l’allora procuratore di Parigi, si sbagliò clamorosamente quando parlò di “autoradicalizzazione di un salafita dal profilo atipico”. Alex Jordanov, giornalista investigativo e documentarista esperto di islamismo, sferza il colpo finale alla versione della polizia francese su Merah jihadista fai-da-te, mettendo a nudo le falle dell’intelligence dell’Esagono in un libro- inchiesta appena pubblicato e intitolato “Merah: l’itinéraire secret” (Nouveau Monde éditions). Lo stragista di origine algerina “non era un solitario ma il membro attivo di un immenso club islamico, una sorta di servizio con carta fedeltà, dove ogni membro lo aiutava”, afferma Jordanov. Altro che il “lupo solitario” di cui parlava “lo squalo di Sarkozy”, il prefetto Bernard Squarcini.

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Mohammed Merah

Il profilo di Merah era quello di un vero insider del jihad, di un giovane che aveva seguito un percorso solido di radicalizzazione, tra Siria, Iraq e Pakistan, di uno stimato salafita che faceva parte di una vasta rete operativa tra Tolosa, Spagna e Belgio, e che oggi è diventato il modello di una nuova “generazione jihadista”. Merah fu l’apripista, il pioniere della lunga lista che va da Mehdi Nemmouche, l’attentatore del museo ebraico di Bruxelles, a Yassine Salhi, l’autore dell’attacco alla centrale del gas Air Products di Saint-Quentin- Fallavier, e ora, scrive Jordanov nell’ultimo capitolo del libro dedicato alla figura postuma di Merah, è diventato un “idolo”: “Merah ha un posto d’onore nel pantheon del jihad mondiale (…). E’ l’idolo assoluto dei combattenti di Allah”.

L’itinerario segreto di Merah parte dalla sua infanzia, dettaglia la sue odissee segrete in terra di jihad, fa emergere il ruolo centrale della madre, instabile e squilibrata, nella sua virata criminale, ma soprattutto quello del fratello maggiore, Abdelkader, un salafita affascinato dai cadaveri, che prima di essere arrestato assieme alla compagna era un pezzo grosso della jihadosfera di Tolosa. I capitoli più interessanti e allo stesso drammatici sono però dedicati alle gravi responsabilità dei servizi segreti francesi nel non aver capito prima dell’irreversibile la pericolosità di Merah e nel non aver concentrato poi le loro attenzioni su una figura chiave come quella di Sabri Essid, fratellastro di Merah, che già nel 2006 era stato arrestato mentre tentava di raggiungere al Qaida in Iraq. Quest’ultimo, nel dossier d’istruzione, risulta incredibilmente assente, o meglio semplicemente catalogato come “partito in Siria”.

Lì dove, l’11 marzo 2015, anniversario della morte di Imad Ibn Ziaten, prima vittima di Merah, ha pubblicato il video dell’esecuzione di un ostaggio nel quale appare accanto a un giovanissimo jihadista. Quel video “è un omaggio alle stragi di Merah e uno sberleffo ai servizi segreti francesi”, ha detto Jordanov al quotidiano Dépêche. “Sabir Essid è il faro nella notte di Mohammed Merah (…). Con suo fratello, Merah era in una situazione di rivalità, non con Sabri Essid che per me conosceva i progetti degli attentati (…). Essid avrebbe dovuto essere fermato molto prima”. Sullo sfondo si stagliano le lentezze nell’avanzamento del dossier d’istruzione in questi ultimi tre anni, le incomprensioni, le invidie e le rivalità tra le varie sezioni dell’intelligence francese, la totale mancanza di comunicazione e collaborazione tra gli specialisti parigini dell’antiterrorismo e gli uomini sul posto a Tolosa, e la paura che il peggio debba ancora venire.

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