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Il Foglio Rassegna Stampa
26.11.2014 L'islam manipola e riscrive la storia, ecco il motivo profondo dell'odio per Israele
Analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 26 novembre 2014
Pagina: 0
Autore: Carlo Panella
Titolo: «La storia secondo l'islam»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 26/11/2014, a pag. III, con il titolo "La storia secondo l'islam", l'analisi di Carlo Panella.


Carlo Panella


Vignette che tesimoniano l'enorme diffusione dell'antisemitismo nel mondo islamico

Abramo non era ebreo, è il primo musulmano” (Corano). “Abramo ha costruito la Kaaba alla Mecca” (Corano).
“I cananei non erano fenici, erano arabi” (Regno Saudita).
“Sulla Spianata non è mai esistito il Tempio di Gerusalemme” (Saeb Erekat, Olp).
“Il Rotary club e i Lions hanno scatenato le due guerre mondiali” (Hamas).
“L’America è stata scoperta nel XII secolo dai musulmani” (Recep Tayyip Erdogan, presidente turco).

Queste perle rappresentano solo alcuni esempi di un revisionismo storico islamico pervasivo che si inventa una meta-storia. Una storia sfacciatamente a proprio uso e consumo. Una visione del cammino dell’umanità plasmata sulla lettura formale del Corano a cui i dati di fatto, quelli veri, devono piegarsi, distorcendo e ribaltando gli avvenimenti reali. Se non si parte da questa distorsione, poco o nulla si comprende del conflitto israelo-palestinese. Inclusa l’ennesima crisi che ha al centro oggi quella Spianata delle Moschee che è il baricentro dell’intera Rivelazione coranica, quindi, della negazione di ogni legittimità storica dello stato ebraico. La convinzione che quel conflitto abbia come posta “la terra” (come indubbiamente è, ma in subordine) deriva dall’ignoranza di questa meta-storia islamica. “Il Tempio? Ma io non vedo nessun Tempio!”: così nel 2000 Saeb Erekat, negoziatore palestinese degli accordi falliti di Camp David e Taba, rispondeva ironico e sfottente a Ehud Barak che pure era pronto a riconoscere a Yasser Arafat la spartizione di Gerusalemme, capitale dei due stati. Ed è proprio qui, in questa storia distorta che ispira Saeb Erekat, una storia che nega l’ebraicità intrinseca di Israele, la ragione vera, insuperabile, della non soluzione del conflitto. Unica questione nazionale del Novecento non risolta.

Chi scrive che oggi con l’assassinio dei quattro rabbini della sinagoga Kehilat Yaakov, il conflitto “rischia di diventare guerra tra religioni”, non sa, perché non vuole sapere, che i primi, terribili, fatti di sangue tra sionisti e palestinesi iniziarono con una guerra di religione nel 1929, proprio a causa del Tempio. Prova provata della centralità della leva religiosa, ben più che di quella nazionalista, in tutte le rivolte palestinesi. Fulcro del “rifiuto arabo di Israele”. Nel 1929, il Gran Mufti di Gerusalemme Haji al Hussein – futuro alleato di Adolf Hitler – prese a pretesto l’incauta decisione degli chassidim ebrei, non avallata dai sionisti, di costruire un muretto esile che dividesse le donne dagli uomini davanti al Muro, per scatenare una campagna mondiale contro la profanazione ebraica della Spianata delle Moschee. In particolare della moschea della Roccia, al cui centro vi è il masso su cui Abramo sarebbe stato pronto al sacrificio di Isacco e da cui Maometto si sarebbe involato sul cavallo alato al Buraq per la sua ascensione nell’iperuranio. Il pretesto era specioso, perché l’inopportuno muretto nulla aveva a che fare con la Spianata, era perpendicolare al Muro, alla base della collina. Ma ebbe uno straordinario e sanguinoso successo: il Gran Mufti denunciò la profanazione ebraica, chiamò i fedeli al jihad contro i giudei, organizzò tre squadre di un migliaio di uomini armati che razziarono gli ebrei di Gerusalemme. Pogrom anche a Giaffa, Tel Aviv, Gaza, Lydda e Motza. In pochi giorni i seguaci del leader palestinese massacrarono 133 ebrei e ne ferirono 339. Vittime di una guerra di religione.

