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Il Foglio Rassegna Stampa
19.08.2014 L' antisemitismo travestito da critica a Israele e il silenzio sui cristiani perseguitati
lettera da Tel Aviv di Nathania Zevi, David Parenzo

Testata: Il Foglio
Data: 19 agosto 2014
Pagina: 3
Autore: Nathania Zevi, David Parenzo
Titolo: «Noi, ebrei testimoni estivi a Tel Aviv e il grido dei cristiani che manca»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 19/08/2014, a pag. 3, l'articolo di Nathania Zevi e David Parenzo dal titolo " Noi, ebrei testimoni estivi a Tel Aviv e il grido dei cristiani che manca"

    
Nathania Zevi        David Parenzo



Striscione anti-israeliano a livorno

Al direttore - In molti la giudicheranno una follia, altri una provocazione, altri ancora un gesto di coraggio: quest’estate abbiamo deciso di trascorrere le vacanze a Tel Aviv con il nostro bambino di dieci mesi. Siamo ebrei italiani e sentiamo forte il senso dell’appartenenza. Avevamo programmato di fare una vacanza in montagna, in un posto meraviglioso e certamente rilassante. Qualcosa però strideva col nostro umore e con il nostro senso di responsabilità. Avevamo passato notti insonni seguendo le operazioni militari di Israele a Gaza con estrema apprensione sentendoci insieme partecipi e troppo lontani. Con tutta la preoccupazione del caso e le valige già chiuse abbiamo disdetto la montagna e prenotato per la mattina dopo un volo diretto Roma-Tel Aviv. Certo la nostra presenza in Israele non muta lo scenario politico della zona né cambia le sorti dell’economia del paese, eppure, come scrive Stefano Levi della Torre in un suo saggio, l’identità ebraica risiede ed è risultato della storia di un popolo che nel corso dei secoli forma una “mentalità collettiva”. Come tu sai, direttore, l’ebraismo è discussione continua, tra anime diverse ma tutte appartenenti alla medesima famiglia. Scuole di pensiero spesso opposte, eppure fermamente ed orgogliosamente legate al concetto di “am echad ve lev echad” – che in ebraico significa “un solo popolo un solo cuore”. Essere ebrei significa vivere l’identità come collettiva, corale, empatica. Troppo spesso, però, questo atteggiamento viene frainteso da chi non ne comprende il profondo significato umano. E così come ebrei veniamo sospettati o addirittura accusati di doppiezza o slealtà. Un’accusa che pone in conflitto, artificiosamente, l’essere cittadini italiani e allo stesso tempo ebrei legati al destino del nostro popolo, di cui lo stato di Israele è stato più volte garante dell’incolumità. In questi giorni il fondamentalismo islamico, come più volte paventato e presagito, sta perseguitando con immensa ferocia i cristiani in molte parti del mondo. Ciò che ci sorprende e ci addolora, però, è il tono basso delle voci che si levano per manifestare la preoccupazione e l’indignazione per questa tragedia. Certo il Papa e le autorità religiose fanno i loro appelli e si prodigano per interventi risolutivi, ma quello che ci chiediamo, abitando a pochi metri dal Vaticano, è perché mai i cristiani italiani, che hanno la fortuna di risiedere nella culla della loro religione, non affollino via della Conciliazione e piazza San Pietro ogni giorno anche solo per dire “siamo qui con voi!”. Anche se questo servisse solo a placare quel senso di profonda angoscia che ognuno prova nel vedere i propri fratelli, o semplicemente altri esseri umani, cadere vittime di persecuzioni e tirannie, perché non manifestare? Noi ebrei quel senso di angoscia e malessere lo conosciamo bene, perché accompagna da sempre ogni conflitto arabo-israeliano e ogni atto di antisemitismo nel mondo, eventi questi, che ci portano ad unirci e a raccoglierci. Ecco, in questo momento storico, non riusciamo a non domandarci se ci volesse un ateo devoto come te, caro direttore, per spronare la cristianità di Roma a esprimere solidarietà e a scendere in piazza. O se fossero necessari gli ebrei di Milano perché si organizzasse una manifestazione di sostegno ai cristiani perseguitati nel mondo. Ci domandiamo che ne è stato di quell’indignazione, immediata e urlata a gran voce, che una gran fetta dell’opinione pubblica prova ed esprime, legittimamente, ogni volta che lo stato di Israele si difende da un attacco. Intendiamoci, Israele può e deve essere criticata, e non è nostro intento glorificarla qui o altrove. Non possiamo però non notare che quell’indignazione, espressa in modo tanto violento quando si tratta di Israele e tanto sommesso nei confronti di altri, faccia pensare più a un comune e radicato antisemitismo che non ad una critica legittima alla politica estera di un paese. I palestinesi di Gaza sono forse più degni dell’empatia e dei cortei popolari dei cristiani europei di quanto non lo siano le sofferenze dei loro fratelli perseguitati e decapitati in medio oriente? Perché nel mondo cristiano la minaccia e la persecuzione dei fratelli non unisce, non rende popolo e non riempie le piazze? La storia ebraica insegna che identità, unione, empatia e partecipazione attiva possono essere garanzie di sopravvivenza.

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lettere@ilfoglio.it

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