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Il Foglio Rassegna Stampa
12.12.2014 Assad ordinava attentati a Baghdad, adesso è assediato dall'Isis
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 12 dicembre 2014
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Assad fa rima con jihad»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/12/2014, a pag. I, con il titolo "Assad fa rima con jihad", l'analisi di Daniele Raineri.


Daniele Raineri   Bashar Al Assad        Abu Bakr Al Baghdadi


Baghdad dopo un sanguinoso attentato (2012)

Ieri il quotidiano britannico Guardian ha pubblicato un pezzo del suo corrispondente in Iraq, Martin Chulov, che racconta una storia importante: negli anni scorsi l’intelligence della Siria era alleata con lo Stato islamico in Iraq – sarebbe più esatto dire che tra loro c’era un rapporto come tra un gruppo sponsor, che gestisce e impartisce istruzioni, e un gruppo subordinato, che riceve gli aiuti e in cambio soddisfa lo sponsor. Le fonti principali nel pezzo di Chulov sono due. Una si fa chiamare “Abu Ahmed” ed è un comandante definito “senior” dello Stato islamico, il gruppo guidato da Abu Bakr al Baghdadi che sta combattendo una campagna violenta per imporre la creazione di un Califfato in medio oriente. Abu Ahmed ha alle spalle una decina di anni di jihad e in questo ultimo periodo sta vivendo un ripensamento, non è più d’accordo come un tempo con la visione assoluta del suo capo e con il letteralismo applicato al Corano – e per questo ha acconsentito alla pubblicazione delle discussioni durate due anni con il giornalista inglese (nota: Chulov in passato ha prodotto qualche inesattezza, ma trascorre molto del suo tempo sul campo tra Siria e Iraq). La seconda fonte è il generale Hussein Ali Kamal, un curdo che ha diretto l’intelligence del ministero dell’Interno iracheno dal 2009, era tollerato dagli sciiti al governo e si occupava in particolare della sicurezza della capitale Baghdad – un incarico che equivale a una sfida che si rinnova ogni giorno contro le incursioni, in arrivo o in fase di preparazione, dello Stato islamico. Entrambi, il comandante appartenente al gruppo di Baghdadi e il generale curdo – morto a giugno per un cancro, non prima di avere concesso a Chulov di pubblicare le informazioni: “Basta che scrivi la verità” – insistono da due punti di vista opposti sulla stessa informazione: i servizi segreti del governo del presidente siriano Bashar el Assad collaboravano con lo Stato islamico (che allora si chiamava ancora “Stato islamico in Iraq”). Damasco gestisce questa cooperazione con i jihadisti attraverso la sua intelligence militare. Nella primavera del 2009, dice Kamal, i servizi siriani organizzarono due incontri segreti tra alcuni comandanti dello Stato islamico, alcuni ex membri del partito Baath e, appunto, i supervisori siriani. Lo scopo delle due riunioni, tenute a Zabadani, poco lontano dalla capitale Damasco, è creare un’alleanza contro il governo del presidente iracheno Nouri al Maliki – sciita e appoggiato dagli americani. “Avevamo un infiltrato in quella stanza, con addosso un microfono – dice il generale dei servizi iracheni – era la fonte più importante che avevamo. Per quel che ne sapevamo, era la prima volta che si teneva un incontro del genere. Un punto di svolta nella storia. Dalle due riunioni parte l’idea di lanciare alcuni attentati spettacolari dentro Baghdad per indebolire il governo iracheno, che sta per la prima volta portando un po’ d’ordine sopra i tizzoni spenti della guerra civile. (Kamal è morto, ma esistono ancora le trascrizioni delle registrazioni segrete). In quell’anno lo Stato islamico sta passando attraverso un periodo di crisi organizzativa. I jihadisti sono stati presi in contropiede dalla rivolta dei clan sunniti due anni prima, il numero delle loro operazioni contro gli occupanti americani e contro il governo è sceso al minimo storico, non è più l’epoca sanguinaria di Abu Musab al Zarqawi, il padre carismatico del gruppo morto sotto un bombardamento americano tre anni prima. Il partito Baath iracheno è nelle stesse condizioni. Ufficiali e funzionari vedono davanti ai loro occhi lo scenario più temuto della loro vita: gli sciiti hanno preso il potere – per sempre? – grazie a un intervento straniero e li hanno cacciati da ogni posizione che conta. Una volta il Baath era la minoranza di ferro al potere, ora è una minoranza in fuga (perlopiù in Siria, che li accoglie a braccia aperte). Il leader storico del partito, Saddam Hussein, è morto, impiccato tra canti trionfali sciiti e la leggenda vuole che anche il primo ministro Maliki fosse sotto quel patibolo, con il viso nascosto da un passamontagna. Il governo del presidente Assad sfrutta questo risentimento parallelo del jihad e del Baath iracheno come fonte di energia per alimentare una politica estera decisamente anti governo iracheno e antiamericana. “Tutti i jihadisti stranieri che conosco – dice Abu Ahmed – sono entrati in Iraq nello stesso modo”: sono atterrati all’aeroporto di Damasco e sono stati scortati da ufficiali militari siriani fino al confine con l’Iraq. “Non era un segreto”. Il generale Kamal passa la maggior parte del suo tempo su quel dossier. A partire dal 2009, in una serie di interviste, presenta le prove dell’alleanza tra Assad e Stato islamico, incluse mappe che mostrano i punti di transito usati dai volontari stranieri per andare a combattere nell’Iraq occidentale passando dalla Siria e le confessioni che stabiliscono un collegamento tra quei viaggi e alcuni ufficiali dell’intelligence militare siriana ben identificati. Kamal passa il luglio di quell’anno a lavorare per bloccare gli attentati spettacolari che sa che arriveranno contro i palazzi delle istituzioni di Baghdad. Quando non lavora, corre su un tapis roulant e confessa a Chulov: “Sto perdendo peso, ma non riesco a trovare i terroristi. So che hanno fatto un piano per qualcosa di grosso”. La fonte infiltrata manda un messaggio al generale per dire che i jihadisti si sono accorti che la sorveglianza sui ponti sul Tigri è stata rafforzata e hanno scelto obiettivi nuovi, ma lui non sa dire quali. La mattina del 19 agosto tre camion cisterna, ciascuno equipaggiato con un serbatoio da 1.000 litri che non contiene acqua ma esplosivo, scoppiano nel giro di pochi minuti davanti al ministero delle Finanze, contro il ministero degli Esteri e contro un convoglio della polizia. E’ uno degli attentati più grandi in sei anni di guerriglia in Iraq – almeno 101 morti e 600 feriti. Il premier Maliki è livido per il fallimento, è un disastro annunciato e spedisce Kamal dai siriani con le prove del loro coinvolgimento. “Arrangiammo un incontro ad Ankara, in Turchia. Ho portato questo dossier – batte con il dito su una cartellina spessa e bianca che tiene sulla scrivania davanti a Chulov – e non hanno potuto contestare nulla. Erano tutte prove solide e i siriani lo sapevano. Ali Mamluk, il capo dell’intelligence siriana, era lì. Tutto quello che fece fu sorridere e dirmi: ‘Non riconosco un ufficiale di un paese occupato dagli americani’”. L’Iraq ritira il proprio ambasciatore da Damasco. Le relazioni restano difficili fino allo scoppio della rivoluzione.