Sull’onda del successo di quel massacro e dell’indignazione che quell’inesistente sfregio ebraico alla Spianata provocò in tutto il mondo islamico, il Gran Mufti lanciò una campagna diretta alla umma islamica denunciando la volontà degli ebrei di distruggere la Spianata delle Moschee e diffuse nelle moschee di tutto il mondo fotomontaggi in cui fiamme voraci divoravano la moschea della Roccia. Nel dicembre del 1931 organizzò un Congresso islamico mondiale, presieduto da Muhammad Iqbal, famoso poeta pachistano (grande ammiratore del nazifascismo), i cui 139 delegati condannarono formalmente il sionismo come antislamico (dunque una formale apertura della guerra di religione), proclamarono che non solo la Spianata delle Moschee, ma anche il Muro del Pianto che la sorregge, sono luoghi santi dell’islam, negando in maniera decisa il suo carattere sacro per gli ebrei e attribuirono al Graln Mufti la leadership islamica mondiale. A quella fatwa si riferisce ancora oggi Saeb Erekat quando nega l’esistenza passata del Tempio a ridosso del Muro.

Da allora, infiniti sono stati gli episodi di sangue originati dalla negazione islamica dell’esistenza del Tempio ebraico e quindi della sacralità del Muro. Tra il 1948 e il 1967, quando il Muro e la Spianata erano sotto sovranità della Giordania, fu impedito agli ebrei di recarsi davanti al Muro a pregare. Incidenti feroci si ebbero quando, dopo il 1967, iniziarono gli scavi archeologici che sono poi culminati nello scavo di quella fantastica galleria che fiancheggia le fondamenta del Muro costruite da Erode il Grande. Nel 2000, la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata, regolarmente autorizzata sia dalla Custodia giordana sia dall’Autorità nazionale palestinese, fu presa a pretesto per il lancio della Seconda Intifada. Due anni fa, nel marzo del 2012, Yousef Adeis, capo dei Tribunali islamici nei Territori ha lanciato l’ennesimo allarme fasullo: “La moschea di al Aqsa (denominazione araba della Spianata) è in estremo pericolo per la guerra che il governo di occupazione sionista e i coloni intendono condurre distruggendola per costruire un tempio al suo posto. Recentemente in molte riunioni segrete membri dell’esercito, rabbini e gruppi di coloni hanno discusso vari piani per demolire le moschee della Spianata. Uno consiste nel provocare un terremoto artificiale con delle mine piazzate negli scavi archeologici blasfemi effettuati”.

Non è dunque né una novità né un caso, che il tentativo di lanciare una Terza Intifada, con una nuova, massiccia ondata terroristica, come chiede Marwan Barghouti, leader delle Brigate dei martiri di al Aqsa, di al Fatah, abbia al centro la Spianata, terzo luogo santo dell’islam con la Mecca e la Medina. Né deve stupire la negazione palestinese e islamica della palese evidenza storica della millenaria presenza ebraica in Gerusalemme, incentrata prima sul Tempio, poi sul Muro. Il Corano è innervato dalla denuncia delle falsità e menzogne degli ebrei. Soprattutto nelle sure Medinensi, dettate dal Profeta negli anni della guerra con gli idolatri della Medina e dello scontro sanguinoso con le tribù ebraiche della Medina stessa. La struttura di queste numerosissime sure si incentra tutta sul tradimento da parte ebraica della fede in Dio, con conseguente uccisione dei suoi Profeti e irrisione della sua Legge (per la quale gli ebrei trasgressori “furono trasformati in scimmie e porci”). Qui ha le sue radici il revisionismo storico islamico, del tutto svincolato dalla realtà dei fatti. Lo schema coranico è semplice: l’islam è la continuazione lineare della vicenda biblica iniziata, appunto, con il primo “musulmano” – hanif – Abramo, disattesa e tradita con disonore prima dagli ebrei e poi dai cristiani. In questo contesto, la legittimità della continuità profetica viene a Maometto, che vive a centinaia di miglia da Gerusalemme, proprio dal racconto del suo viaggio mistico. L’arcangelo Gabriele lo trasporta sulla Roccia della Spianata. La Roccia di Gerusalemme diventa dunque il luogo da cui Dio sceglie di farlo ascendere, vivente, nell’iperuranio. Simbolo concreto del suo essere il “sigillo della Profezia”. Da qui, solo da qui, viene il carattere sacro per l’islam di Gerusalemme, che i primi fedeli del Profeta mai avevano neanche visto. Con questo passaggio Maometto fa sua Gerusalemme, così come fa sua, reinterpretandola, tutta la tradizione islamica (e parte di quella cristiana). Il dramma è che per la quasi totalità dell’islam contemporaneo, il rifiuto della modernità si incarna nella proibizione di ogni interpretazione, esegesi, del testo coranico. Chi propone di applicare la ragione alla fede viola il dogma del Corano Increato, che vuole il Libro incarnazione sacra della parola di Dio, preesistente ad Adamo ed estesa nell’infinità del tempo dopo il Giudizio ultimo. Chi la propone, chi separa le sure Meccane, intrise di Rivelazione (dense di afflato unitario con ebrei e cristiani) da quelle Medinensi, dettate nel vivo di un jihad sanguinario con gli abitanti della Mecca e del conflitto aperto con gli ebrei della Medina che vale loro l’esilio e poi la strage, è apostata. Il grande teologo sudanese Mohammed Taha viene impiccato su mandato di al Azhar nel 1985 per questa “colpa”.

Ecco allora che nella visione del mondo islamica si restringe, sino a estinguersi, lo spazio per la storia, per la narrazione strutturata dalla ragione e basata sui dati reali. Storia e storiografia infatti non esistono nel contesto musulmano, che conosce al massimo delle cronache. Solo Ibn Khaldoun, vissuto nel XIV secolo elabora una teoria storiografica, ma è un fenomeno isolato. La Sira, la Storia con la esse maiuscola, per l’islam è solo quella che ricostruisce gli avvenimenti della vita di Maometto. E non si basa – il dato è essenziale – su documenti scritti, al di là del Corano, ma sulla attendibilità della “catena di trasmissione” orale dei fatti e dei detti del Profeta. Detti che nei secoli successivi vengono raccolti negli Hadith che fanno parte integrante della Rivelazione. Incluso quello che dice: “Il giorno del Giudizio non verrà fino a quando l’ultimo ebreo non verrà ucciso…”, baricentro programmatico dello Statuto di Hamas.