Baghdadi prima di diventare Baghdadi
Abu Ahmed, l’altra fonte, spiega che lo Stato islamico è stato assai facilitato nella sua evoluzione dalle carceri speciali per i guerriglieri create dagli americani durante la guerra in Iraq. Erano due, Camp Bucca nel sud vicino a Bassora e Camp Cropper vicino a Baghdad. Abu Ahmed finisce a Bucca, dove conosce per la prima volta Abu Bakr al Baghdadi, nel 2004 (il capo dello Stato islamico ha passato sei mesi da prigioniero nel 2004, e non anni come scritto nelle prime biografie apparse sui media). “Non ci saremmo mai riuniti tutti assieme nello stesso posto, sarebbe stato troppo pericoloso. Invece nel campo eravamo obbligati a stare assieme, e quindi passavamo il tempo a indottrinarci e a pensare a cosa avremmo fatto quando saremmo usciti”. La fonte spiega che i due campi americani funzionavano come una scuola di partito gigantesca per i futuri quadri dello Stato islamico, che in futuro avrebbero fatto affidamento quasi esclusivamente sulle conoscenze fatte durante i mesi o gli anni di prigionia. Su venticinque leader di alto livello del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi, diciassette sono passati per quell’esperienza. “Ci segnavamo i nostri contatti e numeri telefonici sull’elastico dei boxer. Appena uscivamo, tagliavamo con cura i boxer, recuperavamo l’elastico e cominciavamo a riprendere i contatti con l’organizzazione. Tornavamo a fare quello che facevamo prima di essere catturati, ma tornavamo a farlo meglio”. In prigione, Baghdadi era considerato un tipo calmo ed era trattato con deferenza dagli altri detenuti, anche se nessuno immaginava che avrebbe fatto quello che poi ha fatto. I suoi modi da mediatore tranquillo erano richiesti dagli americani, che ottenevano dal futuro califfo che riportasse la pace dentro il campo nei periodi di tensione.

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