La veridicità dei fatti affidata solo alla tradizione orale per quanto riguarda il Profeta non solo diventa il metodo storiografico principe nell’islam, ma si irradia poi su tutto quanto riguarda gli avvenimenti del passato, negando interesse per la documentazione scritta. Si inficia così dalle fondamenta qualsiasi ricerca di storia reale. Il tutto, accompagnato dalla pena di morte comminata in tutto il mondo musulmano a chi stampi un libro. Una follia che mutila il mondo islamico di libri stampati, di fatto sino al Novecento, causa determinante dei tanti mali dell’islam contemporaneo. Né la formidabile spinta alla ricostruzione storica data da Napoleone con la Déscription de l’Egypte, opera delle decine di scienziati portati al suo seguito, riesce a innescare in un mondo culturale arabo sclerotico un minimo interesse per lo studio scientifico della propria storia. Una semina nel deserto. Caduta l’unitarietà della vicenda musulmana, con la fine del Califfato decretata da Kemal Atatürk nel 1924, a fronte del drammatico problema di una umma sottoposta per molti decenni a venire al dominio politico dell’occidente cristiano, la meta-storia coranica diventa l’asse portante della legittimità delle rivendicazioni politiche e nazionali. Sempre svincolata dai dati di fatto reali, sempre priva di strumenti scientifici storiografici, ignorati dalla tradizione delle università coraniche e delle madrasse. Ecco allora che i “Protocolli dei Savi di Sion”, dopo la Nachba, la sconfitta di tutti gli eserciti arabi a opera dei sionisti nel 1948, vengono assunti a paradigma, assurgono al ruolo di chiave per spiegare gli eventi. Diventano e sono tutt’oggi un bestseller nel mondo arabo (la traduzione più diffusa in Egitto è opera del fratello di Nasser, Shawqi). Tutto lo Statuto di Hamas è dichiaratamente plasmato sui “Protocolli”, che costituiscono l’asse portante della “cultura politica”, per così dire, della sua leadership e dei suoi quadri dirigenti. Il “complotto ebraico” che determina gli avvenimenti mondiali (guerre e rivoluzioni in primis) è perfettamente aderente alla definizione coranica degli ebrei che tradiscono il Libro e la Legge. Il tutto dentro una tradizione islamica che addebita agli ebrei sia la morte del Profeta (l’ebrea apostata Zaynab, figlia di Harish, che avrebbe dato a Maometto un boccone di agnello avvelenato) sia tutte le scissioni religiose, a partire da quella tra sunniti e sciiti provocata dall’ebreo falsamente convertito Abdullah Ibn Saba, che avrebbe spinto Ali, genero del Profeta, a uccidere il califfo Uthman e a credersi di ascendenza divina, dando inizio allo scisma. Ovviamente Abdullah Ibn Saba non è neanche mai esistito. In epoca recente, il memorandum del ministero degli Affari esteri del regno Saudita, che spiega il proprio rifiuto a firmare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Onu, così motiva il diritto arabo esclusivo alla terra di Palestina: “Il popolo palestinese è stato privato dei propri diritti fondamentali nella sua patria storica, dove era vissuto sin dall’epoca degli arabi cananei, migliaia di anni fa, e ben prima della nascita di Israele. Quest’ultimo si era rifugiato in Egitto con i suoi dodici figli, che là si moltiplicarono con il passare dei secoli. Un giorno, i loro discendenti decisero di liberarsi della schiavitù faraonica e fuggirono verso la Palestina che invasero e devastarono, allo scopo di fondare una patria, e fecero ciò aggredendo una popolazione araba che possedeva il diritto esclusivo di sovranità su quella terra, sua patria storica”. Dopo un fantasioso riassunto degli avvenimenti successivi (inclusa una inesistente distruzione del Tempio ad opera di Alessandro Magno), il memorandum afferma: “Quando gli arabi musulmani giunsero nel VII secolo a liberare la Palestina dai Bizantini, non trovarono alcun ebreo in quel paese”. Il fatto è che i cananei sono una popolazione fenicia originaria di Creta, non hanno nulla a che spartire con gli arabi, le cui piccole tribù beduine più settentrionali arrivavano solo al Sinai. Inoltre nel 637, al momento della conquista araboislamica, vi erano così tanti ebrei a Gerusalemme che pochi decenni prima nel 614 si erano ribellati con successo all’imperatore bizantino Eraclio, riuscendo a imporre per 15 anni, sino al 629, un regno ebraico autonomo.

Nel contesto arabo-islamico, in cui a tutt’oggi non esistono istituti universitari di Storia a un livello minimo di decenza (lo afferma l’insospettabile Edward Said), la storia è un’opinione vaga, piegata con violenza al proprio tornaconto politico. Ultimo, risibile esempio di queste farneticazioni storiche viene da Recep Tayyip Erdogan, presidente turco, al primo Summit dei leader musulmani dell’America latina, svoltosi a Istanbul: “Marinai musulmani arrivarono in America nel 1178. Nei suoi diari, Cristoforo Colombo ha fatto riferimento alla presenza di una moschea sulla cima di una montagna a Cuba, quindi la religione islamica era diffusa già prima dell’arrivo degli europei nel 1492”. Esempio da manuale della strampalata metodologia storica di un leader musulmano, questa affermazione si basa sulla risibile opera “storica” del 1996 di Youssef Mroueh, della “As-Sunnah Fundation of America”, che interpreta come reale, e non solo metaforica, una notazione di Colombo circa la forma di un rilievo simile a una moschea nei pressi di Gibara, sulla costa di Cuba. Un delirio.

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